Tecno-sharia, polizia della morale e psicopolizia

Adorno definì a suo tempo il fascismo come «barbarie tecnicamente equipaggiata». Se quella definizione si segnalava come una delle più precise, essa lasciava nondimeno nel vago e nell’ambivalenza il concetto di barbarie. Pensiamo, in ambito marxista, al fortunato slogan «socialismo o barbarie!»; caricatosi sempre più di positivismo e dell’ideologia di un avanzamento progressivo verso la società senza classi, Bordiga gli contrapponeva un risoluto e scandaloso «comunismo o civiltà!». Non solo lo sviluppo industriale e tecnologico non partorisce il comunismo, ma di per sé non «democratizza» i costumi i rapporti sociali.
Con più di un secolo di anticipo su quei dibattiti, il giovanissimo Leopardi aveva già centrato la questione in uno dei primi pensieri del suo Zibaldone: «La ragione è un lume: la natura vuole essere illuminata dalla ragione non incendiata». Da questa folgorante intuizione discende la riflessione sulla coppia oppositiva civiltà-barbarie che attraversa tutta l’opera leopardiana. Barbarie, per il poeta-filosofo, è sia ciò che precede quel lume sia l’epoca dell’incendio conclamato e manifesto, trionfo di una «ragione geometrica» che è «sistema falsissimo di parti verissime», cioè «scelleraggine ragionata», artificializzazione delle vite e delle passioni: in poche parole, eccesso di civiltà.
Come il seguito ha dimostrato, non si trattava di un mero problema linguistico. Il mondo si dibatte ancora, e sempre più rovinosamente, in quell’ambivalenza, benché ne modifichi le forme storiche. Non è forse «barbarie tecnicamente equipaggiata» l’Islam 4.0 in costruzione in Iran, un sistema che fonde Sharia, credito sociale e riconoscimento facciale? Leggiamo: «In base alla nuova legge sull’hijab e sulla castità, promulgata in Iran il 15 agosto scorso, le donne che pubblicano le loro foto senza velo su Internet subiranno la perdita temporanea di alcuni diritti sociali per un periodo che va da 6 mesi a un anno. Inoltre, alle donne ritenute non conformi sarà impedito di entrare negli uffici governativi, nelle banche o di viaggiare sui mezzi pubblici. Le dipendenti del governo saranno licenziate nel caso in cui le loro immagini sui social media non siano conformi con quanto dettato dalle leggi islamiche. Numerose donne sono state arrestate per non aver rispettato il codice di abbigliamento e costrette a confessare». E ancora: «Il governo iraniano ha in programma di utilizzare la tecnologia del riconoscimento facciale sui trasporti pubblici. L’annuncio viene direttamente dal segretario del ministero iraniano per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, Mohammad Saleh Hashemi Golpayegani».
La tecnologia, come la natura ch’essa reifica, non fa salti. «Dal 2015, il governo iraniano ha introdotto gradualmente le carte d’identità biometriche che includono un chip in cui sono memorizzati dati come scansioni dell’iride, impronte digitali e immagini del viso. Oggi si teme che tali informazioni in possesso allo Stato possano essere utilizzate in concomitanza con la tecnologia di riconoscimento facciale per identificare le persone che violano il codice di abbigliamento obbligatorio, sia per le strade che su Internet. Molti analisti sottolineano come il governo dell’Iran sia oggi in grado di rintracciare con estrema facilità i suoi cittadini ovunque si trovino». Intanto «alcune delle donne arrestate per aver sfidato il nuovo decreto del 15 agosto sono state identificate dopo che sono stati pubblicati online dei video che le ritraevano mentre venivano molestate sui mezzi pubblici perché non indossavano correttamente l’indumento». Insomma, è la polizia come gestione automatizzata della polis a rendere più efficace e oppressiva la polizia della moralità. Il servilismo e l’adesione fanatica di tanti oppressi che si fanno a loro volta oppressori, sono invece abiezioni che attraversano tutti i gradi di sviluppo tecnico.
Mentre partecipo con tutto il cuore alla coraggiosa rivolta delle donne iraniane, che sfidano sia le ingiunzioni high tech della polizia morale sia il piombo assassino di quella in uniforme, sputo in faccia a chi, invece di raccogliere quell’esempio per insubordinarsi alla «barbarie tecnicamente equipaggiata» che imprigiona anche noi e che ci sta portando dritti alla guerra mondiale, contrappone con malcelato razzismo le «libertà occidentali» al patriarcato algoritmico iraniano.
Proprio mentre scrivo queste note, la polizia giudiziaria mi notifica la decisione della magistrata di sorveglianza di negarmi, per il terzo semestre della mia detenzione domiciliare, i quarantacinque giorni di liberazione anticipata, cioè quello “sconto di pena” che dovrebbe essere automatico in assenza di rapporti disciplinari in carcere o di violazione delle prescrizioni giudiziarie durante le cosiddette misure alternative. La magistrata mi comunica che, nonostante la mia condotta sia stata «formalmente corretta», ho mantenuto «un ruolo propulsore sotto il profilo ideologico» e una «spinta anti-Stato». Atteggiamenti che – non sfugga la prosa togata, tra vezzi letterari d’antan e concetti di ortopedia sociale a metà tra Lombroso e stalinismo – «lumeggiano sul mancato avvio del percorso di revisione critica del vissuto deviante da parte del condannato e sulla mancata effettiva partecipazione da parte sua all’opera rieducativa». Ora, se la contestazione di un reato (non il resto in sé, ovviamente) è un fatto «oggettivo», come si misura la «rieducazione» o il «ravvedimento» di un condannato?
Nel mio caso, attraverso un testo (questo: https://ilrovescio.info/wp-content/uploads/2022/02/per-Matteo.pdf ) sull’omicidio di Matteo Tenni da parte di un carabiniere ad Ala (Trento), il 9 aprile 2021, e sulla successiva archiviazione. Insomma, io sono libero di scrivere – non siamo mica in Russia o in Iran –, loro sono liberi di prolungare la mia detenzione per ciò che scrivo (appellandosi, in assenza di reati, alle «spinte» che le mie parole esprimono).
Se il demerito giudiziario di non essermi ravveduto e di mantenere un atteggiamento anti-Stato è per me motivo d’orgoglio, registro che la polizia dei costumi morali alle nostre latitudini assume la forma della psicopolizia da tribunale.