Spartiacque

 

È più facile che il potere si abolisca da sé piuttosto che un militante di sinistra (anche estrema) contrasti i progetti transumanisti. Le nuove generazioni, per le quali la questione ecologista assume giustamente una grande importanza, sembrano ancora meno critiche verso l’apparato tecnologico. A un incontro dei Fridays for Future a Torino, ad esempio, un nutrito gruppo di attivisti raccoglieva le firme a favore della carne sintetica: l’abominio di un cibo ricombinato e fabbricato in laboratorio spacciato per soluzione ecologica. Se risuona di continuo nelle loro rivendicazioni la messa al bando dei combustibili fossili, ben di rado la critica si estende al complesso elettro-nucleare, e ancora meno alla digitalizzazione della società.

Per questo, come accennato nel precedente «fanale», i rivoluzionari anti-industrialisti si trovano oggi ad agire su di un terreno spesso inquinato dall’integralismo cattolico e da una certa destra. Tutto ciò spiega, in ambito «antagonista», sia i tanti silenzi cautelativi per non essere confusi con, sia le vere e proprie sbandate di certuni verso alleanze tossiche. Chi pensava che determinate ambivalenze e ambiguità fossero un capitolo aperto e chiuso con l’Emergenza Covid, i «vaccini» genetici e il lasciapassare, sarà il caso che si ricreda in fretta. Inquinamenti e disorientamenti molto simili si sono registrati e si registrano egualmente rispetto alla guerra in Ucraina. La logica «pavloviana» del riflesso condizionato gioca, anche in questo caso, brutti scherzi. Quando tra chi si schiera contro l’intervento della NATO si trovano reazionari e fascisti, dovremmo stare zitti o, peggio ancora, arruolarci con il blocco di potere occidentale? La difficoltà nel trovare un posizionamento teorico-pratico autonomo può forse dare un senso di vertigine, ma senza tale vertigine non è più possibile né pensare né agire. Se il katéchon, cioè il «potere che frena», viene individuato dai reazionari ostili al transumanesimo nell’ordine gerarchico-religioso tradizionale, la potenza etica in grado di contrapporsi alla grande finanza e alle multinazionali anglo-americane viene individuata nello Stato. Su questo – «Italia colonia degli USA», «pianificazione statale contro sregolatezza neoliberista» ecc. – i «sovranisti» di destra, rosso-bruni e di sinistra hanno diversi elementi in comune. Non è un caso ch’essi condividano gli stessi riferimenti a Gramsci. Non solo per il tema dell’egemonia culturale come parte decisiva della battaglia politica, ma per la rivendicazione del tema nazionale. Per quelli più “a destra”, il superiore interesse della nazione richiede la collaborazione tra le classi contro le «élite finanziarie transnazionali»; per quelli più “a sinistra”, soltanto la classe operaia sarebbe garante di un vero sviluppo industriale, nonché «baluardo delle libertà essenziali della nazione». In un caso come nell’altro, il katéchon è lo Stato. Per entrambi, infatti, multinazionali finanziarie, Big tech e Big data – i ben noti «padroni universali» – avrebbero ridotto al lumicino il potere degli Stati. Queste «scabrose assonanze» hanno una lunga storia alle spalle. Se volessimo cercare un parallelo storico al disfacimento in corso dell’ordine mondiale (e alle acque limacciose che questo agita nella società), il precedente più suggestivo sarebbe forse quello dell’occupazione dannunziana di Fiume, tra il settembre del 1919 e il dicembre del 1920. Non è un caso che la Costituzione repubblicana di Fiume – la cosiddetta Carta del Carnaro – sia stata scritta dall’ex sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris. Dentro vi si trovano tutti i temi del «sovranismo» attuale: sviluppo industriale contro i pescecani della finanza, legislazione del lavoro e gestione corporativa dell’economia, alleanza tra proletariato e borghesia «progressiva», equiparazione dei proprietari d’azienda ai produttori, primato dello Stato sul mercato, Nazione Armata. Malatesta fu tra i pochi, nel campo rivoluzionario, a scorgere nell’impresa fiumana l’inizio di disfacimento dell’ordine liberale e a capire l’importanza di guadagnare alla battaglia antiborghese e antigovernativa almeno una parte della gioventù di Fiume. Lo stesso Mussolini – il quale ha copiato D’Annunzio in tutto e per tutto – non era affatto sicuro di poter schierare il dannunzianesimo al fianco del padronato contro i proletari. Ma Malatesta non si mise certo a parlare di sovranità nazionale in nome di un comune fronte anti-monarchico…

Viceversa, in Gramsci, il tema della nazione – e del proletariato come suo più legittimo rappresentante – discendeva dal suo modo di intendere la produzione industriale quale valore in sé (salvo cambiare i suoi organi di direzione e l’appropriazione sociale dei beni) e lo Stato quale agente del cambiamento. Poiché la classe capitalistica, nella visione di Gramsci, era incapace di sviluppare davvero la produzione industriale, essa tendeva per ciò stesso a dissolvere la nazione. Ecco un riassunto del programma gramsciano: «Il proletariato dimostra ancora una volta di essere il vigile depositario degli interessi vitali e permanenti della nazione, di essere l’unico baluardo delle libertà essenziali della nazione» (L’Italia e la Russia, «Ordine Nuovo», 14 giugno 1919); «il suo programma di classe è il solo programma “unitario”, cioè il solo la cui attuazione non porta ad approfondire i contrasti fra i diversi elementi dell’economia e della società e non porta a spezzare l’unità dello Stato» (Tesi di Lione, 1926).

Su un punto aveva ragione Gramsci – così come il frastagliato campo che a lui si richiama: non si può arrestare lo sviluppo (tecno)industriale senza spezzare l’unità dello Stato, e viceversa. Chi difende questo difende anche quello.

Dal momento che la speculazione finanziaria sta alla produzione capitalistica come il transumanesimo sta allo sviluppo tecnologico; dal momento che la cosiddetta de-industrializzazione (in Italia e in Europa) è in realtà industrializzazione della vita quotidiana; dal momento che capitale finanziario e tecnoindustria non possono esistere oggi senza guerra; e dal momento che il centro strategico della guerra è la macchina statale, rivendicare lo Stato come argine alle «élite globaliste e transumaniste» equivale, ancora una volta, a pretendere che una gomena possa entrare nella cruna di un ago. Per cosa si fanno le guerre, infatti, se non per «frenare» (eccolo, il vero katéchon!) il precipitare delle condizioni generali di vita senza mettere in discussione i rapporti tra le classi (ma scaricandone il peso su altre popolazioni)? E viceversa, quale Stato potrebbe rinunciare ai mezzi della potenza (il «complesso militare-industriale» che viene alimentato dalla guerra, e che inevitabilmente la produce), senza essere prima o poi divorato da altri Stati? Se c’è un elemento senza il quale nessuno Stato può esistere, questo è proprio la forza armata, la quale a sua volta non può rinunciare alle tecnologie più all’avanguardia…

Per chi non vuole né l’inquinamento da idrocarburi né la carne sintetica; per chi rifiuta allo stesso tempo l’uomo-machinery statunitense, l’uomo-apparatčik russo e l’uomo-cellula cinese, invariante è lo spartiacque etico e storico: Stato e tecnoindustria si abbattono insieme, o insieme si difendono.