Luci da dietro la scena (X) (a proposito di elezioni e astensionismo sovversivo)
Pulegge elettorali
Il meccanismo elettorale non è un semplice aggiustamento della strategia governativa. Esso è, al contrario, uno dei momenti più significativi della strategia repressiva nel suo insieme.
In pratica, il sempre maggiore intervento dello Stato negli affari del capitale, allo scopo di mettere ordine nelle contraddizioni di quest’ultimo, ha come effetto una razionalizzazione del dominio, ma anche, in prospettiva, la conseguenza di aprire un’altra serie di contraddizioni sia nello Stato stesso sia nel capitale. Ad esempio, cosa che qui ci interessa moltissimo, la riduzione dei poteri del parlamento e l’enorme crescita dei poteri dell’esecutivo. La cosa è più che logica in quanto lo Stato è, prima di tutto, uno strumento esecutivo e poi, a livello di massa, come momento di chiusura del dominio, è anche strumento di reperimento del consenso. Lo Stato infatti non può reggersi senza consenso ma nemmeno senza esecutivo. La cosa lo spinge, spesso, a privilegiare questo secondo aspetto, e ciò genera alcune contraddizioni, tra cui quelle che pretendono di continuare a far funzionare il governo quando non c’è più accordo tra i diversi processi di delega (partitici, sindacali, economici, ideologici, ecc.).
La perdita di contatto tra base e strumenti che filtrano le decisioni dell’esecutivo (il parlamento in primo luogo) è dovuta apparentemente a mancati accordi politici, a non sufficiente equilibrio delle forze di partito, mentre, nei fatti, è dovuta al peggioramento delle condizioni di fondo (livello dei prezzi, disoccupazione, diminuzione degli investimenti, impossibilità di sostegno alla domanda, scompensi tra zone con sviluppo diseguale, tensioni sociali incontrollabili, repressione fuori misura, rigurgiti di metodi autoritari, inadeguatezza dei metodi di controllo assembleare, ecc.). Queste condizioni di malessere si trasferiscono all’esecutivo tramite le strutture di rappresentanza, che assumono quindi il carattere di puleggia dell’inefficienza o di strumento di controllo della non adeguatezza dei piani, proprio nel momento in cui, in quanto strumenti, perdono il significato originario di gestione del consenso. Si verifica il caso paradossale – e contraddittorio – che la presenza stessa del meccanismo di filtro (in primo luogo, partiti e sindacati) causa una specie di effetto indotto che finisce per bloccare le velleità di fuga in avanti dell’esecutivo.
In fondo le cose vanno male e ciò concorre a bloccare un meccanismo di controllo che potrebbe, se lasciato alla sua logica razionale, farle andare meglio per pochi a spese di molti, sottoponendo questi molti a un controllo capillare e a una repressione di grande portata. Ciò non è possibile proprio perché non si può ottimizzare un aspetto del rapporto fra dominanti e dominati (l’aspetto repressivo) senza curare anche l’altro aspetto (le condizioni di fondo che devono garantire un certo benessere senza cui salta il consenso). La scelta elettorale diventa quindi un elemento della repressione immediata, in quanto consente di perfezionare un percorso dell’esecutivo che minaccia di portare a nessun posto senza una verifica del consenso. La guerra dei decreti ha una sua credibilità finché le pulegge dei partiti e dei sindacati funzionano e finché alla base ci sono spazi di erosione per l’onnivoro meccanismo capitalista. Quando questi spazi vengono meno le pulegge girano a vuoto e l’esecutivo slitta verso la repressione pura e semplice, slittamento che può concludersi in modo tragico, con una esplosione di lotte non più controllabili. Per evitare ciò si fa ricorso alle elezioni. La repressione si perfeziona, gli stimoli reali di lotta vengono dirottati verso obiettivi fittizi, lo sfogo dell’opinione si sostituisce al reale bisogno di rifiuto e di negazione. Allo sfruttato viene sovrapposto il cittadino.
Dall’astensione all’azione diretta
Astenersi dalla partecipazione al ripristino repressivo è certamente un momento della presa di coscienza, ma è momento iniziale. La sovversione sociale coinvolge l’astensionismo dalla sua fase difensiva alla sua fase attiva, costruttiva, di accelerazione delle contraddizioni del capitale e dello Stato. Il rifiuto del consenso non è quindi soltanto astensione dal voto, ma è superamento attivo del meccanismo del coinvolgimento a diversi livelli. Negazione del momento politico e negazione dei rapporti di sfruttamento che a partire dal momento politico si sviluppano.
