Tra «disinformazione» e «incomprensibile obbligatorio». Un’intervista dal sottosuolo

La vicenda del Copasir, delle informative dei servizi segreti sui «putiniani d’Italia» e del dossieraggio da parte del “Corriere” con tanto di nomi, cognomi e foto di «disinformatori», merita senz’altro qualche riflessione. Lasciamo che altri si straccino le vesti di fronte al «ritorno del Minculpop» e del «maccartismo»; cediamo il passo anche sulla libertà di espressione, la Costituzione, i valori liberali eccetera. Non sapendo se ridere o piangere dell’abiezione grottesca di additare un Orsini o un Santoro come nemici di Stato, cerchiamo di inquadrare una tale matrioska di trappole spettacolari nel suo contesto inconfessato: le tendenze storiche della società in cui viviamo. Abbiamo intervistato al riguardo qualcuno a cui non faremo l’ingiuria di chiamarlo «esperto», benché non abbia del tutto immeritato, in certi ambienti, la fama di intenditore di «logica dialettica dei conflitti». I lettori lo riconosceranno senza grandi difficoltà. Al netto di certe cantonate che ha preso in passato su servizi segreti, Brigate Rosse, Aldo Moro ecc., le sue idee sono armi utili in un’epoca in cui di ogni merce – economica, politica, spettacolare – si può dire che «la parte più importante del costo effettivo non è mai calcolata; e il resto è tenuto segreto».

Come interpretare il ritorno in pompa magna del concetto di «disinformazione»?

Il concetto, non più giovane, di disinformazione era stato importato qualche decennio fa dalla Russia insieme a molte altre invenzioni utili alla gestione degli Stati moderni. È sempre impiegato nel senso più alto da un potere, o come corollario da persone che detengono un pezzo di autorità economica o politica per mantenere ciò che è istituito; e sempre attribuendo a tale impiego una funzione controffensiva. Ciò che può opporsi a una sola verità ufficiale dev’essere necessariamente una disinformazione proveniente da potenze ostili, o quanto meno da rivali, e deve essere stata intenzionalmente falsificata per malanimo. Contrariamente alla pura e semplice menzogna la disinformazione, e qui il concetto diventa interessante per i difensori della società dominante, deve fatalmente contenere una certa parte di verità, ma deliberatamente manipolata da un abile nemico.

Probabilmente è per sbaglio – a mano che non si tratti piuttosto di un inganno deliberato – che di recente in Italia e non solo si ventila il progetto di attribuire ufficialmente una sorta di marchio a del materiale mediale «garantito senza disinformazione»: ciò offende certi professionisti dei mass media, che volevano credere, o più modestamente far credere, di non essere effettivamente censurati già da tempo. Ma soprattutto il concetto di disinformazione non deve evidentemente essere usato difensivamente, e ancor meno in una difesa statica. Sarebbe stupido difendere lo spettacolo là dove non è attaccato; e questo concetto si logorerebbe. Il concetto di disinformazione è valido solo nel contrattacco. Bisogna mantenerlo in seconda linea e poi lanciarlo immediatamente in avanti per respingere ogni verità che si presenti.

Appunto. Perché allora sfoderarlo contro la pseudocritica?

Il concetto confusionista di disinformazione è messo in risalto per confutare istantaneamente, grazie semplicemente al suono del termine, ogni possibile critica che le varie agenzie di organizzazione del silenzio non fossero riuscite a far sparire.

Contrariamente a quanto afferma il suo concetto spettacolare, la pratica della disinformazione non può che servire lo Stato qui e ora, sotto la sua guida diretta, o per iniziativa di coloro che difendono gli stessi valori. In realtà la disinformazione risiede in tutta l’informazione esistente; e come suo carattere principale. È nominata solo dove occorre mantenere, con l’intimidazione, la passività. Dove la disinformazione è nominata, non esiste. Dove esiste, non la si nomina.

Quando esistevano ancora delle ideologie che si scontravano, che si proclamavano a favore o contro un dato aspetto conosciuto della realtà, c’erano fanatici e bugiardi ma non «disinformatori».

