TRA VECCHIO E NUOVO. Sulla contemporanea repressione antianarchica

Riceviamo e diffondiamo questo contributo, ricco di spunti interessanti e apprezzabili (particolarmente avveduta ci è apparsa l’analisi dell’“antimafia” e del peso crescente che questa ha assunto nello Stato). Un unico appunto sul finale. Non crediamo affatto che, in passato, una risposta corale alla repressione sia mancata per logiche di “cricca” o di “prese di distanza”, ma piuttosto per l’assenza di prospettive e “parole d’ordine” capaci di indirizzare la solidarietà, e di un dibattito su (e contro) la repressione che permettesse di trovarle. Come scrivevamo altrove, «una solidarietà che sa cosa dire e cosa fare non disperde (o disperde meno) le proprie forze». Ci fa piacere che questo dibattito si sia finalmente aperto, e ne pubblichiamo volentieri questo nuovo capitolo.

TRA VECCHIO E NUOVO. Sulla contemporanea repressione antianarchica*

Prima di addentrarci nelle riflessioni specifiche che riguardano il processo che ha seguito l’Operazione antianarchica denominata “Bialystok” è necessario premettere alcune considerazioni circa la situazione repressiva più generale all’interno della quale essa si inserisce. Sebbene queste siano già state espresse da più voci e in più occasioni, credo che ribadirle non possa che dar loro forza, nonché aiutarci a fissarle come punti di partenza per le nostre analisi contestuali.

Ciò che bisogna maggiormente ricordare è prima di tutto il fatto che siamo da qualche tempo a questa parte entrati in una nuova fase della strategia repressiva messa in atto dallo Stato, in particolar modo per quanto riguarda la lotta all’anarchismo d’azione e/o insurrezionalista. Questa nuova strategia prende le mosse dall’accentramento delle procure in materia di antiterrorismo, termine quest’ultimo che oggigiorno sottintende, grazie alla sua continua elasticizzazione semantica, anche le questioni che riguardano la dissidenza interna generalmente intesa. L’organo incaricato di elaborare e mettere in pratica questa strategia è la DNA, organismo creato nel 1991 come strumento di coordinazione tra le varie procure per affrontare al meglio lo scontro tra poteri Stato-Mafia. DNA sta per Direzione Nazionale Antimafia, oggi divenuta DNAA per la deroga, avvenuta nel 2015 durante il governo Renzi, di competenze appunto in ambito di antiterrorismo grazie alla legge redatta dall’allora deputato di Scelta Civica Stefano Dambruoso, vecchio volpone dell’antimafia come tanti riciclato in politica. Evidentemente queste zecche di magistrati (loro sì parassiti della società) stanno cercando di ampliare il proprio campo d’intervento, dopo aver strutturato negli anni una vera e propria lobby di potere all’interno della magistratura con notevoli capacità di influenza sia sulla politica (che hanno infiltrato, grazie alla pratica delle “porte girevoli”) sia sul dibattito pubblico nel suo complesso, grazie ad un servizievole pool di opinionisti e giornalisti lecca-toghe (i vari Saviano, Travaglio & co.) col compito di aumentare la percezione all’interno della società dell’“assoluta necessità” della propria esistenza. Si sa, anche solo per deduzione storica, che il potere dà alla testa e crea dipendenza. Non credo infatti ci siano altre spiegazioni per cui questo organismo, nato come molti altri per motivi “emergenziali”, sia ancora in piedi e cerchi di ampliare il proprio peso all’interno delle istituzioni statali. Non esiste più uno scontro frontale tra lo Stato e la Mafia, risoltosi da tempo con la vittoria dell’ala più “moderata” dell’organizzazione criminale che ha preferito la via della “trattativa” e la prosecuzione di una politica di compenetrazione nelle strutture politiche ed economiche dello Stato (soprattutto al Nord Italia), piuttosto che il braccio di forza con esso. La Mafia sembra oggi tendere più ad un atteggiamento di basso profilo per proteggere le proprie attività che a mostrare i muscoli, così come non mi sembra esistere in Italia un vero pericolo legato al “terrorismo”, sia esso di stampo islamista o eversivo. Gli attacchi e le azioni anarchiche si limitano (è con linguaggio disincantato che cerco di scrivere, lontano dalla “mitizzazione” anarchica di qualcunx che va certamente bene per la propaganda, ma non per l’auto-analisi critica) a danni materiali di modica entità, e raramente attentano all’incolumità di alcuno. Insomma, siamo ben lontani dall’atmosfera che respiravano i padroni e i loro servi durante i cosidetti “anni di piombo”, o i magistrati durante il conflitto montato durante il “maxiprocesso” intentato dallo Stato contro la Mafia.

