La guerra del silicio

Ci segnalano e a nostra volta segnaliamo questo interessante articolo scritto da un «esperto del settore». Ne emergono almeno due elementi significativi: il primo è che quella sui semiconduttori è una vera e propria guerra (anzi per tanti aspetti è la guerra tecnoindustriale che decide di quella militare); il secondo è che le tesi sulla pretesa «deglobalizzazione» in atto nascondono spesso una discreta ignoranza delle caratteristiche materiali e componentistiche del tecno-capitalismo. Quando una merce «intelligente» assembla in se stessa centinaia di componenti prodotti ai quattro angoli del globo, la «rinazionalizzazione» della produzione non avviene né in qualche anno né senza scosse profonde nei rapporti di dominio relativi al controllo delle materie prime soggiacenti. Anche trascurando le varianti che gli analisti di sua Maestà nominano appena – quella naturale e quella umana –, le catene internazionali della produzione tecno-mercantile saranno ridisegnate dalla guerra in tutte le sue forme, non certo abolite per decreto.

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La guerra del silicio: perché Taiwan?

È ormai evidente che non c’è solo una guerra per l’energia ma anche un conflitto, fino ad ora silente ma altrettanto violento, sul controllo dei circuiti integrati (chiamati amichevolmente chip). Queste tesserine minuscole sono il cuore di quasi tutti gli apparati e sistemi moderni e la loro disponibilità fa la differenza tra dominio e dipendenza tecnologica. È sorprendente sapere che Taiwan detiene una quota del 64% del mercato globale delle fonderie di silicio. Il secondo produttore è la Corea del Sud con il 18%, poi la Cina con il 9%, e infine gli USA con un misero 6% [1].

Come si è arrivati a una tale situazione? La risposta la si trova lontano nel tempo, poco dopo gli anni 1980. Allora, gli Usa si resero conto, un po’ in ritardo, che la concorrenza giapponese aveva preso il sopravvento nella produzione di semiconduttori e in particolare delle memorie ad accesso dinamico (DRAM). La contromossa fu la creazione ad Austin nel 1987 di SEMATECH, un consorzio tra 14 industrie Usa e il governo americano [2]. L’obiettivo era risolvere problemi tecnologici e di produzione così da riguadagnare la competitività statunitense nel settore dei semiconduttori. Il dipartimento della difesa DARPA cofinanziò l’impresa con 100 milioni di dollari all’anno. La previsione era per un supporto statale di cinque anni; dopo il consorzio doveva sostenersi autonomamente. Al termine di tale periodo, però, il programma fu prorogato per altri quattro anni. Dopo tale estensione, il consorzio ritenne non più opportuno godere di un ulteriore sostegno governativo. Dietro tale decisione, che creò ovvie difficoltà finanziarie, c’era un conflitto tra i diversi partecipanti. Alcuni abbandonarono e aziende non Usa furono invitate e accolte nel consorzio.

Tra i membri internazionali ci furono Philips, Hyundai, LGSemicon, Infineon, TSMC, e STMicroelectronics. Ben presto i membri internazionali realizzarono la scarsa utilità del coinvolgimento e in breve lo abbandonarono.

Il consorzio fu inizialmente governato da Intel, avendo come CEO Robert Noyce, uno degli inventori dei circuiti integrati e co-fondatore di Intel. Poi, dopo un paio di passaggi e fino al 2002 l’organizzazione è passata sotto il controllo di Texas Instruments (TI). In quegli anni, i legami tra TI e la Taiwanese TSMC [3], fondata nel 1987 da Morris Chang, un ex vicepresidente della TI che era ritornato a Taiwan, si consolidarono. Il costo di una fabbrica di semiconduttori agli inizi del 2000 era superiore al miliardo di dollari e una tale cifra per una industria che aveva un fatturato di 9,6 miliardi non era una entità trascurabile. Per questo, TI decise (segretamente) di abbandonare SEMATECH al suo destino, e utilizzare sempre più TSMC come produttore di chip. Nel famoso 11 settembre 2001, il CEO di SEMATECH, Robert Helms, ex TI, era a New York per negoziare il passaggio del consorzio sotto il controllo di IBM, anche auspicato dal governatore dello stato di New York, George Pataki, che mise sul piatto 210 milioni di denaro pubblico in cinque anni. IBM contribuì poi per una grossa frazione di altri 193 milioni. Ovviamente, IBM pretese il posto di CEO, Helms perse il posto e chiese, senza averne soddisfazione, il reintegro in TI.