Checché ne dicano i cantori della «società aperta» (non a caso stipendiati dalla CIA), la nostra società è costruita sul segreto, dalle «società schermo» che mettono al riparo da qualsiasi luce i beni concentrati dei possidenti, fino al «segreto militare» che copre oggi un immenso territorio di piena libertà extragiudiziale dello Stato. Le speculazioni statali riguardano le città satelliti e le autostrade, la circolazione sotterranea e la produzione di energia elettronucleare, la ricerca petrolifera e i computer, le modificazioni del “paesaggio audiovisivo” e le esportazioni clandestine di armi, la promozione immobiliare e l’industria farmaceutica, l’agroalimentare e la gestione degli ospedali, i crediti militari e i fondi segreti del dipartimento, in continua crescita, che deve amministrare i numerosi servizi di protezione di una società che stenta molto a controllare la sua pericolosa espansione tecnologica.

Se vediamo formarsi ovunque reti di influenza o società segrete, è perché ciò è voluto tassativamente dalle nuove condizioni per una gestione proficua degli affari economici, in una situazione in cui lo Stato ha un peso egemone nell’orientamento della produzione, e in cui la domanda di ogni merce dipende strettamente dalla centralizzazione realizzata dall’informazione-istigazione spettacolare, cui devono adattarsi anche le forme della distribuzione. Si tratta quindi della conseguenza naturale del movimento di concentrazione dei capitali, della produzione, della distribuzione. In questo campo, ciò che non si espande deve sparire; e nessuna azienda può espandersi se non con i valori, le tecniche, i mezzi di ciò che rappresentano oggi l’industria, lo spettacolo, lo Stato. Si tratta in ultima analisi dello sviluppo particolare scelto dall’economia del nostro tempo, che arriva a imporre ovunque la formazione di nuovi legami personali di dipendenza e di protezione.

Con la crescita delle reti di promozione-controllo per diffondere e controllare settori sfruttabili dal mercato, cresce anche il numero di servizi personali che non possono essere rifiutati a coloro che sono al corrente degli affari nascosti e che da parte loro non hanno negato il loro aiuto; e non si tratta sempre solo dei poliziotti o dei custodi degli interessi o della sicurezza dello Stato. Le complicità funzionali comunicano a grande distanza e a lunga durata, perché le loro reti dispongono di tutti i mezzi per imporre i sentimenti di gratitudine e di fedeltà.

Dalle reti di promozione-controllo si passa impercettbilmente a quelle di sorveglianza-disinformazione. Un tempo si cospirava sempre contro un ordine costituito. Oggi, cospirare a suo favore è un nuovo mestiere in grande sviluppo. Sotto il dominio spettacolare si cospira per mantenerlo, e per garantire che ciò soltanto esso potrà chiamare il suo buon andamento. Questa cospirazione fa parte del suo stesso funzionamento.

Non a caso i dossier sui «disinformatori» arrivano dopo due anni in cui si è stamburato ovunque, anche in ambienti detti antagonisti, contro il «complottismo».

Con la distruzione della storia l’avvenimento contemporaneo stesso si allontana immediatamente in una distanza favolosa, tra i suoi resoconti non verificabili, le sue statistiche incontrollabili, le sue spiegazioni inverosimili e i suoi ragionamenti indifendibili. Solo dei funzionari mediali potrebbero rispondere a tutte le idiozie avanzate per via spettacolare, con qualche rettifica o rimostranza rispettosa, ma per giunta ne sono avari, perché, oltre alla loro infinita ignoranza, la loro solidarietà, di mestiere e di cuore, con l’autorità generale dello spettacolo e della società che esso esprime impone loro il dovere, che è anche un piacere, di non allontanarsi mai da tale autorità, la cui maestà non deve essere lesa. Non bisogna dimenticare che ogni funzionario mediale, sia tramite lo stipendio che tramite altre ricompense o conguagli, ha sempre un padrone, e a volte parecchi; e che ogni funzionario mediale sa di essere sostituibile.

Tutti gli esperti sono mediali-statali, e solo in quanto tali sono riconosciuti esperti. Ogni esperto serve il suo padrone, perché tutte le antiche possibilità d’indipendenza sono state pressapoco azzerate dalle condizioni di organizzazione della società attuale. Naturalmente, l’esperto che serve meglio è l’esperto che mente.

