I mezzi e i fini
«Se per vincere dovessimo erigere le forche, preferirei perdere». In questa lapidaria frase di Malatesta è racchiuso l’ideale anarchico. A differenziare l’anarchismo da tutte le altre correnti storiche del movimento di autoliberazione proletaria non è solo la sua posizione antiparlamentare né, più in generale, il rifiuto dell’uso «temporaneo» dello Stato per raggiungere l’emancipazione sociale. Si tratta, in un caso come nell’altro, dell’applicazione pratica di uno stesso principio di fondo: la necessaria coerenza tra mezzi e fini. La «razionalità della potenza» – vero e proprio motore degli ultimi due secoli di sviluppo tecno-economico – ha confermato tale principio fino all’abisso atomico. Non esiste alcun fine che possa essere, non solo giustificato, ma nemmeno perseguìto attraverso mezzi capaci di disintegrare la vita terrestre, cioè quel mondo senza il quale non può darsi alcuna finalità umana. Coloro che pensavano che il potere coercitivo dello Stato fosse una misura «necessaria e temporanea» verso l’uguaglianza hanno dapprima sfigurato ignobilmente il socialismo e poi lo hanno dichiarato compatibile persino con gl’arsenali di bombe nucleari.
La questione del 41 bis – benché coinvolga direttamente la vita di poco più di settecento persone – è a suo modo un saggio sulla moralità. Chi pensa che sia legittimo l’impiego di mezzi di tortura istituzionale per raggiungere determinati fini («sconfiggere la mafia», ad esempio) non solo conferma il proprio machiavellismo etico, ma rafforza in realtà quello stesso potere di cui la mafia è parte. Il punto non è quali persone vengono torturate (fossero pure le peggiori del mondo), ma cosa succede alle nostre vite quando ci facciamo complici silenti della tortura. A questa posizione «di principio» si affianca l’esperienza storico-sociale: certe misure «necessarie e temporanee» non solo non vengono mai abrogate, ma allargano di continuo il confine dei «nemici» contro cui possono essere applicate.
In tal senso, lo sciopero della fame di Alfredo Cospito ha un valore tanto partigiano – la sua determinazione si è infilata come un cuneo dentro l’azzardo statale di applicare il 41 bis ad un anarchico in vista di allargarlo poi ad altri compagni accusati di «associazione sovversiva con finalità di terrorismo» – quanto universale: in quella tomba per vivi non dev’esser più rinchiuso nessuno.
Nella falsa parola di Stato, tutto questo diventa una «saldatura tra anarchici e mafia», con Alfredo presentato come uno strumento nelle mani dei mafiosi. In realtà, sono lo Stato e la mafia ad avere in comune sia una scambievole e proficua collaborazione storica, sia un’identica concezione del rapporto mezzi-fini. Condividono la stessa visione neoliberale, per cui gli affari sono affari, e la stessa strategia politica: per preservare il proprio potere si può ricorre a ogni mezzo, massacro compreso. Non a caso la stagione delle stragi anti-proletarie viene inaugurata nell’Italia repubblicana a Portella della Ginestra, con l’eccidio mafioso dei contadini e dei braccianti per conto degli agrari e della CIA.
Caso ha voluto che a «gestire» le contraddizioni esplose grazie allo sciopero di Alfredo non fosse il governo di «unità nazionale» che quel 41 bis glielo ha imposto, bensì un esecutivo di «postfascisti». Cioè degli eredi di un movimento utilizzato nella «Repubblica nata dalla Resistenza» quale truppa interna al soldo della CIA e della NATO e quale forza ferocemente anticomunista. E lo scoop sarebbe che Alfredo nel carcere di Bancali parlava con il tal ‘ndranghetista! Con chi avrebbe dovuto parlare, dal momento che nell’ora d’aria può incontrare al massimo tre persone, decise per altro dalla direzione: con gli agenti del Gruppo Operativo Mobile, magari gli stessi impiegati nelle torture di Bolzaneto? I giornalisti ci informano che questo ‘ndranghetista è un ex militante di Ordine Nuovo – cioè un soldato politico di una organizzazione nata come costola del MSI; possiamo quindi affermare con il massimo rigore che la sua storia e la sua ideologia figurano nello stesso album di famiglia di chi sta al governo. Mentre i compagni degli anarchici sono gli assassinati dai birri sabaudi, monarchici e repubblicani, dalle lupare mafiose e dal piombo di Stato.
Come al solito, invece di ricordare i legami storici tra mafia, CIA, apparati istituzionali e neofascismo, gli eredi dello stalinismo – che in Italia è stato il più insidioso nemico del movimento rivoluzionario – fanno a gara su chi protegge con più «fermezza» lo Stato. Gli anarchici, viceversa, sarebbero contro il 41 bis persino se vi finissero dei parlamentari e dei borghesi (invece dei loro tirapiedi-concorrenti sconfitti o dei poveri diavoli opportunamente mostrificati)!
Perché mai un uomo che ha sparato nelle gambe dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare prova umana empatia per dei mafiosi vecchi e malati che da trent’anni sono privati di ogni abbraccio e della possibilità stessa di guardare un albero o un filo d’erba? Forse perché il primo era nel pieno esercizio della sua potenza tecnocratica – il cui dispiegamento lo abbiamo visto nel disastro di Fukushima o nell’impiego sul campo dei proiettili all’uranio impoverito – , mentre i secondi sono capitalisti illegali sconfitti, nonché uomini sepolti vivi da uno Stato stragista come e più di loro?
Capita, ad anarchiche e anarchici, di trovare compagne e compagni di lotta contro determinati obiettivi (il TAV, le coltivazioni transgeniche, lo sfruttamento lavorativo, il green pass, la guerra, il carcere…). Ma queste compagnie – più o meno durature, più o meno occasionali – quasi mai scalfiscono a fondo il loro sentimento di solitudine morale. Nel movimento contro il TAV non è mancato chi ha appoggiato elettoralmente i 5 Stelle, cioè uno dei partiti più manettari della storia di questo Paese, come la questione del 41 bis illustra abbondantemente. Nella campagna internazionale contro gli OGM, se pochi puntavano sull’azione diretta e sul sabotaggio di campi sperimentali e di laboratori di ricerca, i più chiedevano l’etichettatura dei prodotti geneticamente modificati. Nella resistenza allo sfruttamento ci sono stati, oltre ai blocchi e ai picchetti, anche sindacalisti che andavano in Prefettura a chiedere l’intervento istituzionale contro gli eccessi padronali. Nelle piazze contro il lasciapassare non pochi reclamavano una nuova Norimberga o il 41 bis per Draghi. Per una parte non proprio minuscola di coloro che si schierano contro le bombe della NATO, il potere russo è, se non un’alternativa da appoggiare, il male minore da non criticare. E anche ora, tra chi si mobilita in solidarietà con Alfredo e contro il 41 bis, ci sono componenti politiche che hanno appoggiato ieri l’altro la discriminazione sociale dei renitenti alla «vaccinazione» genetica.
L’auspicio più profondo è che la battaglia contro il 41 bis – in cui un compagno si sta giocando letteralmente la vita – sferri un poderoso attacco sia al carcere sia al calco ch’esso ha scavato negli spiriti: il fine giustifica i mezzi.
«Perché la rivolta non ha mai affermato nel suo moto più puro se non l’esistenza di un limite, di una dignità e di una bellezza comune agli uomini».