Sul paro in Ecuador
Riceviamo e pubblichiamo molto volentieri questo racconto, appassionato e dettagliato, del paro – parola che significa sia «blocco» sia «sciopero» – che ha paralizzato l’Ecuador nel giugno scorso. A scriverlo è una compagna che vive attualmente in quel Paese e che ha preso parte al movimento contro il caroviveri, contro il governo di Guillermo Lasso e contro i piani del Fondo Monetario Internazionale. Un movimento indigeno, contadino e popolare che ha saputo rispondere alla violenza assassina dello Stato con l’autorganizzazione – anche armata – e la rivolta. E che ha nei legami comunitari sopravvissuti al dominio coloniale e all’artificializzazione capitalistica della vita il proprio elemento di slancio e di tenuta.
Sul paro in Ecuador
18 giorni di sciopero nazionale. Almeno 55 milioni di dollari di perdite economiche al giorno. Dimezzata la produzione di petrolio nel paese a causa dei blocchi a più di 1000 pozzi di estrazione, con danni per oltre 500 milioni di dollari. Occupata una delle principali centrali idroelettriche e sbarrate centinaia e centinaia di strade.
La polizia denuncia almeno 5251 fatti considerati illeciti, tra cui blocchi di via, interruzioni di servizio pubblico, danni a beni pubblici e privati, sequestri di persona, saccheggi. Dichiarano la distruzione di 10 stazioni della polizia, e 117 veicoli tra moto e auto della polizia danneggiate. 20 i mezzi militari distrutti. Risulterebbero feriti 238 poliziotti e 106 militari. Un militare morto negli scontri nella zona di Sushufindi. Almeno 37 poliziotti sarebbero stati sequestrati dai manifestanti per uno o più giorni durante le varie manifestazioni.
300 le indagini aperte, tra cui varie inchieste per “terrorismo”.
Questo il bilancio dato dal governo alla sollevazione di giugno. Un bilancio che ha obbligato lo Stato a scendere a compromessi.
Anche dalla parte dei manifestanti, però, il conto pagato è pesante: 5 manifestanti uccisi. Centinaia i feriti, alcuni in terapia intensiva. Almeno 10 feriti gravi agli occhi. 162 detenzioni. Molte le inchieste aperte che preannunciano una repressione futura.
Per 18 giorni l’Ecuador è rimasto bloccato; centinaia di manifestazioni molto partecipate in tutto il Paese, blocchi stradali che ne hanno paralizzato la produzione e il commercio, scontri tra le forze dell’ordine e i manifestanti avvenuti su tutto il territorio nazionale. Lo sciopero a tempo indefinito chiamato dalla Confederazione delle Nazionalità Indigene (CONAIE) ha visto una partecipazione massiva in numerosissime città e pueblos, non soltanto da parte delle comunità indigene e contadine, ma anche da tutte le categorie di lavoratori, studenti e disoccupati che negli ultimi anni hanno visto aumentare enormemente il prezzo dei beni di prima necessità e si trovano con i conti sempre in rosso.
Questo sciopero è stato indetto infatti contro le politiche neoliberiste attuate dal governo di Guillermo Lasso, in perfetta continuazione con il governo precedente di Lenin Moreno. Gli accordi presi dallo Stato con il Fondo Montetario Internazionale (FMI) prevedono il taglio ai sussidi per alcuni prodotti di base come la benzina – e di conseguenza un aumento massiccio di tutti i prezzi – con tagli generali al settore pubblico tra cui educazione e sanità.
Il governo si è visto obbligato a iniziare un dialogo, e dopo vari giorni di inutili tentativi è riuscito ad arrivare ad un accordo con i rappresentanti delle organizzazioni indigene, firmato la sera di giovedì 30 giugno. Il governo ha trattato – concedendo molto meno di quanto richiesto – 7 dei 10 punti proposti dalla CONAIE e si riserva 90 giorni per creare un tavolo tecnico, analizzare e promuovere soluzioni conformemente ai punti restanti. In cambio, si sospendono le mobilitazioni e i blocchi stradali nel Paese.
