Sulla soglia – Due giorni di discussione in Sicilia su Sud, Civiltà contadina, Apocalisse culturale e Cosmovisioni, Rivoluzione [in aggiornamento]

Riceviamo e diffondiamo:

È la pluralità dei mondi a garantire che quello che abitiamo non si chiuda in un orizzonte totalitario.
Ho un ricordo ben preciso della prima volta che ho incontrato un mondo umano davvero per me altro, cogliendone appieno le particolarità. Anni ’70 del secolo scorso, altopiano di Bandiagara, Mali, Africa. Arrivati la sera quasi al buio seguendo la pista di carretti tirati da asini.
Accampati bene in vista, su un’altura in prossimità del villaggio (non si entra in casa d’altri senza dare il tempo a un primo incontro sulla “soglia” necessario per condividere informazioni e intenzioni).
Non si accede col buio, si entra alla luce del sole. (…)
Non era certo un mondo felice, libero da dolore, fatica, malattia, prepotenze, malignità, malefizi, umiliazioni. Ma era un mondo umano, costruito cioè da umani in relazione attenta con ciò che li circonda. Da umani proprietari (artefici e responsabili) del loro mondo.

Stefania Consigliere, Piero Coppo, Cose degli altri mondi

Del dolore di questa epoca, appena battezzata nell’Avvento Pandemico, è impossibile non avvertire la minaccia. Catatonia, depressione ciclica, senso di esaurimento delle forze, impennate di suicidi, tutto il malessere che si continua a recludere nella categoria scricchiolante della psicopatologia, sono il segno di esalazione dell’umano, man mano che il regime del mondo-macchina sembra chiudere il suo sipario algoritmico sulle esistenze.
Un’espressione pregnante, almeno per chi scrive, ha circolato nelle aree del pensiero critico per dare conto dei cambiamenti in corso: apocalisse culturale. Apocalisse culturale per chi? Certo non per il dominio tecno-capitalista, per la sua cosmovisione e per la sua utopia totalitaria in via di realizzazione. Sicuramente, per tutte quelle aree culturali che si sono pensate come altre rispetto al capitale – inteso qui come rapporto sociale – e per le quali è stato uno scossone significativo intuire quanto poco si avesse da obiettare allo Stato e al dominio nelle mosse di conquista di ciò che era rimasto relativamente estraneo al loro campo d’azione: i corpi di tutti – cioè il corpo della specie –, i meccanismi fragili e misteriosi della vita, quegli scampoli autonomi di socialità interrotti per decreto. Un brivido di apocalisse ha attraversato chi ha visto il movimento radicale vacillare nella critica e nel sabotaggio del lockdown, del coprifuoco, della vaccinazione obbligatoria e del green pass. Il rischio di apocalisse culturale quindi lo viviamo noi, lo vivono tutte quelle soggettività anomale della storia d’Occidente, più o meno sovversive, che nel frangente in cui squilla la campanella totalitaria, sono costrette ad una scelta fondamentale: dentro o fuori. Lo ribadiamo, un dentro/ fuori tutt’altro che metaforico dal momento che l’idea che lo Stato può disporre dei corpi non è più un tabù a livello generale.
E se non volessimo discendere le chine ripide della rimozione? Se volessimo spezzare il sortilegio che impone di sacrificare la propria energia vitale al retto funzionamento della macchina?
In questo bilico, c’è dell’altro, dell’ancora: ci sono i tentativi, umanissimi, di mantenersi a galla e di rinculare il crollo facendosi forza nelle relazioni, c’è la voglia di non abdicare all’intelligenza e di solcare con lo sguardo orizzonti rimasti in ombra anche nel discorso rivoluzionario.
Della sofferenza, del senso d’impotenza, delle trappole tese al cammino di chi tenti un’uscita dalla strada maestra, ci sembra necessario occuparci. A guidare questo sforzo c’è il senso della necessità di un trattenere e di un lasciare epocali.
Da un lato, c’è un patrimonio che, come è stato scritto altrove, rappresenta al contempo un distillato teorico nell’alambicco delle esperienze storiche e un pluriverso di possibilità inesplorate (o parzialmente esplorate) di nuova vita. La critica anarchica dello Stato e del dominio, i metodi anti-autoritari di auto-organizzazione, la conflittualità non mediata e la solidarietà integrale tra gli insorti e con i colpiti dalla repressione, il mutuo aiuto tra gli/le oppressi/e, sono assi del nostro orientamento che nessun diluvio potrà, né dovrà, affondare.
Dall’altro c’è l’urgenza di una riflessione sulla direzione dello sguardo, una proposta di inversione di rotta che può suggerire un’altra lettura del mondo cui apparteniamo, della storia che lo ha costruito. La piega dell’indurimento culturale indotto dal dominio totale del capitale appare inesorabile guardato dai “centri” di irraggiamento. Non conviene allora, agli sguardi che non si piegano, cercare le possibilità di essere-nel-mondo, di fare-mondo, tra le increspature e i margini?

