La guerra del Golfo, trent’anni dopo

Ripubblichiamo questo testo di Riccardo d’Este, uscito nel volume La guerra e il suo rovescio edito da Nautilus nel 1991. Si tratta di una riflessione a caldo sulla guerra del Golfo. Rileggendola più di trent’anni dopo, questa analisi illumina di luce tanto retrospettiva quanto prospettica quel Nuovo Ordine Mondiale che le bombe della “Tempesta nel Deserto” notificavano in pompa magna (esattamente come la Polizia Giudiziaria notifica le Ordinanze costruite in ben altri uffici durante mesi o anni). Riccardo fece all’epoca ciò che tanti pacifisti e oppositori della guerra non fecero: prendere sul serio la formula “operazione di polizia internazionale”. Non considerarla, cioè, una furbizia linguistica per aggirare la parola “guerra”, bensì un annuncio veridico in forma menzognera, o meglio una verità nascosta in evidenza.

Trent’anni dopo, l’Ordine Mondiale inaugurato dai bombardamenti in Iraq è finito: questo notifica l’“Operazione” cominciata il 24 febbraio scorso dallo Stato russo in Ucraina.

L’egemonia degli USA – fondata sull’architettura finanziaria globale del dollaro e sulla potenza tecno-militare schierata a sua difesa – sta ricevendo vistosi contraccolpi. Quella che si gioca letteralmente sulla pelle degli ucraini è già una guerra mondiale. Se il conflitto militare è ancora localizzato in territori specifici, lo scontro tra i blocchi capitalistici si avvia verso una catastrofica resa dei conti. Preparate nell’Est europeo dalla politica del Fondo Monetario Internazionale, degli USA e della NATO,  e accelerate dalle contromosse del capitalismo russo, le bombe che cadono in Ucraina sono squarci nel vecchio ordine mondiale al pari dei tentativi da parte della Russia, della Cina, dell’India, dell’Arabia Saudita (e persino di Israele…) di sganciarsi in modo più o meno significativo dal dollaro nelle proprie riserve bancarie e in una parte crescente delle proprie transazioni commerciali. La Russia di Putin – economicamente un Paese semi-coloniale, ma militarmente la seconda potenza mondiale – non è né l’Iraq di Saddam Hussein né la Libia di Gheddafi. Lo Stato russo – come fa il governo di Zelensky rispetto agli USA – guerreggia anch’esso a suo modo “per procura”, nell’interesse di chi vuole rinegoziare la spartizione del saccheggio capitalista. Il Diritto internazionale, l’ONU, i contratti sulle forniture energetiche… – cioè quelle finzioni garantite fino ad ora dall’impiego unilaterale della forza – diventano orpelli inutili e carta straccia. Quella in arriva è una Tempesta di ben altra portata. 


La guerra come operazione di polizia internazionale

È la prima volta che questa formula, “operazione di polizia internazionale”, viene ufficialmente usata per definire una guerra. In Italia, per le ragioni che vedremo, ha riscosso un grande successo presso le autorità massime: l’ha utilizzata il presidente del consiglio dei ministri, Andreotti, per giustificare il senso dell’intervento in guerra italiano, peraltro assai ridotto, a fianco degli “alleati” nell coalizione anti-Saddam, all’inizio delle ostilità belliche; l’ha ribadita il presidente della repubblica, Cossiga, nel suo discorso celebrativo del cessate-il-fuoco, conclusosi con un bizzarro ed un po’ jettatorio “Dio protegga l’Italia!”.

L’obiettivo di Andreotti, agli ordini del cui governo l’Italia entrava in guerra, era sin troppo evidente: eludere l’articolo 11 della Costituzione italiana che vieta al nostro paese di partecipare ad una guerra, se non in caso di aggressione direttamente subìta e di difesa del territorio nazionale ed evidentemente di ciò non si trattava. Cossiga, sull’onda dell’entusiasmo e della commozione per la “pax americana”, vi ha apposto il definitivo suggello. Il trucco, proprio perché sfacciato, quasi insolente, ha fatto indignare tutti gli oppositori della guerra, ha suscitato diatribe giuridico-politiche più o meno dotte, ha fatto citare, più o meno a sproposito, i dettami dell’ONU, la loro funzione, il diritto internazionale e così via.

Nessuno o quasi ha preso sul serio questa formulazione e, soprattutto, nessuno ne ha tratto le debite conseguenze sul piano teorico ed analitico, il che avrebbe comportato il tentativo di individuare gli scenari mondiali prossimi venturi.

Non lo hanno fatto, almeno alla luce del sole, i molti bellicosi e bellicisti che pure non hanno esitato a spingersi oltre le soglie del delirio e del ridicolo [1]. Questi ideologi del partito della guerra li possiamo suddividere, grosso modo, in tre grandi correnti: gli “utilitaristi occidentali”, coloro cioè preoccupati soprattutto per la stabilità delle economie e società occidentali, fra cui quella italiana, nel caso di una significativa ridefinizione del controllo sul mercato del petrolio e sugli assetti geopolitici nel Medio Oriente, con particolare attenzione all’alleato di sempre, Israele, che poteva veder incrinata la sua strapotenza militare nella zona; gli “americanofili”, quelli cioè che ritengono che la riproduzione dello status quo nei singoli paesi e nelle varie aree mondiali dipenda essenzialmente dal controllo e dalla supremazia militare USA, sia per fronteggiare eventuali disordini interni, sia per governare i conflitti internazionali (e costoro, in fondo, sono quelli che più si sono avvicinati, sia pure implicitamente, al concetto di “polizia internazionale”, ovviamente per esaltarne la funzione); i “fondamentalisti ideologici”, vale a dire coloro che sembrano aver preso sul serio le ideologie dominanti e professate e che, dunque, hanno creduto necessario ribadire, anche con la guerra, taluni valori-cardine dell’assetto capitalistico mondiale, in specie dopo il crollo degli pseudoantagonisti dell’Est, e quindi “democrazia”, “legalità”, “giustizia” ecc., naturalmente fissati una volta per tutte dal sistema sociale esistente e dalle credenze ufficiali.