Le organizzazioni indigene promettono di rimanere attente e di essere pronte a ricominciare la resistenza con più forza e determinazione nel caso in cui il governo non rispetti la parola data.
Il passato infatti insegna: nel paro del 2019, il presidente precedente, Lenin Moreno, era giunto a un accordo con la CONAIE e aveva abolito il decreto 883 che di nuovo cercava di togliere il sussidio alla benzina per ordine dell’FMI. Pochi mesi dopo la fine dello sciopero, il prezzo della benzina iniziò a salire mese dopo mese. La dinamica peggiorò con il presidente attuale G. Lasso.
Le rivendicazioni
Lo sciopero generale è iniziato il 13 giugno, chiamato dall’organizzazione indigena maggioritaria, la CONAIE, a cui hanno immediatamente aderito le altre principali organizzazioni indigene del paese, quali la CONFENIAE (Confederación de Nacionalidades Indígenas de la Amazonia Ecuatoriana ), la FEINE (el Consejo de Pueblos y Organizaciones Indígenas) e la FENOCÍN (la Confederación Nacional de Organizaciones Campesinas Indígenas y Negras).
L’Ecuador è uno Stato plurinazionale. Comprende 14 nazionalità indigene e 18 popolazioni ancestrali con lingue e culture diverse. Sono più di un milione gli indigeni che si considerano parte delle comunità ancestrali su una popolazione di 17 milioni.
La forza delle organizzazioni indigene in Ecuador è molto importante, una delle più forti di tutta l’America Latina, e i legami comunitari ancora presenti. L’adesione allo sciopero è stata enorme.
Dieci sono i punti rivendicati dalla CONAIE.
La riduzione e il congelamento dei prezzi dei carburanti (a 1,50 per il diesel e a 2,10 dollari per il gallone di benzina – ossia 3,78 litri); il rifinanziamento dei debiti del settore agricolo per un anno; il controllo dei prezzi dei prodotti agricoli, per garantire un minimo a contadini e allevatori; la non precarizzazione della giornata lavorativa; la revisione dei progetti estrattivi, con l’abrogazione dei decreti 95 e 151 che promuovono l’aumento dello sfruttamento petrolifero e minerario, e nello specifico impedire ogni forma di estrazione mineraria nei territori indigeni. La regolamentazione dei prezzi dei beni di prima necessità per evitare speculazioni; il rispetto dei diritti collettivi, come l’educazione bilingue e la giustizia indigena; la non privatizzazione dei settori strategici; un bilancio dignitoso per la sanità e l’istruzione; la creazione di politiche di sicurezza pubblica.
La CONAIE aveva elaborato questi 10 punti già vari mesi fa, ma nessuna risposta da parte del governo era pervenuta. Così il 13 giugno è iniziato lo sciopero. Uno sciopero che si è voluto fin dall’inizio decentrato e diffuso su tutto il territorio nazionale, con blocchi e manifestazioni in tutto il Paese. Anche i settori studenteschi di Quito e di Cuenca si sono uniti alle proteste, chiedendo maggiori investimenti nel settore dell’educazione e promuovendo manifestazioni quotidiane a cui si sono unite migliaia di persone. I blocchi nelle sei regioni amazzoniche sono stati fortissimi, e hanno permesso di chiudere più di mille pozzi petroliferi. Il presidente di Petroecuador, l’impresa petrolifera nazionale più importante del paese, aveva annunciato il blocco totale dell’estrazione del greggio se il paro fosse continuato ancora due giorni.
Un riassunto dei 18 giorni di sciopero
Lo sciopero è iniziato nelle prime ore del mattino di lunedì 13. Centinaia le strade bloccate. La notte successiva, il leader della Conaie Leonidas Iza è stato arrestato da militari mentre viaggiava in macchina nella regione di Cotopaxi. Su Twitter, il presidente Guillermo Lasso ha annunciato l’inizio degli arresti di coloro che ha definito «autori materiali e intellettuali di atti violenti» durante la giornata di mobilitazione nazionale. Il giorno stesso la protesta si è radicalizzata, sfociando in scontri violenti fuori dal carcere di Latacunga, nella zona di Cotopaxi, dove era stato fermato Iza. Manifestanti indigeni hanno anche “preso in custodia” vari agenti di polizia e un delegato della Fiscalia in distinte zone del territorio, pretendendo la liberazione del loro referente. Cosa che si è ripetuta varie volte in numerose marce, per liberare i compagnx arrestatx.