La «concezione poliziesca della storia» era nell’Ottocento un’interpretazione reazionaria e ridicola, in un periodo in cui tanti fortissimi movimenti sociali agitavano le masse. Gli pseudocontestatori di oggi lo sanno bene, per sentito dire, grazie a qualche libro, e credono che quella conclusione sia rimasta vera in eterno. Non vogliono mai vedere la pratica reale del loro tempo; perché è troppo triste per le loro frigide speranze. Lo Stato non lo ignora, e ne approfitta.

L’imbecillità crede che tutto sia chiaro, quando la televisione ha mostrato una bella immagine, e l’ha commentata con una coraggiosa menzogna.

Nel momento in cui quasi tutti gli aspetti della vita politica internazionale, e un numero crescente di coloro che contano nella politica interna, sono diretti e mostrati secondo lo stile dei servizi segreti, con inganni, disinformazione, duplice spiegazione – quella che può nasconderne un’altra, o semplicemente averne l’aria – lo spettacolo si limita a far conoscere il mondo noioso dell’incomprensibile obbligatorio, una tediosa serie di romanzi polizieschi privi di vita e dove manca sempre la conclusione.

Così come è quanto mai difficile distinguere il pane o il vino dai loro sfacciati surrogati mercantili, la distinzione tra «democrazia», «autocrazia», «oligarchia» ecc. ha oggi l’aria di una tassonomia politica ogni giorno più fumosa. Non abbiamo parole adeguate per il nuovo autoritarismo.

I metodi della democrazia spettacolare sono molto flessibili, contrariamente alla semplice brutalità del diktat totalitario. Si può conservare il nome quando la cosa è stata cambiata segretamente (della birra, del manzo, un filosofo). Si può anche cambiare il nome quando la cosa è andata avanti segretamente: per esempio in Inghileterra la fabbrica di trattamento delle scorie nucleari di Windscale è stata indotta a chiamare Sellafield la località dove ha sede per meglio dissipare i sospetti, dopo un incendio disastroso nel 1957, ma questo trattamento toponimico non ha impedito l’aumento di mortalità per cancro e leucemia nei dintorni. Il governo inglese, come abbiamo democraticamente appreso trent’anni dopo, aveva deciso all’epoca di tener nascosto un rapporto sulla catastrofe che giudicava, non a torto, in grado di scuotere la fiducia che il pubblico accordava al nucleare.

Le pratiche nucleari, militari o civili, hanno bisogno di una dose di segreto più forte che in qualsiasi altro campo, dove già, come è noto, ce ne vuole molto.

Si fa un gran parlare di «Stato di diritto» da quando lo Stato moderno detto democratico ha smesso generalmente di esserlo: non è un caso che l’espressione si sia diffusa solo poco dopo il 1970, e in un primo tempo proprio in Italia.

Il dominio è lucido almeno in questo, che si aspetta dalla propria gestione, libera e senza ostacoli, un numero piuttosto elevato di catastrofi di prima grandezza in un futuro imminente, sia sui terreni ecologici, ad esempio chimico, che su quelli economici, ad esempio bancario.

Credere che si applichino ancora modelli noti in passato è fuorviante quanto l’ignoranza generale del passato. «Roma non è più a Roma», e la mafia non è più la teppa. E i servizi di sorveglianza e di disinformazione assomigliano poco al lavoro dei poliziotti e dei confidenti di una volta proprio come i servizi speciali attuali, in tutti i paesi, assomigliano poco alle attività degli ufficiali del Deuxième Bureau dello stato maggiore dell’Esercito nel 1914.

I proprietari della società vogliono mantenere, innanzitutto, un certo «rapporto sociale tra le persone», ma devono anche perseguire il rinnovamento tecnologico continuo; perché questo è uno degli obblighi che hanno accettato insieme all’eredità. Perciò questa legge si applica anche ai servizi che proteggono il dominio. Lo strumento messo a punto deve essere usato, e il suo uso rafforzerà le condizioni stesse che favorivano tale uso. I procedimenti d’emergenza diventano così i procedimenti di sempre.