Per così poco
A metà degli anni Ottanta, la critica radicale più lucida – quella che aveva còlto il carattere incontrollabile dello sviluppo tecnologico e descritto il sistema di nocività prodotto dalla sua costante fuga in avanti – ipotizzò la possibilità di un’inedita alleanza storica: quella tra il desiderio di rivoluzione e l’istinto di sopravvivenza. Dal momento che il capitalismo si annunciava ormai come una gigantesca produzione di disastri a mezzo di disastri, gli individui spossessati sarebbero stati costretti, pena l’autodistruzione, a schierarsi praticamente con le ragioni della rivoluzione. Conosciamo il seguito.
Quarant’anni dopo, possiamo constatare non solo che il movimento totalitario dell’economia ha inglobato e soppiantato gli spazi di autonomia mentale e materiale grazie ai quali desiderare e praticare un progetto rivoluzionario, ma che il nesso catastrofe-istinto di sopravvivenza gioca in realtà contro di noi. E ciò su diversi piani.
L’ordine tecno-capitalista che provoca i disastri produce anche i «rimedi».
Nelle emergenze l’istinto di sopravvivenza si schiera in generale con i «rimedi» anche se questi comportano delle costrizioni autoritarie durature (le «misure transitorie» non sono fatte per transitare, ma per giustificare ogni cosa).
In una società della dismisura – capitale che accumula capitale, potenza tecnica che accresce se stessa – qualsiasi «misura ecologica» centralizzata rafforza la dittatura degli «esperti», delle macchine e dei militari.
[Quando quel giornalista chiese al noto teorico della decrescita come si potesse concretizzare il proposito frugale di fornire a ciascun cittadino un paio di scarpe soltanto, il suddetto teorico rispose: «attraverso l’intervento dello Stato». Intervento – possiamo aggiungere – che può anche fare a meno del manganello, se un apparato di costrizioni quotidiane impedisce nei fatti all’umanità sovrasocializzata di scegliere altrimenti. Ad esempio, senza la diffusione di massa degli smartphone sarebbe stato, se non impossibile, decisamente complicato imporre il lasciapassare «sanitario». Oppure prendiamo il piano di Cingolani sui consumi domestici – quelli industriali e high tech, ovviamente, non si toccano – di gas ed elettricità. Per il gas, siamo alle «raccomandazioni», qualora non bastasse di per sé il costo delle bollette. Per l’energia elettrica, invece, si può ipotizzare una nuova misura di polizia (nel senso di gestione automatizzata della polis). Per milioni di utenti a cui sono già stati installati i contatori «intelligenti», infatti, il problema del controllo si può risolvere con gli algoritmi: limitando il consumo da remoto.]
Ma esiste un altro piano su cui l’istinto di sopravvivenza viene mobilitato in chiave anti-rivoluzionaria: quello dell’immaginario plasmato dal catastrofismo mediatico e di Stato. Il sentimento collettivo di qualcosa che incombe non corrisponde soltanto alle oggettive tendenze di un’economia divenuta incontrollabile, ma anche allo spettacolo della paura rinnovato senza sosta. Al punto che, in materia di minacce, il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso, tra ciò che è grave, esagerato o addirittura creato ad arte diventa difficilmente distinguibile in basso, ma facilmente sfruttabile in alto.
A proposito di immaginario, qualche decennio fa Günther Anders notava che la funzione sociale della fantascienza (soprattutto nella sua trasposizione cinematografica) è proprio quella di assuefarci alle distopie reali grazie alla sensazione familiare di déjà vu.
Ecco quindi che la sedimentazione nell’inconscio collettivo del rischio di una terribile pandemia (prima la mucca pazza, poi l’influenza aviaria, poi la Sars ecc.) ha permesso che un’infezione respiratoria tutto sommato curabile come il Covid-19 agisse da leva per un’accelerazione tecnologica e una ristrutturazione economica foriere, a loro volta, di nuovi disastri per l’ambiente e per la salute. Allo stesso modo, si è tanto introiettata l’idea di un collasso energetico (blackout reali o cinematografici, “mito” del Millenium Bag ecc.), che è agevole per gli apparati tecnocratici spacciare per penuria di risorse il risultato della speculazione finanziaria e anticipare lo scenario delle misure di guerra verso cui sono già incamminati, di modo da occultarne la natura politica per imprimere loro quella dell’imperiosa necessità (che solo gli «esperti» possono affrontare).
Che teorie cercherà, allora, il sommerso dal sistema? Quelle che meglio corrispondono alle sue chances di sopravvivenza economica: odierà l’ecologismo che gli fa rottamare l’auto, la virologia che gli fa chiudere la bottega, la climatologia che gli fa macellare il bestiame in esubero…
«Quando brucia il tetto, non serve né pregare né lavare il pavimento. Pregare, ad ogni modo, è più pratico» (Karl Kraus).
L’istinto di sopravvivenza non vuole la rivoluzione. Si appaga di una vita meno sconvolta da continue «innovazioni» e da «rimedi» non meno sconvolgenti. Ma anche per così poco ci vuole ormai una rivoluzione.