A Quito la manifestazione di martedì è arrivata davanti all’unità di Flagrancia (Ufficio della Procura), ed è finita con l’incendio di una macchina della polizia lì davanti. In serata alcuni camion pieni di manifestanti indigeni provenienti dal Cotopaxi si sono avviati verso la capitale, per pretendere la liberazione del loro leader. Leonidas Iza è stato liberato mercoledì mattina con una denuncia per aver bloccato, in flagranza di reato, i servizi pubblici del Paese. Gli hanno concesso misure alternative alla detenzione preventiva, ossia l’obbligo di non lasciare il paese e di presentarsi a firmare due volte alla settimana presso la Procura. Non in molti si aspettavano un paro così forte; sicuramente la grossa repressione con cui è iniziato, tra cui l’arresto del leader riconosciuto, ne ha aiutato la radicalizzazione.
Dopo una settimana di forti proteste, con blocchi diffusi su tutto il territorio nazionale, manifestazioni quotidiane a Quito e a Cuenca che sono arrivate a contare decine di migliaia di persone, scontri e occupazione di siti strategici, il presidente Lasso rispose promettendo il congelamento del prezzo del carburante, però al prezzo attuale, mantenendo di fatto i prezzi di tutto altissimi; assicurò l’aumento degli aiuti alle famiglie più povere di 5 dollari; promise il condono dei debiti fino a 3000 dollari.
Briciole, rispetto alle richieste fatte dal movimento indigeno.
La CONAIE rispose annunciando la discesa su Quito.
Interessante la maniera in cui venivano espresse le dichiarazioni, sia della Conaie che del presidente. Sembravano le dichiarazioni stampa di due territori in guerra, emesse spesso alle 23 di sera, dando ultimatum e avvertimenti all’altra parte.
Nel fine settimana centinaia di camion pieni di manifestanti provenienti dalle comunità indigene di tutto il Paese hanno iniziato ad arrivare alle periferie della capitale, guerreggiando varie volte per riuscire a superare i blocchi dei militari che volevano impedirgli il passo. Sabato 18 nel sud di Quito c’è stata una vera battaglia, a cui si sono unite molte persone dei quartieri popolari della città.
Domenica la polizia in antisommossa, dopo averla perquisita, ha occupato la Casa della Cultura e il parco dell’Arbolito di Quito, luoghi simbolo dell’organizzazione del movimento indigeno in città e base logistica dello sciopero del 2019. La scusa fu la necessità di avere spazi per la polizia e i militari, ossia di rendere la Casa della Cultura una caserma. Fu la seconda volta nella storia che l’autonomia di quello spazio venne violata: l’altra volta fu 42 anni fa, in piena dittatura. La polizia dichiarò anche – ma non lo fece – che intendeva occupare per lo stesso motivo l’università Politecnica e l’Assemblea Nazionale.
Lunedì 20, centinaia di camion e furgoni hanno superato tutti gli ultimi blocchi dei militari e hanno iniziato la discesa su Quito, con un corteo infinito di mezzi pieni di persone, accolto da una grandissima solidarietà da parte degli abitanti delle strade in cui passava – piene di barricate ovunque – che regalavano acqua, cibo, coperte, e gridavano slogan contro il governo di Lasso.
Dato che la Casa della Cultura era occupata dalla polizia, gli studenti hanno aperto i cancelli dell’Università Centrale, che ha concesso gli spazi il martedì mattina. Anche l’Università dei Salesiani è stata utilizzata come luogo per dormire. Nelle università sono stati creati asili per i bambini, si sono iniziate a organizzare le prime cucine solidali, le brigate mediche e i centri di raccolta.