Va da sé che queste correnti si sono spesso scambiate argomenti, miscelandoli diversamente a seconda delle inclinazioni, e che l’insieme è andato a formare il blocco “pro guerra”, occupando massicciamente i media e costituendo quindi l’“opinione” prevalente. Di fronte alla formula di “operazione di polizia internazionale” hanno ammiccato sornionamente, strizzando l’occhio a chi era così furbo da utilizzare un giro di frase che consentisse all’Italia di entrare “legalmente” e “costituzionalmente” in quella guerra che era il loro unico obiettivo. Alla quale, naturalmente, deve seguire una “pace giusta”, cioè determinata dai vincitori, fra i quali contano di esserci. Il cretinismo ed il servilismo di simili politici e “pensatori” hanno di fatto impedito loro di intuire il passaggio epocale a cui si sta andando incontro ed a cui, ovviamente, avrebbero plaudito, se l’avessero compreso, poiché la loro natura attiene più al poliziotto che al guerriero.

Del tutto differente, ma non per ciò più sagace, è stato l’atteggiamento del variegatissimo “fronte antiguerra” che, a dire il vero, ha mantenuto un profilo piuttosto basso, quasi che il pur savio “No alla guerra!” potesse spiegare tutto e tutto unificare. Questo fronte, definito o autodefinentesi “pacifista”, ha ottenuto la sua maggior vittoria nelle reazioni scomposte che ha suscitato nel fronte avverso, quello bellicista, ma, tranne poche eccezioni, è rimasto interno al quadro concettuale ed interpretativo dato, salvo utilizzarlo in senso pacifista. Non si è notato un apprezzabile rovesciamento di prospettiva.

Questo fronte polifacetico è andato, in Italia, da settori cattolici rincuorati dalle parole del papa, che si è sempre astenuto dal benedire la guerra, ad una serie di realtà cristiano-umanitarie, dai nonviolenti di varia indole agli antimilitaristi generici (le zone culturali da cui provengono in buona parte gli obiettori di coscienza), da un vasto arco di neoutilitaristi (la guerra è uno “spreco” umano, ecologico, economico ecc. e per ciò va evitata) agli ambientalisti più diversi, dai terzomondisti residuali agli antimperialisti tradizionali, dagli ex comunisti riciclatisi come “sinistri democratici” ai tuttora comunisti, ma democratici, e così via, sino a quella fascia di persone, soprattutto giovani che, forse più sensatamente, hanno detto di non aver voglia di guerra “perché no”, magari per un non dissimulato e giusto timore delle sue conseguenze anche ed essenzialmente sul terreno delle loro vite quotidiane.

Quest’area ha criticato, attaccato o sbeffeggiato la formula “operazione di polizia internazionale”, individuando in essa una circonlocuzione “pudica” per parlare e trattare di guerra, come il tentativo di nascondersi dietro ad un dito, come un’arrogante bugia, come un escamotage per aggirare il dettato della Costituzione repubblicana, come una furbesca ma vile forma di sottomissione al volere degli Stati Uniti eccetera.

A seconda dell’ideologia di ciascuno, le cause principali della guerra sono state attribuite al tentativo di accaparrarsi il controllo del petrolio, all’irrisolto conflitto fra Nord e Sud del mondo (non solo in senso geografico, ma soprattutto economico, politico, culturale; per alcuni fra l’opulenza e la miseria), nella ricorrente necessità capitalista della guerra, in quanto spreco assoluto, onde tamponare le crisi di sovrapproduzione ed esorcizzarne la minaccia, nel bisogno di smaltire in fretta gli arsenali immagazzinati per poter rilanciare la produzione bellica, nella volontà dell’Occidente di ribadirsi come egemone e di lasciare ai margini qualsiasi altra civiltà e cultura, e così via. Spesso ciascuna di queste spiegazioni contiene una parte di verità, ma la loro “colpa” comune consiste nel non aver colto la profonda verità insita nella formula “operazione di polizia internazionale” seppur celata nell’evidente menzogna. Ma è proprio questa arrogante evidenza della menzogna a denunciarne la sottostante verità. Poiché la verità vera non può venire dichiarata semplicemente, le si fanno indossare i panni della menzogna di modo che, paradossalmente, pur rimanendo tale enunci la verità che afferma apparentemente come menzogna. Un triplice salto mortale.

Il governo italiano, nella fattispecie, sapeva perfettamente che si trattava di una guerra e tra le più distruttive, almeno per il “nemico”, come sapeva di doverci andare in nome di quell’alleanza e dipendenza che lega l’Italia ad altri paesi, in primo luogo agli Stati Uniti, ed anche nella motivata speranza di ottenerne dei congrui vantaggi. Guerra, dunque, e di portata mondiale, sia per il numero di paesi coinvolti, sia per la complessità dell’area geografica toccata, sia, soprattutto, per la posta in palio. Ritengo che nessuno, neppure il più fatuo e vanitoso tra gli “esperti” esibiti dai media, credesse realmente ad un blitz rapidissimo e quasi indolore, ad “operazioni chirurgiche”, alla riproduzione su vasta scala delle vittoriose e veloci incursioni delle teste di cuoio, o di altri loro omologhi polizieschi, contro terroristi, delinquenti eccetera. Quello faceva parte dell’armamentario più tradizionale e volgare della propaganda. Ma questo nulla toglie al fatto che si sia trattato realmente di una “operazione di polizia internazionale”.