Lo spazio da cui il nostro sguardo si volge è il Sud.
Cos’è il Sud (d’Italia e non solo)? Per chi decide di lottare è una determinazione primaria, al punto che non ci si può immaginare compagn* al di là delle esperienze, marchiate a fuoco nella coscienza, che qui si sono vissute: separazioni, emigrazioni, violenza istituzionale e miseria del vivere, ostentazione dell’ingiustizia, puzza mortifera di patriarcato. A livello storico-sociale il Sud è la pagina nera della storia della nazione. Un fondo costante di terrore e violenza padronale e di Stato ha spianato la strada allo sfruttamento, ai tormenti e all’estrattivismo più esasperati. Già Zino Zini, all’inizio del secolo scorso, scriveva che lo Stato italiano non poteva sussistere senza il reclutamento costante di gendarmi, amministratori e burocrati al Sud, a indicare che le classi dominanti sono state in grado di creare e sfruttare a proprio vantaggio molte contraddizioni (“I nipoti di chi fu Brigante saranno Carabinieri, sarà un ferita aperta sotto l’acqua ed il sole”, dice una bella poesia di Luigi Ceccarelli, cantata da Lina Sastri).
Un’enorme rimozione a cui ha contribuito tutta la sinistra storica, intenta a farsi governo e Stato. Non è un caso, infatti, che al non detto sulle violenze dello Stato si sia accompagnato l’imbarazzo verso l’indagine delle forme di vita e dei mondi culturali della civiltà contadina del Sud (anche su questo fronte, dirigenze e segreterie di sinistra hanno gestito con una logica di “riduzione del danno” tanto le teorizzazioni del Gramsci “meridionalista” quanto le successive ricerche di Ernesto De Martino). Perché la memoria bandita sarebbe potuta tornare a dire che il nostro, lungi dall’essere l’unico mondo possibile, deve al genocidio degli altri la sua alba: un mondo di fantasmi tenuto dietro-sipario nella quotidianità scandita dalla colonizzazione dell’immaginario.
Eppure, tra spiagge e montagne spopolate e il fiume di soldi in arrivo dal PNRR per farne meta per ricchi e annoiati, qualcosa spinge e scalcia. È la traccia – fragile e residuale, ma ancora visibile – della civiltà contadina dell’entroterra di montagna: è sguardo e mani di secoli di generazioni nella costruzione di un orto, nel mantenimento del giardino, di quel (pre)proletario sapere fare tutto da sé; è un rapporto diverso col passato, coi morti e coi vicini.
Attraversare altre cosmovisioni, altri mo(n)di umani è, per noi, una possibilità aperta al lasciarci trasformare a partire dalle nostre soggettività moderne.
Vogliamo, quindi, interrogarci se questo mondo in via d’estinzione abbia qualcosa da suggerirci, se nuove complicità e prospettive possano prendere slancio nell’incontro con esso, se qualcosa covi ancora o se delle fiammate prodotte in passato sia rimasta solo cenere.
Si pone insomma la questione della rivoluzione, parola che incute pudore e, forse per questo, lasciata per troppo tempo alla lingua biforcuta dei pubblicitari. La migliore critica radicale ha saputo, con anticipo di decenni, cogliere il movimento storico della civiltà occidentale nella sospensione tra i poli dialettici della rivoluzione e dell’apocalisse. Oggi, in molt* siamo in grado di vedere l’apocalisse nel quotidiano, in pochissim* le possibilità della rivoluzione. Eppure sentiamo quanto la rivoluzione sia necessaria per proteggere l’amore, la dignità e tutto ciò che rimane di bello in noi e nella vita. Servono l’impensabile e l’indicibile per dissolvere la pesantezza d’acciaio dei rapporti dominanti.
Il termine rivoluzione indica anche la rotazione intorno al proprio centro. Chissà che non sia il ritorno al fuoco delle origini dell’anarchismo italiano – i tentativi insurrezionali dei primi internazionalisti mutuano molto delle forme di lotta e della mentalità dei moti contadini – ad arridere alle prospettive di liberazione di oggi; chissà che due amanti, rimasti distanti troppo a lungo, non possano ancora generare l’inedito.