Da martedì a venerdì ci sono stati scontri tutto il giorno, in una battaglia di posizione prima in direzione della Casa della Cultura, e poi, quando questa è stata ripresa, con una gigantesca manifestazione (probabilmente dopo un mezzo accordo, il mercoledì) verso l’Assemblea Nazionale. Durante la notte i manifestanti mantenevano i blocchi nelle strade lì intorno, di fatto occupando permanentemente numerose quadre del centro.
Venerdì è stato uno dei giorni di repressione più duri; nel primo pomeriggio il presidente Lasso ha fatto una dichiarazione in diretta in cui di fatto ha dato il via libera alla polizia a sparare sui manifestanti, anche se in realtà era già successo in vari luoghi del Paese. Pochissimi minuti dopo, su tutti i fronti militari e polizia hanno iniziato a reprimere più forte di prima, sparando centinaia e centinaia di lacrimogeni, perdigones, bombe stordenti. Come ormai era usuale, sparavano anche dai tetti delle case e dei palazzi.
Intanto i blocchi e le manifestazioni continuavano su tutto il territorio nazionale.
I giorni successivi sono stati relativamente “pacifici”, con manifestazioni quasi quotidiane verso il centro storico e una che ha attraversato i quartieri alti della città. C’è stata una marcia di donne e di dissidenze (gruppi femministi e transfemministi); ci sono stati concerti, festival e tornei sportivi nelle università e nella Casa della Cultura. Giovedì 30 giugno c’è stato l’accordo con il governo, nonostante parte delle basi non volesse nessun compromesso: prima Lasso doveva cadere, poi si poteva parlare.
Nello stesso istante, almeno 2000 persone provenienti dalla regione di Cotopaxi stavano entrando con camion e furgoni nel sud di Quito, per dare il cambio ai numerosi manifestanti indigeni che erano tornati alle loro comunità nel fine settimana, dopo otto giorni di permanenza nella capitale.
Pratiche di resistenza
Bloccare le strade con barricate, pneumatici in fiamme, cumuli di pietre e terra. La maggior parte delle pratiche del paro erano di blocco all’economia e ai trasporti. Ma anche marce verso i centri del potere e delle rappresentanze dello Stato. Tutto il resto scattava per la repressione poliziesca.
Militari e polizia attaccavano con migliaia di lacrimogeni e bombe stordenti, alcune che provocavano vomito e svenimenti. Sparavano proiettili di gomma e anche proiettili veri in varie occasioni. Avevano i trucutù, delle specie di idranti corazzati antisommossa che lanciavano tendenzialmente acqua, ma anche da cui sparavano. L’acqua che buttavano era irritante. Prima di attaccare le prime linee con questi mezzi corazzati, lanciavano un avvertimento in inglese che nessuno capiva.
Le guardie utilizzavano anche cavalli corazzati e a volte avevano cani addestrati. Giravano con decine e decine di moto, alla greca, e nelle cariche inseguivano i manifestanti così per arrestarlx.
In breve tempo si scalava di livello. Per difendersi le persone spaccavano cartelli, pali, fermate dei bus per recuperare scudi, marciapiedi completamente divelti per creare muri di pietre dietro cui lanciare sassi e fuochi di artificio con i voladores, tubi di metallo molto utilizzati nelle prime linee.
Le prime linee si difendevano con scudi di legno e di metallo, a parte qualche ragazzino che ancora si presentava con scudi di cartone e che veniva allontanato. Le maschere antigas erano un lusso. La maggior parte della gente resisteva con mascherine chirurgiche con dentro foglie di eucalipto, che le donne indigene distribuivano in quantità e che la gente si infilava direttamente dentro le narici. Altro metodo per resistere ai gas, fortissimi, era il fumo. Si bruciava di tutto, e sulle strade degli scontri non c’era più un albero in piedi alla fine della settimana. Ma anche pneumatici, plastica, qualsiasi cosa.
Anche il fumo delle sigarette sparato in faccia e negli occhi aiutava a far passare l’acido e i conati di vomito. Le terze e le quarte linee giravano con bottiglie di latte, aceto e bicarbonato. Il latte è molto utile contro i gas, forse meglio del Maalox, che in Ecuador nessuno conosce; il bicarbonato veniva soprattutto usato in bottiglioni grandi di acqua che venivano trasportati in giro o lasciati davanti, in cui si mettevano i lacrimogeni per spegnerli. L’aceto pure veniva buttato in faccia contro i gas, o messo nelle mascherine.