La DNAA può contare sulla stretta collaborazione degli organi investigativi delle varie polizie, tra cui del ROS dei Carabinieri, vera e propria avanguardia nella repressione antianarchica, il che può portare comprensibilmente ad avere una notevole percezione di potere. Immaginate quante cose, quanti segreti, quanti potenziali scandali siano finiti sulle scrivanie di questi magistrati, e quanti favori elargiti per farli finire nel fondo di un cassetto! Quanta strada da quando la lotta alla Mafia veniva condotta da un manipolo di coraggiosissimi magistrati! Quanto prestigio, quanta intoccabilità e conseguentemente quanta influenza ha accumulato l’antimafia! E quanta strada sembra abbia ancora da compiere sulla pelle altrui! (nota a margine: facendo alcune ricerche viene fuori che i magistrati antimafia coordinati dalla DNAA si sono occupati anche della repressione del fenomeno cosiddetto dell’immigrazione clandestina, arrivando ad arrestare numerosi “scafisti” accusandoli di essere parte di organizzazioni criminali internazionali e usando contro di essi lo stesso metodo utilizzato per combattere la Mafia. Isolamento, pressioni psicologiche, richieste di condanne altissime per costringerli a collaborare. Solo che nella maggior parte dei casi chi guida le barche che conducono i migranti verso le nostre sponde sono migranti anch’essi a cui viene dato il timone per le ultime miglia marine, per cui completamente estranei ad alcun tipo di organizzazione di “tratta”. Un altro bell’esempio dello “sconfinamento” delle pratiche inquisitorie dell’antimafia.)

Da quando si occupa anche di terrorismo, la DNAA ha considerevolmente cambiato le dinamiche della repressione nostrana, di fatto passata dall’essere gestita localmente dalle varie questure e procure, ad essere diretta da un ragionamento di più ampio respiro e dal possedere quindi un orizzonte strategico nazionale (l’ultimo tentativo contemporaneo in questo senso fu l’Op. Marini del 1995, che faceva comunque i conti con una conflittualità anarchica di ben altro spessore rispetto a quella d’oggi).

È in quest’ottica che dobbiamo perciò inquadrare le recenti mosse della controparte: come tanti tasselli di un medesimo piano repressivo più generale.

Sull’Operazione Bialystok dal punto di vista processuale c’è poco da dire che non sia già stato scritto nei diversi testi di aggiornamento e analisi circolati in rete e pubblicati anche da questo giornale: un discorso accusatorio ridondante, ripetitivo, che puntava a costruire un’immagine dell’anarchismo contemporaneo, e degli imputati, la più mostruosa possibile per giustificarne gli arresti e la richiesta di condanna. Durante il dibattimento per colorare il racconto sono stati citati eventi e fatti diversi e lontani per contesto e tempo, come per esempio la gambizzazione del Dr. Mammoli ad opera di Azione Rivoluzionaria nel ’77, sono stati ripetutamente e ampiamente descritti i fatti per cui sono imputatx diversx compagnx nel processo Scripta Manent, si sono elencate azioni anarchiche avvenute a grande distanza tra loro, dalla Francia alla Grecia, si è dato risalto agli attacchi più incisivi o spettacolarizzati, come la gambizzazione Adinolfi, o i vari pacchi-bomba spediti negli anni agli obiettivi più disparati. Da questo punto di vista niente di nuovo sotto il sole: il solito sproloquio accusatorio che serve a rimpolpare di pietanze riscaldate una portata più che misera di prove indiziarie che non siano la mera appartenenza ideologica degli imputati all’area anarchica e il loro “curriculum militante” costituito per lo più da segnalazioni e denunce poliziesche, e quindi di nessun peso probatorio.