Infatti, non esiste operazione di polizia che possegga a priori la certezza di concludersi rapidamente, con i minimi danni e con il massimo successo. O con la sicurezza di non lasciare vittime sul campo, sia (poche) fra i “tutori dell’ordine” che (molte) fra i “delinquenti”, nonché fra coloro che vi si trovano coinvolti, seppur involontariamente. La storia delle operazioni di polizia è contrassegnata da episodi di questo genere. Soprattutto nei tempi più recenti, da quando, imperando lo spettacolo a cui tutti dobbiamo assistere, il “successo” sta più nella ambigua grandiosità delle immagini che vengono veicolate e, per conseguenza, nell’allusiva ed ellittica riaffermazione dell’ineludibilità dello Stato e della sua forza che non nel prevenire o nel reprimere questo o quel delitto. In Italia, come in altri paesi d’Europa, i morti nelle operazioni di polizia non si contano, prima fra i “criminali” veri o presunti, poi fra gli spettatori e i transeunti, infine, in misura ridottissima, tra le forze di polizia. Negli Stati Uniti esiste addirittura una sorta di programmazione: in parecchi casi si sono distrutti interi edifici abitati [2] pur di “stanare” ed eliminare delinquenti o terroristi. Al di là delle parole di cordoglio d’obbligo, le autorità non hanno troppo affanno nel giustificarsi, sempre attraverso due formule standard di sicura efficacia: “Non si poteva fare altrimenti, sennò il danno sarebbe stato maggiore per l’intera società”; “In operazioni di questo tipo vi sono sempre dei margini di errore, ma l’importante è comunque che gli obiettivi vengano raggiunti”. D’altronde, la sicura impunità di cui godono e la velocità frenetica, ossessiva, con cui si consumano socialmente immagini ed emozioni, poi sempre nuove ne vengono proposte sul mercato (chi ricorda un mese dopo questo o quell’“incidente”, tale o talaltro “infortunio”?), fanno sì che gli organizzatori delle operazioni di polizia si preoccupino assai poco di eventuali effetti boomerang.

Non è, dunque, dalla quantità di morti o di distruzioni che si può stabilire se si è trattato o meno di un’operazione di polizia. Non per nulla il “Washington Post” ha potuto rilevare, ovviamente con soddisfazione, che nelle cento ore di guerra terrestre anti irachena gli americani morti (quattro) erano di numero inferiore agli americani morti per delitti comuni (sette) nello stesso arco di tempo nella sola città di Washington. (Va da sé che i morti iracheni fanno parte di un altro conteggio, di un diverso bilancio.)

Per determinare il carattere di un’operazione di polizia, i criteri di valutazione devono perciò essere differenti. Non si possono basare sui mezzi impiegati, né sui danni arrecati – che in questa guerra sono stati eccezionali: gli stessi americani, vantandosene, affermano che mai nella storia un solo paese è stato bombardato come l’Iraq in questo periodo; che la quantità di esplosivo che ha colpito quel territorio in neppure due mesi è di molto superiore a quella usata contro la Germania nei cinque anni della II Guerra Mondiale; che il potenziale distruttivo lanciato quotidianamente su Baghdad è stato il più delle volte maggiore di quello adoperato su Hiroshima – e neppure sul numero delle vittime nemiche, militari o civili. Si devono considerare invece gli obiettivi, le finalità.

Per polizia possiamo intendere l’organo del potere esecutivo che ha il compito di assicurare il rispetto delle leggi, agevolandone l’attuazione e prevenendone ed impedendone la violazione”, secondo l’uso consolidato di questo termine, sia in senso linguistico che giuridico. Va da sé che già una definizione così apparentemente neutra è inquietante, poiché nulla ci dice sulla natura del potere esecutivo né su quella delle leggi e, pertanto, sulle operazioni di polizia; ma c’è da preoccuparsi molto di più quando si ha di fronte una polizia internazionale ed è inevitabile domandarsi di quale potere esecutivo sia l’organo, quali leggi intenda far rispettare internazionalmente. Ma che per questa guerra si possa parlare di operazione di polizia internazionale, e non solo per astuzia circonlocutoria, pare evidente sia per le sue modalità sia per le finalità dichiarate, non certo dall’ONU che è una miserevole facciata per decisioni che vengono prese altrove e che può al massimo disporre di una “forza multinazionale di pace” e non di una polizia mondiale, bensì dagli Stati Uniti e via via dai loro alleati. D’altra parte, che si andasse verso una situazione di polizia mondiale, naturalmente integrata dalle singole polizie locali, lo si poteva cogliere già da tempo.

Non è certo un fatto nuovo che gli Stati egemonici esercitino funzioni di polizia, non solo come espressione della “sovranità” – e dunque del monopolio della forza – all’interno dei “loro” territori, ma anche, estensivamente, nelle aree sottoposte al loro controllo, come una sorta di sovranità indiretta. Nuova, invece, è la tendenza all’integrazione internazionale, dopo il disfacimento del “socialismo reale” all’Est con la conseguente caduta del bipolarismo fra le due superpotenze militari, i loro alleati, le loro sfere di influenza che, ovviamente, si irradiavano anche su paesi non strettamente nell’orbita di questo o quel blocco. Nessuna persona savia può rimpiangere il bipolarismo o addirittura la “guerra fredda”, ma questa tendenza all’integrazione internazionale va esaminata per le sue potenziali conseguenze di cui la coalizione anti-Iraq è solo un anticipo.

Quello dei se è un esercizio per lo più futile, ma nel caso in questione è sin troppo facile ipotizzare che, se non fosse maturato questo processo di integrazione mondiale, sarebbe stata quasi impossibile una simile guerra contro l’Iraq, soprattutto sotto l’apparente egida delle Nazioni Unite. Basti pensare, per esempio, al diritto di veto che possiedono i cinque paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU, fra cui URSS e Cina, e come questo diritto sia stato sempre disinvoltamente esercitato quando venivano presentate mozioni contrarie agli interessi dei paesi egemoni o di quelli a loro alleati o sotto il loro controllo – l’unico infortunio clamoroso fu quello sovietico, ai tempi della Corea, dovuto alla sicumera ed alla rozzezza dell’URSS stessa [3]. Con ciò non si vuole affatto sostenere che non si sarebbe andati incontro a breve termine ad una guerra, più probabilmente ad una serie di guerre, nel Medio Oriente, ma di tutt’altre caratteristiche, com’è stato per la guerra dei sei giorni vinta da Israele o per quella di otto anni tra Iraq e Iran. Guerre anche cruente, a cui tuttavia non poteva applicarsi il concetto di operazione di polizia.