La polizia sparava spesso ad altezza uomo, e i feriti erano numerosissimi a causa delle botte dei lacrimogeni e dei perdigones, i proiettili di gomma. Le quarte linee erano i medici e gli infermieri, spesso ancora studenti, però molto organizzati. Con moto o semi-ambulanze, o a piedi venivano a recuperare i feriti e li portavano indietro per curarli. Molti anche coloro che svenivano a causa dei troppi gas. Iniziavano a vomitare e perdevano i sensi.
Già dopo i primi giorni si è iniziato a sentire anche di feriti da arma da fuoco. In almeno una occasione la polizia ha attaccato, in un corteo di moto, manifestanti seduti a mangiare fuori dalle università, sparando proiettili veri. Una volta ha anche attaccato un furgone di “aiuti umanitari”, ferendo la donna che stava davanti con un proiettile al braccio.
5 i morti. Anche le “armi non letali”, ovviamente, uccidono. Al Puyo un manifestante kichwa è stato ucciso da un lacrimogeno che gli è penetrato nel cranio. La rivolta scaturita per questo omicidio ha costretto militari e polizia ad abbandonare la città. Molte le stazioni di polizia bruciate, e anche il banco di Guayaquil, la banca di proprietà del presidente Lasso, è stata data alle fiamme. Altri manifestanti sono stati uccisi a causa dei proiettili di gomma sparati a distanza ravvicinata, al cuore o in testa. Altri due sono stati buttati giù da una scarpata. Uno è morto. In risposta è stato bruciato un intero convoglio militare.
I sequestri di polizia e militare erano frequenti, e non tutti ovviamente sono stati dichiarati. Spesso finivano con scambi di prigionieri. Quasi mai le guardie prese venivano maltrattate davvero, per dimostrare che i manifestanti erano diversi e non violenti come i poliziotti.
Nel tentativo di bloccare le manifestazioni, il presidente Lasso ha emesso tre decreti di “stato di eccezione” – derogati qualche giorno dopo – prima coinvolgendo tre province, e poi allargando le misure a nove territori coinvolti dalle proteste. Lo stato di eccezione prevedeva un aumento dei poteri dell’esercito e della polizia, e il divieto di raggruppamento che, abbinato al coprifuoco imposto dalle 22 alle 5 del mattino, cercava inutilmente di sedare le proteste.
Molti media indipendenti hanno dichiarano di aver subìto censura rispetto alle informazioni sul paro, e denunciano che il governo ha utilizzato strumenti per bloccare il traffico dei dati, limitare e controllare le informazioni. I mezzi di comunicazioni ufficiali non davano informazioni reali, e la gente si informava attraverso social media come Twitter, Facebook, Instagram e TikTok. La CONAIE aveva una specie di programma informativo che trasmettevano su Facebook e sul proprio sito.
Il governo aveva anche fatto approvare poco prima dell’inizio del paro una legge «sull’utilizzo progressivo della forza», che di fatto autorizzava militari e polizia a sparare se “minacciati”. Poi, con un discorso in diretta, il presidente ha dato il via libera all’utilizzo delle armi da fuoco. Però, dopo la grande violenza dei primi giorni, e le parole di minaccia di Lasso, anche la gente ha iniziato a rispondere.
Video di manifestanti armati di fucili hanno iniziato a girare in rete. Si iniziava a sentire parlare di manifestanti che stavano arrivando “più organizzati” dai territori. La gente si era stancata di venire ammazzata. Fino alla morte di un militare vicino a Sushufindi (oriente amazzonico), ucciso negli scontri causati dagli stessi soldati mentre cercavano di forzare un blocco a un pozzo petrolifero.