La vita di SEMATECH continuò con fasi alterne con l’handicap di non avere una produzione alle spalle che alimentasse finanziariamente la ricerca e fornisse indicazioni sulla direzione da seguire. La conflittualità tra industrie partecipanti e la smania di governatori hanno portato a un continuo declino. Quindi, quell’operazione di recupero della supremazia in un settore vitale, anche per l’apparato militare, si è spenta lentamente e inesorabilmente.

Per contro, TMSC ha continuato a crescere, fornendo un ottimo servizio per la fabbricazione di chip a grosse ditte di semiconduttori, felici di non dover investire grosse somme di denaro in fabbriche, e servendo emergenti realtà, le cosiddette “fabless” (senza fabbrica), che potevano sviluppare prodotti senza l’onere della produzione.

Per avere un’idea dell’importanza di TSMC, osserviamo che il suo fatturato del 2021 è circa 57 miliardi di dollari Usa a fronte di un prodotto interno lordo taiwanese di 760 miliardi di dollari Usa. Dato che la metà del PIL corrisponde a servizi, il fatturato TSMC è una sorgente molto importante per il benessere del paese.

Il valore strategico di TSMC è nelle tecnologie proprietarie con densità di transistori, velocità, e consumo che consentono di realizzare processori digitali con eccezionali prestazioni (ad esempio quelli di Apple). Per capire, ricordiamo che gli avanzamenti tecnologici sono indicati da un numero seguito da nm (nanometri), (ora sono in produzione i 5nm). Questo numero ha una debole relazione con le dimensioni minime dei transistori, ma è rilevante per indicare lo stato di evoluzione.

Ad esempio, per la densità, la tecnologia 5nm consente la fabbricazione di circa 170 milioni di transistori per millimetro quadrato di silicio. Una tale capacità tecnologica avanzata è posseduta solo da TSMC, Samsung, e Intel. Un ulteriore punto di forza di TSMC è il numero di fabbriche operanti sull’isola madre. Gli impianti, distinti dalle dimensioni della fetta di silicio processato, sono: una fabbrica da sei pollici, quattro fabbriche da otto pollici, e cinque fabbriche da dodici pollici. In aggiunta, TSMC ha due fabbriche in Cina (otto e dodici pollici), e una da dodici pollici negli Usa. Il tutto porta a una capacità produttiva annua di più di 12 milioni di wafer 12-pollici equivalente.

La crescita di TSMC non accenna a rallentare: l’azienda dedica alla ricerca e sviluppo circa il 9% del fatturato e prevede un investimento nel 2022 di 40 milioni di dollari Usa per aumentare la sua capacità produttiva di più del 40% [4].

Ci si chiede allora come mai il mondo occidentale ha assistito in modo passivo a una crescita di tale rilevanza strategica. È una ripetizione dell’errore degli anni 1980, quando gli Usa non si resero conto della egemonia microelettronica giapponese?

Sembra che recentemente gli Usa se ne siano resi conto: il rapporto “Costruire catene di approvvigionamento resilienti, rivitalizzare la produzione americana e promuovere una crescita su larga base” scritto per la Casa Bianca nel giugno 2021 dice: “Gli Stati Uniti dipendono fortemente da un’unica azienda, TSMC, per la produzione dei suoi chip all’avanguardia”.

Il fatto che solo TSMC e Samsung (Corea del Sud) possano realizzare i semiconduttori più avanzati “mette a rischio la capacità di garantire sicurezza nazionale attuale e futura e rende critiche le esigenze infrastrutturali”. Peraltro, aumentare il valore strategico di un’isola per contrapporsi alla Cina ha senso, ma è anche rischioso. Inoltre, la Cina ha una crescente capacità manifatturiera, non arriva al limite estremo della tecnologia del silicio ma produce quella fascia di circuiti che sono prevalentemente usati in sistemi civili e militari.