D’altra parte, eccezion fatta per la guerra di Corea, i due maggiori conflitti contemporanei, dopo la fine della II Guerra Mondiale, vale a dire quello del Vietnam e quello dell’Afghanistan, furono giustificati in modo profondamente diverso – e che si trattasse di giustificazioni è evidente. In un caso gli americani, nell’altro i sovietici sostenevano di intervenire perché “chiamati in soccorso” da pretesi governi legittimi ed amici, contro una guerra di guerriglia che li attaccava all’interno del paese. Come si può capire, ben poco a che vedere con un’operazione di polizia internazionale. Non a caso l’opinione pubblica mondiale si divise notevolmente sulle ragioni di fondo di quelle guerre, di quegli interventi: a favore o contro la lotta di liberazione in un caso, riguardo alla legittimità del governo “comunista” nell’altro. E, sempre non per caso, in entrambe le vicende le superpotenze se ne tornarono a casa con la coda fra le gambe, sconfitte soprattutto dall’opposizione interna ed internazionale, benché la situazione afghana si sia dimostrata poi assai atipica e dunque sia sinora rimasto “miracolosamente” in carica il governo-Quisling appoggiato dai sovietici.

A parte l’invasione USA di Grenada, episodio anch’esso alquanto atipico, la prima grossa “operazione di polizia internazionale” si ha con l’intervento militare americano a Panama nel dicembre del 1989, con la cattura del “traditore” generale Noriega, capo del governo, e la sua deportazione addirittura in un carcere statunitense (e non se ne sente più parlare, ufficialmene non se ne sa più nulla). Quello di Panama fu un test assai significativo, una sorta di prova in miniatura per l’esordio sul pianeta del Nuovo Ordine Mondiale, del suo Governo, con tanto di polizia alle sue dipendenze.

Non a noi [4] ma ai più quell’episodio passò quasi inosservato, pressoché “naturale”, essenzialmente per tre motivi: 1) Perché da lungo tempo viene accettato o subìto quasi da tutti, salvo poche eccezioni e soprattutto i movimenti di opposizione in quell’area, che il Centroamerica sia stato e sia il “cortile di casa” degli USA, come gli americani stessi amano definire quella regione; 2) Per l’evidente impresentabilità di Noriega, implicato in traffici internazionali di droga, già uomo di mano della CIA e dunque in certo qual modo “interno” alla politica statunitense ed ai suoi affari; 3) Per l’apparente rapidità ed asetticità dell’intervento americano che in quel piccolo paese trovò effettivamente debolissime resistenze.

Ben pochi notarono allora che quella “rapida ed indolore” operazione avesse causato fra i sei e i settemila morti, in specie fra la popolazione civile [5]. Pochissimi sembrano ricordarsi tuttora che da più di un anno è sempre presente a Panama un forte contingente militare statunitense (“forze di polizia”). Quasi nessuno ha voluto sottolineare il fatto che quel blitz è stato tollerato dalle altre potenze, se non addirittura concordato con esse. Ora possiamo affermare, dati alla mano, che quella è stata la prima operazione di polizia internazionale, seppure in piccolo. Ce ne dovevamo aspettare già da allora delle altre, ed ecco adesso questa contro l’Iraq, con l’esplicito assenso delle potenze mondiali, e con un comune elemento inquietante, a parte le differenze di scala: tanto Noriega che Saddam sono stati puniti non per i crimini realmente commessi, ciascuno a suo tempo incoraggiato dall’Ordine Mondiale, ed in primo luogo dagli USA, ma perché alzava le pretese, voleva mettersi in proprio, diventava quindi inaffidabile (lo stesso succede ai picciotti della Mafia che, dopo aver eseguito ordini su ordini, pretendono di alzare la cresta per conto loro, senza rispettare l’assetto gerarchico “naturale”; e, sia ben chiaro, con ciò affermo risolutamente che l’organizzazione degli Stati ha imparato molto dalla Mafia, così come questa si è modellata su quelli, poiché sono frutti dello stesso grembo).

Le specifiche e particolari matrici prettamente economiche, pur sussistendo, sembrano aver sempre minor peso rispetto a quello di un Nuovo Ordine Mondiale, di un Governo sovranazionale che, attraverso l’accordo esplicito o implicito tra i singoli Stati, permetta la riproduzione indefinita del sistema economico, politico, giuridico, istituzionale esistente; insomma, governare la miseria e la sopravvivenza sull’intero pianeta, tra i luccichii delle opulenze del consumo ed i bagliori delle armi.

È pur vero, per esempio, che gli interessi economico-commerciali (ma anche strategico-militari) degli USA rispetto al Canale di Panama sono stati e sono tuttora molto forti. È altresì vero che il generale Torrijos, predecessore e maestro di Noriega, poi morto misteriosamente, aveva siglato nel 1977 un accordo con l’amministrazione americana che prevedeva e prevede la restituzione a Panama della sovranità sul Canale entro il 1999 , data che si avvicina, e che le “bizzarrie” e gli improvvidi sussulti nazionalistici di Noriega abbiano potuto creare preoccupazione nell’attuale governo USA, visto che agli Stati Uniti il controllo del Canale è necessario anche dopo il Duemila. Ma è evidente che gli americani avevano molti altri mezzi, a parte l’invasione, o per accordarsi con Noriega stesso, già loro servitore seppur infedele, o per ridurlo in qualche modo alla ragione o, più semplicemente, per sbarazzarsene (e Bush, già direttore della CIA, di certo non avrebbe avuto problemi morali o di capacità o di mezzi). Di fatto, hanno preferito l’invasione, il massacro, la spettacolare cattura di Noriega ed il suo trasferimento nelle carceri di Miami. Solo un economicismo miope o un antimperialismo sloganistico possono spiegare quell’intervento USA soltanto con l’interesse americano al controllo del Canale. Troppo sfugge a queste analisi riduttive. Né più credibili possono risultare le interpretazioni di tipo psicologico, che pure qualche commentatore ha proposto, e cioè che Bush soffrirebbe di “delirio di potenza” o di profondo risentimento personale nei confronti del suo servitore fellone. La complessificazione della società non lascia spazio a simili semplificazioni. Ben più convincente appare l’ipotesi di un’aspirazione al Governo mondiale, con esemplari azioni di polizia internazionale, attuate in prima persona dagli USA proprio perché, nella divisione planetaria dei ruoli, a loro è rimasto l’indiscusso predominio poliziesco-militare, non più contesogli dall’URSS, mentre la prevalenza economica, nella società della riproduzione costante e reiterata, è ormai appannaggio di altri paesi come la Germania o il Giappone.