La Conaie ha preso le distanze dalle azioni armate, dicendo che si trattava di infiltrati. Ma non era vero. Qualcuno dice che gli accordi sono stati affrettati proprio da questo: dalla paura, da parte sia del governo che della Conaie, della radicalizzazione del conflitto. In Ecuador le armi in piazza erano quasi “abituali” fino al 2007. Solo l’arrivo al potere del socialista Correa, che ha contribuito a distruggere molte organizzazioni sociali e ha iniziato la repressione politica dei manifestanti, ha eliminato quasi totalmente l’uso delle armi da fuoco nei cortei.
La CONAIE stigmatizzava anche gli “atti vandalici”, dichiarando che erano azioni compiute da infiltrati per screditare le lotta. Cercava di prendere le distanze da alcune azioni forti, come l’uso di armi da fuoco, il tentativo di incendio dell’unidad de flagranzia avvenuto a Quito, l’incendio della macchina della polizia nella capitale ecc., per rimanere all’interno di un delicato gioco politico. Ricordiamo che la CONAIE, infatti, è spalleggiata e connessa a un partito politico che sta oggi all’opposizione, il PACHAKUTIK. Partito che ha tradito in buona parte le richieste e le rivendicazioni della base, anche se dichiara di rappresentare la popolazione indigena in Parlamento. Uno dei veri obiettivi finali della CONAIE, infatti, è quello di ottenere il potere politico, e di avere un presidente indigeno in Parlamento. E questo era ed è sempre da tenere in considerazione.
Ma in realtà nessuno (o quasi) si opponeva, durante i cortei, alle tipiche scritte sui muri, o alla rottura di cartelli, pali, stazioni degli autobus, finalizzate a procurarsi materiali per l’autodifesa e l’attacco. E nessuno piangeva se una macchina di chapas – sbirri – veniva bruciata.
Nel paro generale di questo giugno ci sono state varie differenze rispetto allo sciopero del 2019, che sicuramente è stato più “forte” da alcuni punti di vista, ma meno sotto altri. Tre anni fa lo sciopero fu iniziato dal sindacato dei trasportatori (che tradì subito facendo un accordo unilaterale con il governo) e dagli studenti, che accesero la miccia; quest’anno sono stati quasi esclusivamente i movimenti indigeni a iniziare le manifestazioni. Questa volta allo sciopero non si è unito il FUT, il Fruente Unitario de Trabajadores, il principale sindacato dei lavoratori, per le divergenze politiche con la CONAIE. E i trasportatori si sono uniti per solo un giorno prima di prendere le distanze dalle mobilitazioni. Quest’anno i manifestanti indigeni sono resistiti una settimana nei loro territori prima di scendere a Quito, e nella capitale sono stati i quartieri popolari a sorprendere per la loro resistenza più forte di tre anni fa, così come la popolazione di Quito che, nonostante la disorganizzazione, è scesa per strada quotidianamente.
Le differenze sono esplicitate chiaramente anche dai numeri: nel 2019, in soli 11 giorni di paro ci sono stati 11 morti tra i manifestanti, nessuno tra la polizia, 1300 arresti, centinaia e centinaia di feriti. La repressione era stata violentissima, più dura di quella di questo giugno. Quest’anno ci sono stati meno morti, meno arrestati, meno feriti: dicono che le persone erano più organizzate, più preparate, sapevano muoversi meglio in piazza. Nel 2019 per vari giorni ci sono stati solo scudi fatti di cartone; quest’anno molti manifestanti indigeni erano già arrivati con gli scudi, con i voladores preparati, con i sassi sui camion. Nel 2019 spesso furono stigmatizzati e accusati di essere infiltrati tra i compagni con il volto coperto; quest’anno invece in moltissimi avevano il volto coperto da magliette o passamontagna, che spesso non si toglievano neanche per mangiare. Dopo due anni il governo ha concesso l’indulto agli accusati dei reati durante il paro del 2019, per le pressioni politiche messe dalla Conaie e dal Pachakutik. Una cosa che in Europa sembra impossibile da ottenere.