Lo scopo sembra scontato, ed è lo stesso metodo investigativo descritto dall’accusa a palesarlo: si è individuato un gruppo di persone i cui rapporti tra loro e con l’ambiente anarchico potessero servire da “base” per la creazione di un’associazione, si sono costruite ad arte delle prove indiziarie (vedi le cosiddette perizie “tecniche”, commissionate dal ROS a periti che non hanno nascosto le loro ripetute collaborazioni con essi e che in alcuni casi vengono proprio dai loro “ranghi”; insomma dei veri e propri “fiancheggiatori” aventi lo scopo di sostenere tecnicamente in aula le loro porcate giudiziarie), si è elaborata una narrazione volta a convincere un poco scrupoloso GIP a firmare gli arresti et voilà!: si sono così tolti di mezzo per un po’ dex anarchicx cercando allo stesso tempo di intimidirlx assieme al loro contesto di riferimento in modo da dissuaderlx dal continuare le proprie attività all’interno del movimento anarchico e le proprie lotte.

Guardando a quest’ennesima operazione antianarchica con sguardo superficiale potremmo essere portati facilmente a bollarla come repressione di routine, a cui noi anarchicx siamo ben abituatx, di cui prendere nota e andare avanti, come si è sempre fatto. Ma come si è detto in precedenza, la riorganizzazione delle strutture repressive dovrebbero indurci a cominciare a leggere ogni azione del nemico nei nostri confronti come una mossa inserita all’interno di una più ampia strategia, in modo da provare a comprenderne l’obiettivo a cui essa punta, ed avere così maggiori possibilità di contrastarlo. Come l’Op. Sibilla è stata propedeutica a spostare Alfredo al 41bis, oltre che a continuare la campagna di criminalizzazione contro la pubblicistica d’area, anche l’Op. Bialystok ha degli scopi nascosti tra le righe dei faldoni. E a dire il vero, neanche troppo bene.

Nello specifico ciò che mi preme maggiormente rivelare è il tentativo di far passare l’intero movimento anarchico combattivo come il “contesto” della radicalizzazione, il “brodo di coltura” di pratiche violente e eversive, col fine di demonizzarlo e giustificarne la futura repressione a 360°. A questo scopo è stato elaborato all’interno dell’inchiesta un discorso che ha il fine di ricostruire il mutamento che sarebbe avvenuto in alcuni ambienti anarchici italiani a seguito dell’Op. Scripta Manent, mutamenti che si sarebbero manifestati proprio attraverso la solidarietà espressa da moltx nei confronti dex anarchicx indagatx e arrestatx durante quell’operazione. Questo discorso, dopo aver elencato gli elementi che secondo l’accusa costituiscono la prova di un avvenuta “radicalizzazione” di alcuni degli indagati, entra nel merito di quali avrebbero dovuto sostenere l’accusa di istigazione a compiere atti di terrorismo o eversione (art. 302 cp) e a quel punto si prodiga di descrivere il movimento anarchico come quel contesto all’interno del quale l’istigazione si esprimerebbe e che potrebbe raccoglierla. L’istigazione anarchica non sarebbe quindi rivolta ad una generale platea di ascoltatori, al “popolo”, ax sfruttatx o ax esclusx che dir si voglia, ma ad un gruppo specifico, x anarchicx stessx, che sono x solx a poterla effettivamente accogliere e mettere conseguentemente in atto azioni delittuose. Per loro stessa natura quindi questx sono da considerarsi pericolosx, e non tanto per la pericolosità intrinseca delle loro idee, di cui non frega niente a nessuno, figuriamoci delle loro proposte pratiche che non mi risulta si siano diffuse grazie all’esempio delle tante azioni dirette avvenute negli ultimi anni, ma per il fatto che essx si professano (e sono, da quanto indica il loro profilo giudiziario) aderenti a quelle idee che fanno dell’azione diretta il metodo per raggiungere un qualsiasi scopo, e quindi anche la distruzione dello Stato e di tutte le forme di potere. Non sono infatti solo difensori “d’un’idea terribile e meravigliosa”, ma tentano anche (a volte) di darle corpo con il loro agire! Questo ragionamento ha lo scopo di tacciare indiscriminatamente ogni anarchicx di pericolosità sociale. Premesso che questo mi lusinga, e che penso che sia (purtroppo) un fatto molto lontano dall’essere vero, ciò su cui voglio portare l’attenzione sono le possibili conseguenze di un ragionamento del genere: si tratta, checché ne diranno i signori giuristi quando cercheranno di salvare capra e cavoli (ovvero la facciata democratica dello Stato e la sua necessità storico-contestuale di divenire autoritario-totalitario) di criminalizzare un’idea, un pensiero politico e filosofico, in modo da giustificare la sua repressione. È solo perché siamo ad uno stadio della democrazia in cui essa necessita ancora di mantenere le giuste apparenze col fine di mantenere un certo livello di accettazione sociale da parte di quella parte di borghesia sovraintellettualizzata che ancora crede nella favola dello “Stato di Diritto” che la repressione deve avanzare a piccoli passi, aprendo piccole porte, creando possibilità per il suo agire futuro. Non sto quindi dicendo che da domani l’anarchismo sarà messo al bando, ma che si stanno strategicamente predisponendo gli strumenti repressivi adatti a farlo praticamente scomparire, almeno nelle sue espressioni più conflittuali. Un giorno basterà avere a casa un determinato opuscolo o libro, avere un certo “curriculum” poliziesco, essere stato fermato o identificato ad una certa iniziativa per giustificare la richiesta di misure cautelari o preventive nei propri confronti. Anche qui: niente di nuovo sotto il sole, non c’è di che allarmarsi: son cose già successe nella storia del movimento anarchico, il che dovrebbe da solo spingere ad abbandonare ogni pietoso vittimismo. L’idea non è quella di fare il menagramo, ma di abituare all’idea, in modo da non farsi trovare impreparatx, sia psico-emotivamente che strategicamente.