Un ragionamento analogo vale per il sanguinoso contenzioso con Saddam Hussein e l’Iraq, causa della guerra appena svoltasi. È indiscutibile che Saddam, impadronendosi del Kuwait, si impadroniva soprattutto delle risorse petrolifere che lì si trovano. Così avrebbe avuto – a parte il “risarcimento” per le spese sostenute in otto anni di guerra all’Iran – un maggior potere di contrattazione sul prezzo del greggio e, dunque, di ricatto sia nei confronti dell’OPEC, sia delle economie occidentali. Ma bisogna precisare subito, a scanso di equivoci e per sfuggire alla maldestra propaganda sviluppatasi durante la guerra, che la produzione complessiva dei due paesi (Iraq e Kuwait) è nettamente al di sotto del 15% della produzione mondiale di petrolio (i dati sono approssimativi, benché gli “esperti” li diano per sicuri, proprio perché vi sono state e vi sono delle transazioni “in nero”, per esempio per ottenere in cambio forniture belliche), che comunque le risorse dei due paesi – nel senso dei giacimenti e dell’estraibilità del greggio – non giungono ad un terzo delle risorse mondiali complessive [6] e ciò a lunga scadenza; che infine gli USA sono del tutto autosufficienti in quanto a produzione e riserve petrolifere e che, se hanno scelto di acquistare parte del greggio dai paesi del Golfo, è stato precisamente per scelte di economia (in senso stretto) e di politica (in senso lato). Il peso petrolifero di Saddam, dunque, sarebbe stato alquanto relativo comunque, sicché risulta enfatico ed inesatto definire questa guerra solo o principalmente come una “guerra del petrolio”. D’altra parte, anche in questo caso vale il ragionamento sviluppato prima per Panama. Gli USA, i paesi occidentali ecc. non avrebbero avuto nessuna difficoltà nell’accordarsi con Saddam Hussein, tanto più che vi si erano accordati a lungo per il traffico di armi ed i finanziamenti quando i timori di “destabilizzazione” per l’Occidente venivano soprattutto dall’“incontrollabile” Iran khomeinista e, dunque, il “laico” Saddam sembrava, da un lato, una difesa “occidentalizzata” contro il dilagare dell’integralismo islamico e, dall’altro, il “garante” rispetto alle mire espansionistiche siriane, data l’inimicizia esistente fra i governi dei due paesi. Si è dispiegato così un vertiginoso balletto di alleanze, di soldi, di armi, di petrolio, di ideologie nel quale sono stati coinvolti tutti, nessuno escluso. Per fare un esempio significativo, l’URSS non ha esitato mai nel fornire armi, aiuti e “consiglieri militari” tanto all’Iraq quanto alla Siria!

Esaminata sotto la luce riduttiva dell’economia, la guerra avvenuta pare del tutto demenziale, incomprensibile, quasi impossibile. Eppure c’è stata. Né, al di là delle chiacchiere sul diritto e la legalità internazionali, si può sostenere seriamente che agli USA importasse davvero la sorte dei regnanti del Kuwait, alleati fedeli sì, ma impresentabili con le loro satrapiche ricchezze, con il loro uso assai disinvolto della “democrazia”, ininfluenti da tutti i punti di vista (come si è detto, il petrolio kuwaitiano non è tale da modificare gli equilibri mondiali e, in specie, quelli dei paesi sviluppati, né le ricchezze accumulate dal clan dell’emiro potevano interessare altri se non i banchieri rampanti o i commercianti all’ingrosso o al dettaglio o i rapinatori di strada come Saddam). Né vale molto l’argomentazione avanzata da taluni “autorevoli commentatori” e cioè che la potenza militare irachena – del tutto sovrastimata e gonfiata ad arte, come i fatti hanno dimostrato – avrebbe messo in particolare pericolo la sicurezza dello Stato di Israele, da sempre figliolo prediletto degli USA (e delle potenti lobbies americane e internazionali) che gli hanno dato via libera per ogni sorta di scorreria, di manbassa, di annessionismo o di massacro e che, non a caso, in questa occasione si è lasciato prudere le mani, sfogandosi “solo” con i Palestinesi dei Territori occupati e delegando alla polizia internazionale i còmpiti che normalmente si era assunto in prima persona e con notevole efficacia. In realtà, la forza militare irachena poteva preoccupare Israele abbastanza poco, data la maggior potenza bellica (e nucleare) israeliana e in considerazione della sua fitta rete di appoggi internazionali. Tutto ciò avrebbe dissuaso in anticipo l’Iraq dallo sferrare un attacco diretto ad Israele, né se ne sarebbero viste le peculiari ragioni [7]: infatti gli iracheni hanno lanciato i vecchi Scud solo quando si sono visti con le spalle al muro e nella mal riposta speranza di dividere la “coalizione” almeno nei suoi elementi arabi. In ogni caso, Israele, nella sua politica di egemonia militare e strategica nel Medio Oriente, può preoccuparsi anche per la forza egiziana o per quella siriana, in costante incremento, eppure sia Mubarak che Assad hanno partecipato alla “coalizione”, dunque alleati con gli USA e quindi di fatto con Israele.

Nondimeno la guerra c’è stata e si è, provvisoriamente, conclusa con l’assai prevedibile massacro, soprattutto degli iracheni. Quindi il suo senso, il suo scopo, va ricercato altrove, in altre necessità, in altri progetti, e così si ritorna obbligatoriamente al concetto ed alla pratica dell’operazione di polizia internazionale, che peraltro viene confermata dalla mantenuta presenza (per mesi? per anni?) delle truppe americane a sud di Bassora, in Iraq, e dall’esplicita affermazione: “Non ci ritireremo sinché non avremo completato il ‘lavoro’ che ci siamo ripromessi”.