Un grosso problema all’interno dei cortei era quello dei poliziotti infiltrati. Vestiti come manifestanti, si muovevano in due o tre, ed erano molto difficili da riconoscere. Durante la prima settimana, quando i manifestanti indigeni non erano ancora arrivati a Quito, un gruppo di persone, armato di bastoni, si era autorganizzato in difesa dei cortei, con il compito di riconoscere e cacciare le guardie infiltrate. Funzionò abbastanza bene fino all’arrivo dei migliaia di manifestanti indigeni; i cortei divennero troppo grandi e variegati, e il compito divenne impossibile. Gli infiltrati non solo filmavano e osservavano i “responsabili” di alcune azioni, per seguirli e arrestarli in un secondo momento: agivano anche sul posto, quando dei manifestanti (soprattutto delle prime linee) rimanevano in pochi, allora gli infiltrati li placcavano e li trascinavano tra le linee della polizia. Un lavoro pericoloso: molte volte sono stati riconosciuti e “presi in custodia”, e barattati in cambio di altri compagnx arrestati.
L’importanza dei legami comunitari
I legami comunitari fanno la differenza. Questo forse è qualcosa che in Europa è difficile da immaginare, perché non esiste più da molto tempo. In Ecuador invece è evidente anche solo guardando la capacità di organizzazione delle città e quella dei territori indigeni.
Durante la prima settimana di paro, quando le mobilitazioni erano decentralizzate e più forti nei territori indigeni, Quito sembrava stesse in attesa. A muoversi erano gli studenti e i collettivi politici organizzati (soprattutto comunisti e femministi), che chiamavano manifestazioni comunque partecipate quotidianamente, ma senza una reale organizzazione. Non esistevano assemblee generali, nessuna forma di coordinamento, non c’era una strategia. Si muoveva solo in supporto al movimento indigeno. Il resto della popolazione aspettava. Solo i quartieri popolari alla periferia della città si muovevano realmente, e riuscivano a organizzasi promuovendo blocchi e costruendo barricate sulle principali vie di comunicazione, in entrata e in uscita dalla città. Questo perché numerosi quartieri popolari mantengono forme di organizzazione proprie ai territori comunitari indigeni. Molti, infatti, sono emigrati da quelle comunità. Ancora esistono forme di giustizia indigena e organizzazione comunitaria, diventata di quartiere. Nel centro città invece i legami ormai quasi non esistono. E organizzarsi sembra difficilissimo.
I legami comunitari hanno dato forza e vita al paro. Intere famiglie si sono mosse per scendere a Quito. Vecchi, mamme coi bambini, ragazzinx coi padri. A lottare, in rappresentanza delle loro comunità, c’erano tuttx. Per il bene comune. Il lavoro era molto, e la fatica grande. Resistere per 8/10 giorni via da casa, dormendo per terra su cartoni, al freddo di Quito, resistere ai lacrimogeni che venivano lanciati fino dentro le università mentre la gente dormiva, non è stato facile per nessuno.
Ogni giorno c’erano assemblee di migliaia di persone, sia per ascoltare le basi che per comunicare le decisioni e anche decidere collettivamente su alcuni punti. I rappresentanti delle varie comunità avevano il compito di ascoltare e parlare alle basi, così poi da comunicare ai rappresentanti di provincia e così via, affinché si avesse una visione d’insieme e tuttx fossero più o meno aggiornati sulle decisioni.
Squadre di persone cucinavano tutto il giorno per sfamare le migliaia e migliaia di persone presenti. Poi, il cibo preparato veniva distribuito per strada, direttamente dai furgoni, ai manifestanti in corteo, facendo un’attenzione speciale affinché arrivassero alle prime linee.
Qualcuno doveva partecipare, da tutte le comunità. Era un dovere, etico e pratico, verso la collettività. A volte chi non poteva partecipare, comunque doveva aiutare la mobilitazione, in qualche forma. Monetaria o altro. Perché quando la lotta è per tutti, tutti in qualche forma devono contribuire.
Questo, nelle città, è stato dimenticato. Ci sono organizzazioni di categoria, sociali, identitarie, o di lavoratori. Ma i legami che legano queste collettività non sono paragonabili a quelli comunitari.
E lo si vede nella pratica.
