Cantico del gallo artificiale

Il «male minore» è una caduta a precipizio.

Lo raccontava una decina di anni fa il dissidente israeliano Eyal Weizman (a cui si deve l’illuminante Architettura dell’occupazione. Spazio politico e controllo territoriale in Palestina e Israele). 29 è il numero considerato «morale» delle vittime innocenti che un omicidio mirato «antiterrorismo» può provocare. Come gli spiegava l’analista militare statunitense Marc Garlasco, sopra quel numero non è che l’azione diventi di per sé «immorale». Cambia la procedura. Non c’è più l’autorizzazione automatica: serve come minimo il benestare del segretario alla Difesa, se non proprio quello del presidente degli Stati Uniti.

Se le “regole” stabilite in Israele sono le stesse seguite dall’esercito nordamericano in Iraq, il bombardamento “intelligente” del 5 agosto nella striscia di Gaza non ha rispettato i parametri: per un «terrorista» colpito, 32 palestinesi morti, tra cui almeno 6 bambini. Quando un missile ad attacco guidato va a colpire un edificio in una zona residenziale, non sono poche le variabili che l’algoritmo di un apposito software deve calcolare: fattori ambientali, materiali di costruzione del palazzo, densità di abitanti, tipo e quantità di esplosivo da utilizzare. Se il calcolo algoritmico si rivela impreciso, c’è un piccolo problema: giuridicamente, il «sacrificio necessario» diventa una «uccisione illegale». Il confine, ovviamente, si sposta secondo le convenienze: non c’è male che non possa essere presentato come minore rispetto a un altro potenzialmente più grande. Weizman la chiama «necroeconomia». Discutere se il numero dei palestinesi uccisi sia o meno proporzionato significa già essere diventati disumani, laddove l’umanità consiste nel rifiutare l’intera architettura dell’occupazione.

La falsa parola con cui lo Stato giustifica la morte partecipa anch’essa dell’infamia. Anzi. Se possibile la sopravanza – perché la proietta già verso le infamie future. È più ignobile, infatti, condurre un’operazione bellica in una popolosissima prigione a cielo aperto o nominarla Breaking Dawn («Sorgere dell’Alba»)? O chiamare roof-knocking («bussare sul tetto») il lancio di bombe sonore per avvisare gli abitanti di una casa che hanno circa un quarto d’ora per andarsene prima che arrivino le bombe vere – pratica in uso dal 2006 contro la popolazione di Gaza. Chissà poi se è oggi un messaggio automatico – o se appartiene ancora alla viva voce di un essere umano militarizzato – quello che informa, chiamando per nome chi risponde al telefono: «Sono David. Ci sono donne e bambini nella casa. Uscite. Tra cinque minuti arriverà un missile».

Per la cronaca dell’orrore non sembra esistere vacanza. Non c’è solo la necroeconomia. Ci sono anche le «politiche della vita». Il giorno prima del bombardamento a Gaza, ecco cosa si poteva leggere sui quotidiani di vari Paesi: «I ricercatori hanno creato i primi embrioni sintetici. L’impresa realizzata dagli scienziati del Weizmann Institute in Israele. I ricercatori hanno scoperto che le cellule staminali dei topi potrebbero essere ideali per autoassemblare in strutture simili a embrioni precoci con un tratto intestinale, l’inizio di un cervello e un cuore pulsante. “Sorprendentemente, dimostriamo che le cellule staminali embrionali generano embrioni sintetici interi, il che significa che questo include la placenta e il sacco vitellino che circondano l’embrione”, ha affermato il prof. Jacob Hanna, che ha guidato lo sforzo. “Siamo davvero entusiasti di questo lavoro e delle sue implicazioni”». E ancora: «“In Israele e in molti altri paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, è legale e abbiamo l’approvazione etica per farlo con cellule staminali pluripotenti indotte dall’uomo. Ciò fornisce un’alternativa etica e tecnica all’uso degli embrioni», ha affermato Hanna». Dal momento che «l’anno scorso, lo stesso team aveva costruito un utero meccanico che ha consentito agli embrioni naturali di topo di crescere al di fuori dell’utero per diversi giorni»; e che «nell’ultimo lavoro, lo stesso dispositivo è stato utilizzato per nutrire le cellule staminali del topo per più di una settimana, quasi la metà del tempo di gestazione di un topo», non è proprio abusivo il sottotitolo scelto da «Il Messaggero»: «Non ci sarà più bisogno di spermatozoi e ovaie». Effettivamente, se questo è il mondo al Sorgere dell’Alba, non si può che tremare pensando alle «alternative tecniche» concretamente dispiegate sul far della sera.

O Macbetto! Macbetto! Macbetto!
Esser puoi sanguinario, feroce:
Nessun nato di donna ti nuoce
».

Il «nato di donna» del Macbeth di Verdi traduce alla lettera le parole di Shakespeare (born of woman), il quale a sua volta riprende una tipica espressione ebraica. «Nato di donna»: difficile trovare una definizione più poetica e più veridica dell’essere umano. Da quel corpo vivente e mortale veniamo. Per questo siamo fragili. Per questo possiamo uccidere ed essere uccisi, essere feroci e nuocere. Per questo, anche, possiamo scegliere. Se «bussare sui tetti» o salirci per resistere. Se arruolarci o disertare. Se azionare la macchina assassina o sabotarla.

«Riscrivere» geneticamente gli umani, significa rendere antiquate le loro parole più vere.

«Nato di cellula» non è solo cattiva poesia. È la sinistra formula che apre un mondo da incubo: eugenetica e apartheid.