Ci sono state diverse reazioni. Da parte di TSMC c’è la decisione, forse stimolata, di costruire fabbriche fuori Taiwan. È attualmente in costruzione una fonderia di silicio in Arizona da 12 miliardi di dollari e un’altra in Giappone da 7 miliardi di dollari.

C’è poi il progetto di una ulteriore fabbrica in Europa, sembra in Germania o in Italia. Il vantaggio della delocalizzazione è garantire la sicurezza nel caso (improbabile) di un attacco cinese. Il rischio è depotenziare Taiwan conseguente alla dispersione del know-how. Questa opzione indicherebbe che l’occidente ha deciso di abbandonare Taiwan al suo destino. A questo proposito, la visita di Nancy Pelosi servita per consolidare il controllo su Taiwan, ha anche registrato un incontro con Mark Lui, attuale Chairman di TSMC, per discutere delle delocalizzazioni e, forse, per convincerlo a non fornire chip avanzati alla Cina [5].

Una seconda reazione è la duplice decisione di Europa e Usa di lanciare poderosi progetti di aiuto alla microelettronica. L’europeo Chips Act, approvato l’8 febbraio 2022 dalla Commissione Europea, prevede 43 miliardi di euro per aumentare la produzione europea di chip e rendere autonomi gli Stati membri da forniture extra-UE. Nel luglio 2022, il Congresso Usa ha approvato il CHIPS Act per sostenere la produzione, il progetto, e la ricerca di circuiti microelettronici per usi civili e militari. Il finanziamento è 52 miliardi di dollari più il 25% di crediti fiscali con la condizione di non produrre semiconduttori avanzati per le aziende cinesi.

Le decisioni di Europa e Usa, tenendo anche conto degli investimenti cinesi in nuove fabbriche che ridurranno (o annulleranno nei prossimi anni) la dipendenza cinese dall’occidente, sono irrazionali con futuri impatti disastrosi. Il totale dei finanziamenti occidentali corrisponde al costo di dieci fabbriche da 12 pollici con una complessiva capacità produttiva annua di 18 milioni di wafer 12-pollici equivalenti, una volta e mezzo la capacità produttiva di Taiwan. Anche se tutti i finanziamenti non serviranno per nuove fabbriche, ci sarà una sovracapacità produttiva mostruosa in un periodo che, a causa della guerra in Ucraina, vedrà una forte flessione del mercato. Il risultato? Taiwan sarà fortemente penalizzata e molte delle fabbriche in tutto il mondo lavoreranno a ritmo ridotto o chiuderanno l’attività. Le cannonate sparate da Europa e Usa in questa guerra del silicio sono allora contro loro stessi e per affondare un “amico” che, si immagina, vedrà la l’Europa, gli Usa, e la Cina sotto una luce diversa.

Le nuove restrizioni del governo Usa sull’esportazione verso la Cina di circuiti avanzati e apparecchiature per la fabbricazione e il test di dispositivi nanometrici, annunciate agli inizi di ottobre, aprono un nuovo fronte della guerra del silicio. Questo “missile” colpisce in una certa misura l’industria cinese dei semiconduttori, ma anche, in modo non trascurabile, le industrie americane che facevano affari con la Cina. Secondo Formiche.net [6] la decisione costerà alle aziende statunitensi centinaia di milioni o addirittura miliardi di dollari. Quanto costerà alla Cina non è dato da sapere. Quello che è certo è che la decisione Usa non è arrivata inaspettata: da anni la Cina ha l’obiettivo della indipendenza tecnologica. Il programma “Made in China 2025” è un esempio. Sembra che nel settore dei semiconduttori i risultati non siano eccellenti. Non è tanto una restrizione sulla esportazione di prodotti sensibili ma la mancanza di competenza quello che, al momento, costituirebbe l’handicap cinese. Costituirebbe, però …, dato che le valutazioni degli analisti occidentali sono spesso guidate dai desideri piuttosto che da solide notizie e una loro adeguata elaborazione.

Franco Maloberti

NOTE

[1] https://www.eenewsanalog.com/

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/

[3] https://www.tsmc.com/english/

[4] https://www.wsj.com/articles/

[5] https://theconversation.com/

[6] https://formiche.net/2022/10/