Trento, sabato 30 dicembre: corteo contro il genocidio del popolo palestinese
Riceviamo e diffondiamo:
Fermiamo il genocidio del popolo palestinese
«Non dobbiamo pensare al campo di concentramento di Gaza come alla conseguenza della degenerazione del regime sionista, ma come a un suo elemento fondante. Gaza incrocia le pratiche coloniali israeliane di segregazione del nativo con la vocazione genocida insita nel suo regime coloniale di insediamento. […] Tuttavia, per una serie di ragioni, tra cui le possibili pressioni degli alleati, come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il cosiddetto “campo arabo moderato”, o le ricadute sia in termini di immagine nell’opinione pubblica mondiale […] sia di destabilizzazione di tutta l’area mediorentale, l’opzione dello sterminio non è ancora praticabile. Il fatto che i palestinesi si trovino in una condizione di umanità eccedente li rende particolarmente esposti a tentativi di “soluzione finale”, come la deportazione verso il Sinai o l’uccisione di massa».
Così scrivevano alcuni storici nel 2015 (Gaza e l’industria israeliana della violenza). Otto anni dopo, il tempo della “soluzione finale” della questione palestinese è giunto. E le sole opzioni lasciate alla popolazione di Gaza sono effetivamente la deportazione verso il deserto egiziano del Sinai o l’uccisione di massa. In meno di tre mesi di bombardamenti quotidiani, i morti palestinesi sono oltre ventimila, in gran parte bambini, e decine di migliaia i feriti che gli ospedali bombardati e lasciati senza corrente elettrica non riescono più a curare. Mai, dalla Seconda Guerra mondiale, lo sterminio di un’intera popolazione è stato così tecnologicamente preparato e politicamente rivendicato. Se il ministro della Difesa israeliano ha definito i gazawi «animali dalle sembienze umane», e il vicesindaco di Gerusalemme ha aggiunto che «non sono esseri umani e nemmeno animali, sono subumani ed è così che dovrebbero essere trattati», il primo ministro Netanyahu ha affermato apertamente che quella in corso è una nuova Nakba (parola con cui i palestinesi chiamano la «catastrofe» del 1948-49, quando 700 mila arabi vennero cacciati dai loro villaggi) e che sulle macerie delle case abbattute a Gaza – oltre il 40% del totale – nasceranno le colonie già in progettazione della Grande Israele. Alla pioggia ininterotta di bombe, comprese quelle al fosforo bianco, si aggiunge l’attacco pianificato alle fonti della vita (come la distruzione degli impianti di desalinizzazione dell’acqua e la cementificazione dei pozzi operata dai bulldozer dell’esercito israeliano). Una pulizia etnica compiuta con la totale complicità dell’Occidente, delle sue istituzioni, dei suoi media, delle sue fabbriche di armi, delle sue università.
E sulla violenza della resistenza palestinese non avete nulla da dire? – ci chiederà qualcuno.
Senza alcuna ambiguità, facciamo nostre queste parole, scritte il 25 ottobre 2014 dal dissidente israeliano Gideon Levy: «Ovunque vi girate, un soldato o un poliziotto vi possono sparare. Ogni notte la vostra casa può essere invasa brutalmente. Non sarete mai trattati come essere umani. Vi distruggeranno, vi umilieranno, vi intimidiranno, forse anche vi arresteranno, può darsi senza processo. Non vogliono che Israele continui a tiranneggiarli, così resistono. Lanciano pietre e bombe incendiarie. Qualche volta agiscono in modo atroce, ma mai in modo così brutale come gli occupanti. È un loro diritto; è un loro dovere».
Il popolo palestinese può contare sulla solidarietà internazionale di centinaia di migliaia di persone che hanno capito che oggi «Gaza è il cuore del mondo» e la Palestina «la patria di tutti gli sfruttati».
Insieme alle sorti del popolo più martoriato e oppresso del Pianeta, in questi giorni e in queste notti è in gioco la nostra stessa umanità.