D’altra parte l’amministrazione statunitense, e Bush in prima persona, non hanno mai fatto mistero del loro fine reale ed anzi lo hanno ribadito ripetutamente. Per essere più precisi: dell’intrecciarsi di vari fini, tutti riconducibili ad unico progetto planetario. Dunque, anzitutto che in questo conflitto era in gioco l’ipotesi e la materialità del Nuovo Ordine Mondiale, con una ridefinizione complessiva degli assetti territoriali e delle sfere di influenza che, oggi, non possono più venir spartite ma devono ricondursi ad un unico Governo del mondo; in secondo luogo, che gli USA si sono candidati esplicitamente e prepotentemente a questa funzione di governo, perché ormai sono i soli in grado di poterla svolgere, mentre i partner devono fungere da supporto, principalmente nelle loro singole zone, e, quando ricchi, da finanziatori, viste le altissime spese che una simile organizzazione e presenza mondiale comportano; infine, che lo status quo internazionale va mantenuto ad ogni costo e che, quindi, ciascuna modificazione locale o regionale potrà venir accettata solo se patteggiata previamente e consentita dal governo mondiale (è qui evidente l’ammonimento nei confronti di tutte le velleità indipendentistiche, nazionalistiche o integraliste religiose; l’ipotesi di un sovvertimento sociale radicale non viene naturalmente neppure presa in considerazione: è già còmpito dei singoli Stati impedire che esso avvenga ed un intervento sovranazionale sarebbe pensabile solo nel caso che le forze locali risultassero insufficienti o incapaci).

Appare chiaro il progetto: che si formi realmente un governo mondiale, frutto anche di alleanze e di accordi per mutui vantaggi ma comunque sotto l’egida degli Stati Uniti, che questo governo detti delle leggi, si occupi della loro applicazione, solleciti o estorca un consenso generalizzato e, nel caso di opposizioni, rivolte o contenziosi particolari, intervenga per l’appunto con operazioni di polizia [8]. Né più né meno di ciò che è avvenuto ed avviene in ogni singolo Stato: stabilite le leggi (meglio se “democraticamente”, vale a dire decise dai detentori dei poteri con l’esplicito e formale accordo dei cittadini), costituite le “forze dell’ordine”, ogni trasgressore, sia esso individuo o gruppo politico o sociale, viene punito in nome della legge ed alla bisogna (uccisione, cattura, detenzione) provvedono le forze di polizia e quelle ad esse collegate, dai magistrati ai secondini. (Non è per mero delirio megalomaniaco, né per tronfia e smodata esibizione da vincitori che alcuni hanno proposto un processo internazionale per i vinti iracheni, Saddam in testa. È invece per l’affermazione definitiva di leggi e regole internazionali. Va da sé che il concetto stesso di “crimine di guerra” è estremamente labile, poiché la guerra di per sé è un crimine anti-umano, e dunque esso viene sancito solo con la forza dai vincitori. Quanto a me, non dubito affatto che gli iracheni abbiano torturato ed ammazzato, come peraltro si erano addestrati con i curdi e gli oppositori interni, ma purtroppo questa è pratica costante anche nei più remoti commissariati di polizia! Né mi risulta che sia stato mai istituito un processo stile Norimberga per chi, nella II Guerra Mondiale, decise ed attuò il bombardamento-massacro di Dresda o lo sganciamento delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il crimine di guerra, oltre a stare nel ventre stesso della guerra, risponde agli stessi criteri con cui, in pace, vengono definiti i crimini: secondo la logica di chi detiene il potere ed intende mantenerlo).

La novità storica, per così dire, consiste nel fatto che quello schema semplicissimo, collaudato ed efficace nel mantenere l’ordine nei singoli paesi o in alcune regioni, ora lo si vuole applicare su scala planetaria.

Il dominio del capitale, autonomizzandosi sempre più dalla produzione e proponendosi come riproduzione infinita di sé e dei suoi “oggetti”, uomini compresi, tende a caratterizzarsi come Ordine Mondiale. L’“utopia del capitale”, il sogno cioè di eternizzarsi e di sostituire la natura stessa, raggiunge così il suo punto più elevato: è un ordine in sé e per sé – la sua forma predominante è la democrazia formale – che sussume e regola l’esistenza degli uomini, la natura, l’economia stessa.

Nonostante l’enfatica riproposizione, un po’ ovunque, di teorie “neoliberali” o “neoliberiste”, in realtà sta avvenendo esattamente l’opposto. Non è il “libero mercato” (dei beni durevoli e non durevoli – di consumo – e della stessa forza lavoro), non è la legge del valore, bronzea o aurea, a determinare gli assetti sociali, economici e politico-istituzionali, ma, al contrario, è l’Ordine, nella forma Stato, nazionale o sovranazionale, ad imporre il mercato, a stabilire il valore, a determinare le regole dello scambio fondandosi sempre più sull’immaterialità dei beni e sullo spettacolo dei bisogni. Questa autonomizzazione del capitale dai suoi stessi fondamenti altro non è se non il risultato di un processo di “sviluppo” che ha toccato il suo apogeo e che ora si fissa nei meccanismi della riproduzione. Garantiti dalle armi e dalle polizie [9].

Si potrebbe obiettare che questo sviluppo non ha coinvolto l’intero pianeta e che, anzi, vi sono zone spossessate in cui la miseria è addirittura crescente e che potrebbero o dovrebbero venir “colonizzate” e “civilizzate” dal capitale e dal suo modo di produzione, con il corollario di una “democrazia” più o meno controllata. Nulla di più inesatto, dal punto di vista delle esigenze globali del capitale. Infatti, il sistema capitalistico mondiale vive proprio su queste differenziazioni, vive, cioè, amministrando i dislivelli che la sua progressione di sviluppo ha accentuato o addirittura determinato. Fatte sue le acute analisi di Rosa Luxemburg – che vedeva inevitabile un crollo, o un’implosione, quando l’intero territorio mondiale fosse stato capitalistizzato e dunque senza più settori sociali o geografici in cui “incassare” il plusvalore estorto – non tende ad una omogeneizzazione dei mercati, che comporterebbe un’irresistibile tendenza alla saturazione e, appunto, all’implosione, né allo sviluppo indefinito ed allargato della produzione – che condurrebbe a letali crisi di sovrapproduzione non risolvibili né nella maniera classica, vale a dire con la guerra come argine alla sovrapproduzione, né con quella più moderna dell’aumento delle merci di consumo pressoché immediato (infatti lo sviluppo della produzione porterebbe proprio ad un surplus produttivo di queste merci che risulterebbero sovrabbondanti rispetto ai margini dell’assorbimento) – né, infine, alla “capitalistizzazione” del mondo, nel senso di creare in ogni zona geografica un polo capitalista simile e dunque concorrente, ciò che in passato determinò le guerre interimperialiste. All’opposto, tende all’assolutizzazione dei dislivelli creatisi, per consentire la loro regolamentazione attraverso l’Ordine ed il Governo mondiali, alla diminuzione progressiva della produzione in senso proprio, all’allargamento indefinito della riproduzione.