[…]
Non stiamo qui parlando della possibile costruzione di un sedicente “movimento astensionista” che potrebbe anche svilupparsi a notevole livello ma che, prima o poi, finirebbe strumento nelle mani di trame politiche pilotate […]. Ci riferiamo invece alla possibilità di costruire strutture organizzative astensioniste, minimali e adeguate alle diverse realtà locali, capaci di coordinare i diversi fenomeni astensionisti che si vanno sviluppando nei confronti di qualsiasi momento assembleare della gestione del potere. […] Le strutture astensioniste di cui stiamo parlando potrebbero coordinare il rifiuto del meccanismo elettorale, come anche il rifiuto dei meccanismi assembleari a livello di fabbrica, di scuola, di quartiere, di unità sanitaria, ecc.
Non ci pare sufficiente quindi una propaganda astensionista che cerchi di sottolineare soltanto il momento del rifiuto della delega, per poi rinviare ad un ipotetico, ma praticamente non specificabile, momento positivo del rifiuto stesso. Si tratterebbe di una ricollocazione del rifiuto nell’ottica del difensivismo, da cui è tempo che si esca definitivamente. Il rifiuto è tale soltanto quando diventa primo momento di una strategia di attacco, e non quando nasce e si conclude come espressione vicaria di sentimenti irrazionali mal percepiti dal soggetto stesso che li avverte. Da questa confusione si perviene esclusivamente ad un appagamento della propria falsa coscienza, alla conclusione che si sia fatto quanto era possibile fare, al rinvio all’infinito di quello che si sente vagamente la necessità di fare.
[…]
Ipotesi
Nel corso del lavoro la struttura [astensionista] va maturando, si dà le prime scadenze di lotta: manifestazioni, dibattiti, conferenze, comizi, volantinaggi, manifesti, mostre itineranti: tutto allo scopo di far conoscere il punto di vista astensionista e il modo in cui quest’ultimo si differenzia – in quanto rifiuto – dalle promesse dei partiti, dei sindacati, dei consigli di fabbrica, di istituto, di quartiere, di unità sanitaria, ecc. Denunciate queste differenze si può passare ad un esame specifico di quanto è stato promesso e non mantenuto dalle pulegge di trasmissione del consenso, e ciò allo scopo di intaccare quel fondamento clientelare e di delega su cui si regge la forza di partiti e sindacati. Tutta una serie di azioni diventa ipotizzabile a questo punto: dall’occupazione del municipio a quella della scuola, dal blocco della fabbrica a quello del consiglio di quartiere, dall’occupazione della sede di un partito o di un sindacato alla manifestazione contro il parlamento o contro le assemblee regionali. Un immenso campo di lavoro si apre davanti all’astensionismo sovversivo.
Proprio in questa molteplice attività si innesta il lavoro del rivoluzionario anarchico che deve cercare di spostare, di volta in volta, i singoli momenti di lotta della struttura astensionista zonale verso obiettivi di carattere insurrezionale: occupazione del municipio e proposta di decisioni sostitutive a quelle consiliari; occupazione della scuola e proposta di altri programmi, altri libri di testo, ecc; occupazione della fabbrica e proposta di soluzioni diverse da quelle suggerite e fatte passare assemblearmente dai sindacati. Lo stesso per le occupazioni delle sedi di partiti o sindacati. Le stesse manifestazioni contro il parlamento o le assemblee regionali possono essere portatrici di indicazioni diverse da quelle rispecchiate dalla politica nazionale o regionale.
Singolarmente considerate queste lotte hanno tutte un significato simbolico (sostituzione di una procedura considerata inefficiente o inquinata di clientelismo) e un significato di critica ad una non corretta impostazione dell’attività dello Stato e dei suoi organi. Ma, se ben si considera, queste lotte hanno anche un potenziale notevole che può essere, di volta in volta, indirizzato in senso insurrezionale. Ogni singola occupazione, ogni manifestazione, può essere spinta sempre più avanti, sia perché si tratta di lotte organizzate da una struttura (o da una serie di strutture) in cui è presente attivamente la minoranza anarchica fin dal primo momento (altrimenti saremmo davanti le pie intenzioni di un entrismo fuori del tempo e della realtà), sia perché nel corso stesso delle lotte si va maturando una coscienza sociale via via più netta di quelle forme iniziali di dissenso che potevano avere spinto la gente ad una indistinta adesione all’astensionismo.
Alfredo M. Bonanno, «Per un astensionismo sovversivo», in Teoria e pratica dell’insurrezione, Anarchismo, Catania, 1985