Biolaboratori

«Se la vaccinazione di massa anti-Covid producesse conseguenze sanitarie disastrose, accertarlo dopo sarebbe troppo tardi. [] Se invece fosse un “successo”, essa ci farebbe sprofondare ancora di più nell’ingegneria genetica, cioè nel mondo degli uomini-macchina e della Natura-Lego». Così scrivevamo, agli inizi di gennaio 2021, nelle Note urgenti contro la campagna militar-vaccinale. La «vaccinazione» bio- e nano-tecnologica di massa era cominciata da un paio di settimane. Se una comprensione più precisa e approfondita della storia e delle caratteristiche dei pro-farmaci a m-RNA e a DNA ricombinante ci ha richiesto parecchio studio, ci è risultata subito chiara la portata dell’esperimento in corso. E questo non in base a un sapere specialistico, bensì a delle coordinate etico-sociali in cui collocare le analisi specifiche. (La nozione stessa di categoria è in tal senso illuminante: katá-agorein significa letteralmente «sottoporre un discorso alla piazza», proprio a sottolineare quanto le griglie con cui interpretiamo il mondo siano profondamente sociali). Queste coordinate si basano su alcuni punti fermi, a loro volta distillato dell’esperienza storica che gli umani hanno già sviluppato nei confronti della tecnoindustria, dei suoi prodotti e dei suoi paradigmi.

Ora, a più di due anni di distanza da quelle Note, possiamo affermare che la «vaccinazione» genetica è stata allo stesso tempo un disastro sanitario e un “successo” tecnoindustriale. Se gli effetti gravi registrati, la mortalità in eccesso «per tutte le cause», il fenomeno dei malori improvvisi tra giovani e giovanissimi sono sempre meno occultabili, il balzo in avanti compiuto dalla geno-industria è stato impressionante. Tecniche che fino a quel momento avevano accumulato soprattutto fallimenti commerciali hanno raccolto finanziamenti a pioggia. E questo per varie ragioni tra loro combinate. La finestra giuridico-normativa che si è aperta – ricordiamo che l’autorizzazione alla sperimentazione e alla commercializzazione dei «vaccini» genetici è stata possibile in Europa solo grazie a una «deroga temporanea» delle direttive UE in materia di OGM – ha permesso di introdurre nuove colture e nuovi prodotti transgenici (e non si chiuderà da sola, quella finestra, come tutte le Emergenze c’insegnano); lo stesso paradigma genetico si è subito allargato ad altri ambiti medici; si è ulteriormente accresciuto l’interesse da parte del mondo militare, che a livello mondiale finanzia ormai la maggior parte delle cosiddette ricerche avanzate. Se abbiamo toccato con mano il fatto che le «tecnologie convergenti» (Nano, Bio, Info e Cognitive) convergono davvero, la guerra in Ucraina – con l’annessa questione dei biolaboratori – ha reso palese che gli esperimenti biologici sono parte integrante dei conflitti in corso e ancor più di quelli in preparazione. Il che, d’altra parte (e questa è una buona notizia), ha sottratto forse per la prima volta ai laboratori duali in cui si studiano virus e malattie infettive ogni aria di innocenza. Coloro che ci «proteggono» da certe minacce sono gli stessi che le creano: le creano per poterle studiare, le studiano per poterle combattere, le combattono producendone di nuove.

Che, in piena Emergenza Covid, un biolaboratorio USA (il NAMRU-3) sia stato trasferito dall’Egitto alla base statunitense di Sigonella non è certo un caso né un dettaglio. Né che di simili biolaboratori ne vogliano aprire altri tre in Italia, grazie ai fondi del PNRR: a Pisa, a Livorno e a Pesaro. In un’epoca in cui i centri gravitazionali del potere si apprestano alla guerra aperta e simmetrica, alle armi «convenzionali» si affiancano sempre di più quelle ibride, «sporche», dissimulate. Così, mentre la guerra diventerà l’impegno principale degli Stati e dei sistemi produttivi, l’ingegneria genetica si trasformerà in un autentico vettore di potenza. Per converso, maggiore è la potenza tecnica che un apparato sa dispiegare nella trasformazione della materia-mondo, più ferocemente riduzionistico si fa il paradigma con cui esso interpreta il vivente in quanto tale. Tutto è manipolabile perché tutto è visto come un flusso di informazioni tra i corpi e il loro ambiente, con ogni componente organica ridotta a una sequenza di numeri e di codici. Mentre elogia fintamente la complessità dei problemi (con cui giustifica la delega agli «esperti» e alle loro macchine), il riduzionismo geno-informatico fa impallidire e persino rimpiangere il rozzo meccanicismo dell’Ottocento, che almeno non aveva i mezzi tecnici per adattare il mondo intero alle sue grossolane ipotesi.

Mi è capitato qualche mese addietro di ascoltare una conferenza nella quale un esperto di informatica spiegava le caratteristiche e il funzionamento dei «vaccini» a m-RNA. Con una sorta di stupore-entusiasmo di tipo gnostico, si diceva sbalordito di come le cellule dell’organismo umano assomiglino in tutto e per tutto a dei codici informatici (che non si trattasse affatto di una «scoperta» bensì dell’applicazione di un paradigma operativo, ecco un dubbio che non lo sfiorava nemmeno). Così concludeva l’informatico: «Ma visto che lo facciamo artificialmente, lo facciamo meglio che in natura». Come si vede, il transumanesimo è un ambiente mentale e storico.

Ha scritto l’antropologo indiano Amitav Ghosh: «fu la trasformazione degli esseri umani in risorse mute a permettere il balzo concettuale in seguito al quale divenne possibile ridurre all’inerzia la Terra e tutto ciò che conteneva. [] Solo dopo averlo immaginato come morto abbiamo potuto dedicarci a renderlo tale».

Se l’opposizione ai nuovi biolaboratori è, oltre che una necessaria forma di autodifesa collettiva, anche un’occasione per attaccare la guerra e l’ingegneria genetica nel luogo esatto del loro intreccio, essa richiede il rovesciamento del paradigma in cui ci stanno incarcerando. Prima che buttino via la chiave.

Con questo «fanale oscuro», il trentaduesimo, l’omonima rubrica dismette la sua cadenza settimanale. I pezzi usciranno d’ora in poi in maniera aperiodica.