La crescita esponenziale della microelettronica, della telematica, della cibernetica ecc. indica bene tale tendenza: queste nuove tecnologie vengono applicate alla produzione di beni materiali solo in misura ridotta (naturalmente rispetto alla loro quantità complessiva); la gran parte viene destinata ai beni immateriali, siano essi l’amministrazione, lo spettacolo, i servizi o la guerra stessa – tragico crocevia tra beni materiali e beni immateriali! L’industria informatica, che sta vivendo un periodo di riflusso proprio a causa di una sovraproduzione, in fronte alla massa di investimenti compiuti, riceverà sicuramente nuovo impulso dalla guerra del Golfo, dove tutto è stato “tecnologico”, uomini compresi (e compresi quei poveracci di prigionieri iracheni, di cui ci hanno mostrato le immagini mentre baciavano la mano del marine o si gettavano come cani affamati su un pezzo di pane lanciatogli; può sembrare cinico, ma essi sono esistiti sulla scena mondiale solo perché potessero venire diffuse queste immagini, solo come materia prima e vivente dello spettacolo e, dunque, sono anch’essi “tecnologici”).

Questo quadro, che è già presente e che si determinerà vieppiù con il tempo, è assai preoccupante epperò realistico. Non solo indica il raggiungimento di un livello superiore del dominio reale del capitale, ma ci dimostra come certe analisi, definite “anarchiche” o “acrata” o semplicemente “antiautoritarie”, siano state gettate dalla finestra troppo frettolosamente. Si vede, infatti, che l’autorità oppressiva dello Stato, o del Sovrastato, anziché attenuarsi, “democratizzarsi”, tende a rafforzarsi su scala planetaria; si vede che lo Stato, e l’Ordine Mondiale, non è semplicemente un comitato d’affari di capitalisti associati ma tende ad esprimere la volontà, l’interesse, il senso del capitale nella sua complessa interezza: ci sono, naturalmente, bande fra loro rivali, che possono arrivare anche a scontrarsi, ma tutte perseguono il medesimo fine ed attraverso lo stesso mezzo, cioè il controllo statale; si vede, infine, che la democrazia, se per certi versi è realmente l’“involucro” della società più utilizzabile dai rivoluzionari – come sosteneva Lenin –, di fatto è sicuramente la forma di gestione più propria al capitale, né peraltro esclude la barbarie o la compresenza di regimi dispotici, purché inseriti nell’Ordine Mondiale e ad esso allineati.

Con tutto il disprezzo che si deve nutrire per un Saddam Hussein, massacratore del suo stesso popolo, non si può evitare di vederlo come una vittima annunciata e designata di questa ambiziosa ipotesi di Nuovo Ordine Mondiale. Come un allocco, è caduto nella trappola che gli era stata tesa da tempo. Il Nuovo Ordine doveva manifestarsi, inaugurarsi in qualche modo e l’operazione di polizia doveva essere esemplare – letteralmente: funzionare da esempio e monito per tutti. Se i governanti sionisti di Israele, pur con tutte le protezioni di cui godono, hanno sempre cercato di non “eccedere” nelle loro ambizioni, se gli integralisti islamici dell’Iran, pur con il sostegno di grandi masse popolari drogate, hanno saputo “limitarsi”, cioè accettare i limiti imposti loro come sfera d’influenza, Saddam Hussein ha infranto delle regole non scritte ma esplicite. In certo senso, ha morso la mano del padrone, come, assai più in piccolo, a suo tempo aveva fatto Noriega. Non ha capito, insomma, che un conflitto simile doveva succedere, per esemplificare concretamente il senso e le modalità di questo Nuovo Ordine Mondiale, la funzione di polizia planetaria degli USA, attaccati economicamente ai fianchi dalle “anomalie” tedesca e giapponese, e per sottolineare l’integrazione tra tutti i paesi ed in primo luogo con quelli dell’Est [10]. Poteva non capitare a lui e probabilmente pensava di avere sufficienti margini di riconoscenza da riscuotere e, dunque, di poterla far franca (basti pensare al suo colloquio con l’ambasciatrice americana a Baghdad pochi giorni prima dell’invasione del Kuwait – ed ampiamente riportato da tutti i media internazionali – che sembrava quasi autorizzarlo all’annessione dell’emirato, a dargli la green light). Ma una serie di fattori, al di là della sua azione militare e del suo tipo di governo, che possiamo definire come quasi occasionali o congiunturali, lo hanno reso l’esempio da dare, per eccellenza. Gli è andata male, addirittura assai peggio del previsto, ma di sicuro non c’è alcun sovversivo che se ne duole.

Ma se è eticamente ed umanamente doveroso ribellarsi alla guerra, a tutte le guerre, ed a questa appena conclusasi, è ancor più necessario pensare seriamente a quello che viene definito il dopoguerra, cioè a come opporsi a questo Nuovo Ordine Mondiale, a queste polizie nazionali ed internazionali, a questo dominio “democraticamente” totalitario sulle nostre vite [11].

Se questa macchina sovranazionale non viene inceppata in più punti, se non vengono rimessi in discussione, e praticamente, i fondamenti stessi del potere, avremo una lunga stagione buia, in cui ogni lotta di liberazione e di emancipazione dal capitale e dallo Stato sarà offuscata, e su cui risplenderà soltanto il sole artificiale dello spettacolo, dolciastro, rassicurante o terrifico a seconda delle esigenze dei registi.