Questa logica dell’agire repressivo è la stessa che sottende il provvedimento che ha gettato Alfredo in 41bis: se la FAI non può essere considerata una organizzazione in senso classico, con chi deve essere impedito che dialoghi Alfredo? Ma con il movimento anarchico tutto è ovvio!, essendo esso un ricettacolo di terroristi in erba, un substrato di cellule dormienti pronte ad attivarsi. È il movimento che deve apparire pericoloso, per giustificare il provvedimento che impedisce a Cospito di dialogare con esso. È implicitamente il movimento anarchico ad essere considerato dai magistrati del Tribunale di Sorveglianza di Roma l’organizzazione criminale con cui deve essere impedito ad Alfredo di comunicare. Siamo chiaramente di fronte ad un cambio di paradigma della repressione antianarchica. Se nel processo “Scripta Manent” la divisione in aree dell’anarchismo è stata infatti funzionale a creare una distinzione tra “anarchici buoni” e “anarchici cattivi” per cercare di isolare dal resto del movimento e dalla solidarietà gli imputatx, nel nostro caso invece si postula un superamento delle vecchie divisioni per criminalizzare l’intero movimento. Proviamo ad ipotizzare il ragionamento della controparte: se unx genericx quanto immaginarix anarchicx non si fa scrupolo di rivendicare le proprie azioni ora con una sigla ora in forma anonima, o decide di non rivendicarla affatto, o oscilla tra un intervento e un interesse per le lotte “sociali” e una progettualità individuale e nichilista (caratteristiche queste della cosiddetta “Nuova Anarchia”, ovviamente secondo gli inquirenti), allora è difficile attribuire un determinato fatto a lui o a qualcun altro in riferimento alla loro “area anarchica” di appartenenza (anarchismo sociale, classico, informale, o ecologista che sia). Questo fa di ogni anarchico un potenziale bombarolo agli occhi degli inquirenti, della magistratura e, ovviamente, dei media mainstream, con buona pace a chi questo accostamento fa venire il mal di pancia e ha provato in passato a fare i dovuti distinguo mettendo distanza tra sé e certe azioni.