In questa due giorni, più che risposte a levarsi saranno questioni e interrogativi. Sarà, crediamo, proprio il loro intrecciarsi ad essere prezioso, come crediamo sarà prezioso il co-abitare uno spazio costruito perché sia luogo di confronto, quindi luogo di cura.
Che le relazioni, che abitiamo e che ci fanno, siano, possano e debbano essere spazi di cura – in un ecosistema che oltre al sé e al noi con-prenda ciò che vi partecipa a prescindere dal nostro “saperlo” – è infatti un senso ulteriore che ci ha fornito la spinta a proporre e organizzare questo incontro.
Un incontro i cui fuochi tematici si alimentano a vicenda e che ci auguriamo possa avvicinarci alla soglia di un altrove e di un altrimenti.

Indicazioni pratiche (IMPORTANTE!)

L’iniziativa si svolgerà nel territorio di Polizzi Generosa (PA). Il modo migliore per arrivare nel luogo che ci ospita è in macchina. In alternativa ci sono dei bus da Palermo per Polizzi Generosa (Sais Trasporti è il nome della compagnia che effettua la tratta).
L’area campeggio è un uliveto di bassa montagna, in cui sono allestite delle compost toilets e sono presenti dei punti acqua.
Porta il materiale da campeggio di cui necessiti; inoltre, porta una tazza/bicchiere (piatti e posate li troverai qui), luci e/o frontali sono necessarie (nell’area campeggio non c’è luce elettrica).
Sulle condizioni meteo, grande è il dubbio: solitamente (sempre che questo avverbio abbia ancora valore d’uso) a inizio ottobre le temperature diurne vanno sopra i 20/22° gradi e le notturne non scendono sotto i 15°. C’è il rischio pioggia: equipaggeremo l’area delle discussioni, dei pasti e del campeggio, in modo da essere vivibile in condizioni di pioggia non violenta (Mahatma Gandhi, patrocina le nostre piogge!).
Le condizioni ecologiche del luogo richiedono di lasciare a casa il cane; cinghiali, daini, cani dei vicini, vicini con pecore e/o capre, sono qui intorno a noi, la convivenza sarebbe difficilissima.
Per le caratteristiche del luogo e per ragioni organizzative, chiediamo di comunicare entro una settimana dall’inizio della due giorni, l’intenzione di venire e il numero di persone se ci si muove in gruppo.
Saranno disponibili dei tavoli per allestire uno spazio distribuzioni.

PROGRAMMA

1 Ottobre

Mattina Arrivi

ore 13:00 Pranzo

ore 15:00 Discussione: “Apocalisse Culturale/Cosmovisioni – Civiltà contadina: storia, presenza, eredità, possibilità”

ne parliamo con Stefania Consigliere e Moffo Schimmenti

ore 21:00 Cena

ore 22:30 Libere Corde – Concerto

2 Ottobre

ore 8:00 Colazione

ore 10:00 Discussione: “Il Sud: terra di conquista, rimozioni, colonizzazioni e….”

ne parliamo con Giuseppe Aiello

ore 13:00 Pranzo

ore 15:00 Discussione: “Il sentimento, la storia e le storie della Rivoluzione”

ne parliamo con alcuni compagni della redazione de “I giorni e le notti”

ore 21:00 Cena

ore 22:30 Proiezioni, musica, danze sfrenate e quello che ci va

Per info e comunicazioni:

scirocco@autoproduzioni.net

strettolibertaria@inventati.org

+39 3896062784

+39 3285749333