Torino, marzo 1991

Riccardo d’Este

 

[1] Se si può sorridere del delirio senile di un “autorevole” giornalista italiano come Indro Montanelli, che in un editoriale ha condensato, seriamente ma non senza humour involontario, l’ideologia americana nella figura di John Wayne, che ci ha sempre salvato e che quindi dobbiamo prendere come esempio, va oltre il limite concesso al ridicolo l’articolo di fondo di Paolo Mieli, direttore del quotidiano “La Stampa” di Agnelli e della Fiat, in data 28.11.1991. Costui, ex pseudogauchiste e calunniatore di professione di ogni movimento sovversivo, è incorso in un infortunio significativo, indecente anche dal punto di vista professionale. Mentre il suo stesso giornale titolava a tutta pagina “La guerra è finita”, prendendo atto dell’annuncio di cessate-il-fuoco dato da Bush, il direttore del medesimo giornale, in un articolo evidentemente scritto prima delle decisioni del “boss”, sproloquiava che “una volta iniziata la battaglia finale, questa non può essere interrotta prima di essere stata portata a compimento” e quindi teorizzava che gli alleati dovevano giungere sino a Baghdad onde evitare di lasciare “semi di tumulto in quegli Stati arabi che si sono impegnati nel conflitto”. Bush dovrebbe tirargli le orecchie, da buon ex direttore della CIA.

[2] Si può ricordare l’episodio di Filadelfia, del maggio 1985, quando la polizia lanciò una bomba incendiaria contro una casa, distruggendo buona parte del quartiere (citato in Abolire il carcere, p. 6, Nautilus, Torino 1990) ed è nel ricordo di molti, perché diffuso dalle tv di tutto il mondo, l’attacco micidiale sferrato contro un palazzo abitato da membri dell’Esercito di Liberazione Simbionese.

[3] Quella di Corea è stata l’unica guerra contemporanea combattuta sotto le bandiere dell’ONU. Caso unico e non più ripetutosi proprio perché l’URSS del 1950, ritenendo che non avrebbero “osato” tanto, non si occupò di bloccare la mozione che richiedeva l’intervento. In realtà, furono essenzialmente gli USA ad agire bellicamente, ma con un mandato delle Nazioni Unite.

[4] Cfr. Intorno al Drago, Nautilus, Torino 1990.

[5] Questi dati, come gli altri riguardo a Panama, sono ormai di dominio pubblico, neppure più celati. Una fonte importante è il libro Invasión de Panama, Panama 1990, scritto da uno dei più celebri autori panamensi, José De Jesus Martínez, scomparso nel febbraio di quest’anno [1991].

[6] Secondo i dati forniti dalla rivista “Fortune” in epoca prebellica, quindi non sospetta, precedente all’intossicazione propagandistica.

[7] Infatti la questione palestinese è stata evidentemente una pezza giustificativa per il regime iracheno, per attirare su di sé la simpatia e la solidarietà delle popolazioni arabe, visto che mai in precedenza Saddam Hussein e il suo governo si erano attivamente occupati del problema, salvo qualche interessata ospitalità ad organizzazioni palestinesi.

[8] Ormai risulta indiscutibile, con le successive penetrazioni nel territorio iracheno e con il dichiarato mantenimento della forza militare, la volontà degli USA di intervenire nella guerra civile in Iraq. Non tanto per scalzare dal potere Saddam, quanto per controllare gli sciiti appoggiati dall’Iran nonché altre forze – ad esempio tra i curdi – che potrebbero spingersi verso posizioni più radicali e squilibrare l’assetto regionale (non per nulla i curdi sono obbligati a ribadire che vogliono solo un’autonomia e non uno Stato indipendente, il che creerebbe un grosso problema alla Turchia, alleata degli USA e membro della NATO, che, come l’Iraq, si è sempre distinta nella violenta repressione del popolo curdo).

[9] La “sicurezza” è un settore fondamentale nei servizi. Mai come in quest’epoca vi è stata tanta proliferazione di agenti pubblici e privati dell’azienda “sicurezza”. Non si tratta soltanto di una valvola di sfogo rispetto alla disoccupazione, né semplicemente di una militarizzazione della vita corrente. E piuttosto un elemento centrale nel processo di riproduzione. Come, per esempio, nella produzione taylorizzata, nelle linee di montaggio in fabbrica, il cronometrista svolgeva un ruolo essenziale, così nella società della riproduzione, società di società, la funzione del controllore o poliziotto è importante quanto quella dei media o dei produttori e riproduttori di spettacolo sociale, politica inclusa.

[10] La pessima figura rimediata dall’URSS nell’intera crisi del Golfo e l’evidente ruolo di comprimari scelto dai paesi dell’Est (basti pensare, da un punto di vista militare, che hanno deciso di sciogliere il Patto di Varsavia pur sussistendo la NATO!) deriva da due ragioni fondamentali: la prima è che i regimi del “socialismo reale” non avevano più forza né ideologica né materiale (economica) per sopravvivere come blocco a sé stante, di fronte ai sommovimenti avvenuti in quei paesi ed alla congiuntura internazionale; la seconda è che i problemi di ordine interno sono prevalsi e prevalgono su quelli internazionali, di modo che il Nuovo Ordine Mondiale conviene all’URSS quanto agli USA, sebbene l’Unione Sovietica sia costretta, ma non del tutto di mala voglia date le questioni interne irrisolte, ad interpretare la parte del “luogotenente di campo”.

[11] Sembra incredibile come, almeno in Italia, parte della “sinistra” scimmiotti le ideologie ed anche le formulazioni proposte. Molti si sono lamentati che il nuovo ordine mondiale – concetto che hanno già introiettato – sia apparso sulla scena con vesti guerriere e distruttive, mentre, secondo loro, dovrebbe essere impostato sui quattro punti cardinali: pace, giustizia, democrazia e libertà. Il fatto che viviamo in una società capitalista e violenta scivola via, come fosse un male “occasionale”, superabile dagli “uomini di buona volontà”. Sarebbe davvero sciocco rimproverare questi personaggi, movimenti o partiti per non essere dei radicali o dei rivoluzionari, cosa che, onestamente, da tempo non pretendono manco di essere. Ma è troppo chiedere di evitare le chiacchiere confusioniste, quelle che vogliono far credere che, nelle condizioni storiche e materiali date, possano esistere un nuovo ordine mondiale “buono” ed un altro “cattivo”? Gli strateghi del Nuovo Ordine Mondiale, assai più coerentemente, non si pongono affatto simili futili problemi!