L’accordo tra la CONAIE e il governo di Lasso
Dei 10 punti proposti dalla federazione dei popoli indigeni, 7 sono stati discussi nell’accordo con il governo, ma non davvero risolti, ovviamente. I punti restanti dovranno essere analizzati nei prossimi tre mesi, con la creazione di un tavolo tecnico ad hoc e la prosecuzione del dialogo tra il governo e i rappresentanti di CONAIE, FEI e FENOCIN. Per il momento l’accordo prevede: la riduzione di 15 centesimi del prezzo dei carburanti (nonostante la richiesta fosse di ridurla di 40 cents); il rifinanziamento dei debiti del settore agricolo e produttivo fino a 100mila dollari, la diminuzione del tasso di interesse per certi tipi di prestiti, e il condono dei prestiti fino a 3mila dollari. Si rafforzano i meccanismi di controllo dei prezzi dei prodotti di base, per garantire un guadagno minimo a contadini e allevatori ed evitare speculazioni; viene dichiarato in Emergenza il sistema di salute pubblica, per inviare immediatamente medicine e aiuti economici agli ospedali e ai centri di salute. Viene derogato il decreto 95 che prevedeva l’ampliamento della frontiera petrolifera, per proteggere i territori e i diritti collettivi dei popoli indigeni; viene riformato il decreto 151, che promuoveva l’aumento dello sfruttamento minerario, e nello specifico viene garantito il diritto alla consulta previa, libera e informata per ogni comunità, e vietato lo sfruttamento minerario nei territori ancestrali, in aree protette o archeologiche e in zone di riserve idriche. Di fatto in teoria molti di questi diritti erano già costituzionalmente protetti dallo Stato, ma in realtà, come sempre, vengono continuamente violati dallo stesso.
Mancano ancora molti punti da discutere, come il rispetto dei diritti collettivi, per esempio l’educazione bilingue e la giustizia indigena; la non privatizzazione dei settori strategici, come della Previdenza Sociale, della CNT (Società nazionale di telecomunicazioni), del banco del Pacifico che il presidente Lasso sta attualmente cercando di vendere; un bilancio dignitoso per la sanità e l’istruzione; la creazione di politiche di sicurezza pubblica. Il governo avrà 90 giorni per dare risposte concrete su questi ultimi punti.
La caduta di Lasso che molti rivendicavano non c’è stata.
Anche nello sciopero nazionale del 2019 molti manifestanti volevano la caduta del presidente Lenin Moreno, accusato di non fare gli interessi del popolo ecuadoriano; in quel caso l’esigenza del movimento indigeno era di abbassare il prezzo della benzina, aumentato esponenzialmente dall’abolizione dei sussidi pubblici voluta dall’FMI. Ma come già accennato, anche in quell’occasione il paro si concluse con un accordo tra la Conaie e il governo, creando, inoltre, non poco malcontento tra le basi dell’organizzazione.
Si vedrà come agiranno il governo e la Conaie nei prossimi tre mesi. Decine di migliaia di persone sono scese in strada in tutto il territorio nazionale per 18 giorni, decise a manifestare fino alle “ultime conseguenze”. E in molti non sono contenti dei risultati ottenuti. Molti dei cori degli ultimi giorni gridavano: «erano 10 punti, non 10 centesimi». Se il “tavolo tecnico” creato non darà le risposte attese in 90 giorni, lo sciopero ricomincerà con più forza e determinazione; questa volta forse le basi indigene non accetteranno un dialogo, ma probabilmente protesteranno fino a pretendere la caduta del governo di Lasso.
Poi. I problemi di base rimangono. Non sarà la caduta del presidente e la salita del vice a cambiare la situazione, e questo lo pensano in molti, anche se riuscire a far cadere un presidente mette sempre paura al potere. Finché le organizzazioni indigene spereranno in una presa del potere nazionale, invece che lottare direttamente per l’autonomia e l’autodeterminazione, chissà dove si può arrivare. Ma a molti sembra imprescindibile il tentativo di fare arrivare al “potere” un presidente indigeno. Forse solo dopo che si sarà arrivati a questa fase, e l’inevitabile delusione che ne seguirà, si potrà iniziare a vedere oltre e a immaginarsi nuove strade e alternative autonome, lontane dalla idea di Stato e soprattutto dall’inganno di uno Stato plurinazionale.