I valori dell’annientamento
«L’annientamento diventa […] del tutto astratto e assoluto. Non si rivolge più contro un nemico, ma è ormai al servizio solo di una presunta affermazione oggettiva dei valori più alti – per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto». Così scriveva, nel lontano 1963, il nazista Carl Schimtt nella sua Teoria del partigiano.
Questa «presunta affermazione oggettiva dei valori» è diventata nel frattempo una macchina spettacolare talmente pervasiva da coinvolgere nelle sue rovinose conseguenze le stesse classi dirigenti. Ogni strategia di potere presuppone, infatti, almeno due elementi: la conoscenza della storia; la capacità di distinguere i giudizi di fatto dai giudizi di valore. La distruzione sistematica del passato – della sua lunga stratificazione di esperienze, dei suoi saperi, delle sue tracce sensibili – aumenta senz’altro la potenza tecnica sul mondo e sui viventi, ma impedisce ogni uso strategico della storia. L’impossibilità pubblica di analizzare dei fatti senza un preliminare giuramento su determinati «valori», giuramento che contiene in se stesso la contraffazione dei fatti, rende l’unanimismo spettacolare tanto feroce quanto stupido. «Mi dica, dottore, lei cosa ne pensa di questi prodotti?». «Per risponderle, devo spiegare brevemente qual è la loro storia e su quali paradigmi si fondano». «Ma lei li usa e ne incoraggia l’uso sì o no? Perché se la risposta è no, è inutile che ne parliamo». «Mi dica, professore, cosa ne pensa della guerra in corso?». «Per risponderle, devo richiamare brevemente storia e contesto». «Ma sarà ben d’accordo che c’è un aggressore e un aggredito, altrimenti non abbiamo gli stessi valori e il confronto è impossibile». Un tale monologo totalitario può fornire nell’immediato sorprendenti risultati di annientamento sociale; ma collocando in soffitta, alla lunga, fatti storici, analisi dei rapporti di forza, calcolo delle risorse disponibili, uso calibrato e progettuale della menzogna propagandistica, fa sprofondare nell’irrealtà.
Dopo che per undici mesi i pifferai di casa nostra hanno sostenuto che l’esercito ucraino avrebbe potuto cacciare quello russo, descritto ormai allo sbando e a corto di armi, ora la classe dominante invita i suoi analisti stipendiati ad esporre la realtà dei fatti. Eccola, dice il tal geopolitologo: l’esercito ucraino non può reggere lo scontro; se si punta sul prolungamento indefinito del conflitto, oltre ad armamenti sempre più potenti, la NATO dovrà mandare sul campo direttamente le proprie truppe, cioè prepararsi alla Terza Guerra Mondiale. Un giudizio di fatto. Il titolista dell’articolo lo trasforma in un giudizio di valore appena mascherato: L’ipotesi di inviare truppe occidentali non può essere scartata.
Il dato inedito, e tragico, è che per la prima volta nella storia la più stupida incoscienza corrisponde esattamente al grado raggiunto dalla potenza tecnica.
Se esiste una parola la cui corretta definizione risulta decisiva, questa è senz’altro la parola «tecnocrazia». Il concetto, introdotto nel 1919 da William Henry Smyth, viene usato per lo più a sproposito, come insieme di poteri finanziari e burocratici sovranazionali, contrapposti alle istituzioni politiche nazionali. Alcuni anti-industrialisti francesi, invece, definiscono opportunamente la tecnocrazia come la classe della potenza e della volontà di potenza. Se, con l’ascesa della borghesia, il profitto ha soppiantato gli altri elementi dell’antico regime, nell’èra tecnologica la razionalità della potenza prevale alla lunga su tutto il resto. La guerra è al contempo la massima espressione e il brutale contraccolpo di questa razionalità.
Solo che in guerra – il più pianificato e insieme il più imprevedibile esercizio della potenza – entrano in gioco le strutture stesse delle società coinvolte, cioè la loro storia.
Il conflitto in atto in Ucraina – con la Federazione russa da un lato e ben trenta Paesi della NATO dall’altro – è uno scontro tra due modelli tecnocratici, cioè tra due diverse classi della potenza.
Dottori in nulla, ma con qualche rudimento di storia del potere, abbiamo affermato fin dalle prime operazioni militari che in uno scenario di guerra dispiegata e simmetrica il modello centralistico-statale tende ad avere la meglio su quello «neoliberale»; e che quest’ultimo è costretto a mutuarne via via caratteristiche e punti di forza. In guerra occorrono filiere produttive più corte; è più utile avere grandi quantità di grano che controllare i mercati mondiali dei futures; servono maggiormente gl’ingegnieri degli avvocati e degli economisti; la produzione bellica più efficace non è soltanto quella hi tech, ma quella più rapidamente adattabile alle esigenze dell’esercito; al fianco delle schiere di biotecnologi, si deve aver fabbricato centinaia di migliaia di soldati in grado di manovrare l’artiglieria; il «valore più alto» non è quello che si sbandiera in televisione, ma la potenza effettivamente impiegabile sul campo. Se in guerra si scopre, ad esempio, a cosa servono davvero i bio-laboratori, emerge anche, come ha scritto di recente un borghese intelligente, che «una parte importante del PIL è solo vapore acqueo».
Mentre nel «giardino» occidentale si cerca sempre più maldestramente di coprire la potenza con i «valori», nella «giungla» – cioè nel resto del mondo, secondo la metafora del feldmaresciallo Borrell – miliardi di persone rifiutano quegli stessi «valori», che gli sono stati esportati con la spada evangelizzatrice e con la schiavitù coloniale. Per questo il capo di Stato russo è abile nel nascondere la tecnocrazia assoluta del suo apparato nucleare dietro i discorsi anti-colonialisti. Per questo si richiama al risveglio del mondo dei padri e della famiglia tradizionale contro l’assalto dei «satanisti» d’Occidente. Nella fucina della guerra, si fondono, insieme ai materiali, le visioni del mondo.
Sola resiste alla fusione una debole forza, che pronuncia la più eretica delle formule: «Mai rispondere a un male con le reazioni pronte ad aumentarlo». Di lì può promanare una violenza eticamente e qualitativamente diversa, in grado di rivoltarsi «dinanzi alla macchina sociale, diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine» (Simone Weil).