Un altro passaggio importante del discorso repressivo è che questo “superamento” delle vecchie divisioni tra anarchismi sarebbe avvenuto seguendo i dettami dell’anarchico prigioniero Alfredo Cospito. In questo modo si vorrebbe connotare di particolare pericolosità questo passaggio strategico, essendo stato elaborato dal “più pericoloso anarchico in vita” (Cit. Colonnello Imperatore, principale test dell’accusa). Questo accostamento ha anch’esso il fine di costruire un’immagine di particolare pericolosità del movimento anarchico a seguito delle prime condanne serie incassate dalla magistratura dopo vent’anni di repressione antianarchica. Alfredo Cospito è il “nuovo mostro” da poter sventolare in ogni inchiesta, in ogni richiesta di sorveglianza speciale, in ogni richiesta cautelare, dove si siano registrati dei contatti tra inquisiti e questo prigioniero fieramente anarchico. Della serie: avete visto come tra x anarchicx ci sono persone pericolose, che sparano e mettono le bombe, dunque evidentemente tuttx quellx che gli portano solidarietà non sono da meno, o rischiano di diventarlo. Un anarchico che ha sparato nel 2011, quando si sarebbe voluto veder sparito per sempre lo spettro dello scontro armato tra oppressi e oppressori, che se l’è rivendicato in aula durante il processo e che ha continuato a promulgare l’idea dell’azione diretta violenta e distruttiva per cambiare questo stato di cose, un anarchico che è stato pure accusato di aver partecipato alla FAI per anni, e nello specifico di aver ideato e attuato diversi attentati esplosivi, tra cui quello orchestrato con due ordigni predisposti con il metodo del “richiamo” avente lo scopo di colpire le forze dell’ordine accorse, beh deve essere per forza un essere abietto e chiunque che solidarizzi con lui non dev’essere da meno! Avete notato che in molti articoli pubblicati da vari giornali Alfredo è ormai stato ribattezzato “il leader degli anarchici”? Un piccolo passo per la narrazione mainstream, un grande passo per la magistratura!

Alla luce di quanto esposto potremmo affermare quindi che il carattere preventivo della repressione sia espressione della necessità degli organi repressivi di mettere un freno alla progressiva “radicalizzazione” del movimento anarchico. O, ribaltando il punto di vista, al fermento dell’anarchismo d’azione che da qualche tempo a questa parte sembra riprendere iniziativa e slancio nella penisola a forma di stivale. È evidente infatti come l’Op. Scripta Manent (assieme a quelle che l’hanno seguita, Bialystok compresa) non sia riuscita nel suo scopo di isolare le componenti più conflittuali dell’anarchismo dal resto del movimento, ma al contrario, essa ha contribuito, grazie alla diffusione della solidarietà, a fare in modo che certe pratiche e certe azioni fossero assunte dalla quasi interezza del movimento come pratiche “legittime” e da annoverare tra quelle che costituiscono la cassetta degli attrezzi di ogni anarchicx. Allora ecco che la repressione ha la necessità di estendere la sua azione “dissuasiva”, distribuendo decine di anni ax suppostx autorx di un certo genere di attacchi, e sbattendo dentro per mesi qualche dozzina di anarchicx con l’accusa di associazione terroristica, o attentato, per aver in diverso modo solidarizzato con loro o perché qualcunx ha compiuto nei dintorni di dove risiedono azioni “esplosive” o semplicemente distruttive sempre più spesso efficaci e puntuali (come nel caso dell’ondata di attacchi alle Poste per via della loro collaborazione con la macchina delle espulsioni). In definitiva la nuova strategia in essere non si discosta tanto dal vecchio adagio “colpirne uno per educarne cento”, a controprova che la storia non fa che ripetersi, seppur in nuove vesti e in nuovi contesti, con l’aggiunta di un dispiegarsi di dispositivi pronti ad entrare in azione nel caso che quei cento proprio non ne vogliano sapere di farsi addomesticare. Ad aiutarci può correre la consapevolezza che a vecchio problema vecchia soluzione: non può che essere la solidarietà reale, effettiva, attiva e d’azione a dimostrare sopra ogni cosa quanto la strategia del nemico sia inutile ed inefficace, e che ad ogni tentativo della repressione di intimidirci sia possibile rispondere moltiplicando le iniziative solidali e gli attacchi. Che la solidarietà sia il migliore degli antidoti contro la repressione è stato lungamente dimostrato dai cicli di lotte che ci hanno preceduto, una lezione di cui sembra che il movimento anarchico italiano sia finalmente riuscito a fare tesoro (dopo i tristi tempi della solidarietà “a cricche”, cioè del difendo, con il coltello tra i denti, solo “i miei”), come dimostra la combattiva mobilitazione in solidarietà ad Alfredo in sciopero della fame. Ora che la strada è stata (ri)trovata, si tratta solo di non smarrirla di nuovo durante le bufere che ci aspettano in futuro.

Unx di Bialystok

*n.d.a. Quest’articolo è originariamente apparso sul quindicinale anarchico “Bezmotivny” nel numero del 6 Febbraio 2023. La presente versione ha subìto delle leggere modificazioni rispetto all’originale.