La guerra pezzo per pezzo

Nella giornata del 5 aprile si è tenuto nell’università di sociologia di Trento uno sfacciato incontro sui “processi partecipativi” incentrato sul progetto Tav in Trentino, durante la quale l’invitato principale era il sindaco di Trento, Franco Ianeselli. Di fatto una lezione di propaganda per conto di Rfi. Durante la mattina, poco dopo, la stessa università di Sociologia ha messo a disposizione una delle sue aule per la conferenza dal titolo “La guerra in Ucraina e la politica in Italia”, organizzata dal centro di ricerca “Jean Monnet”. In strada un’iniziativa di protesta ha contestato la presenza del sindaco aspettandolo all’uscita (il quale lamenta di aver avuto un confronto “non democratico”), ma anche sottolineando il ruolo dell’università nelle collaborazioni con l’industria bellica. Riportiamo di seguito un intervento fatto da un compagno in quell’occasione.

La guerra pezzo per pezzo

Qualche anno fa scrivevamo su un piccolo opuscolo, poi finito sulle scrivanie delle Procure all’interno dell’operazione anti-anarchica denominata “Renata”, che per essere contro la guerra è necessario attaccare la salute dello Stato, poiché attaccare lo Stato significa colpire l’essenza della guerra. Sì, perché da che mondo è mondo la causa di qualunque guerra risiede nell’esistenza stessa degli Stati. Uno Stato senza esercito, polizia e bombe non potrà mai definirsi tale, poiché senza quei rapporti di forza sarebbe la popolazione stessa che abita i suoi territori a definire la qualità della vita. Invece lo Stato la vita la deve controllare, reprimere e tenere in pugno. Oggi nei missili che cadono sull’Ucraina, ieri in Afghanistan, Iraq, Palestina, Libia… Ma ogni esercito ha bisogno di tecniche e studi raffinati per mantenere la sua potenza, e questi non si sviluppano in chissà quale laboratorio sperduto tra i monti, ma all’interno delle Università. Quelle stesse Università, come quella di Trento, che si ripuliscono la faccia con il leitmotiv della “costruzione della pace” (come sta accadendo con gli accordi con le istituzioni russe), ma nel frattempo continuano sfacciatamente le innumerevoli collaborazioni con l’Industria bellica. Dal coinvolgimento nell’Aerospazio per scopi strategici e il controllo delle frontiere, alle tecnologie di digitalizzazione dell’esercito, come il progetto Soldato Futuro, fino agli studi sociologici della contro-insurrezione, sono moltissimi i campi in cui l’università di Trento finanzia e porta avanti le ricerche a fini bellici.

Oggi la ricerca duale (civile e militare) è sempre più immersa nelle dinamiche stesse della società tecno-capitalista e dietro la cosiddetta libertà di ricerca non c’è proprio alcuna libertà. C’è invece la longa manus del militarismo e di aziende come Leonardo, Eurotech, Eni, Thales Alenia Space, Iveco Defence Veichles e molte altre.

I due anni che hanno preceduto l’inizio di questa guerra hanno soffocato qualunque spirito critico, ed è stata la conseguenza di scelte e misure prese dagli Stati affinché l’accettazione muta divenisse la norma. Chiunque si opponga realmente al militarismo è definito alle nostre latitudini “amico di Putin” come fino a pochi mesi fa chiunque sollevasse dei dubbi sulla gestione statale dell’epidemia rientrava nei criteri dell’untore. Quello degli ultimi due anni è stato un terreno di prova. Ed oggi la propaganda statale non si fa remore a definire “atteggiamento psicotico” quello di chi critica la guerra in corso, come successo a Taranto qualche giorno fa.

Ed oggi veniamo bombardati da definizioni quali “transizione ecologica e digitale”, da coloro che senza scrupoli alimentano e vogliono la guerra per il controllo dei territori e delle materie prime essenziali al funzionamento del loro Mondo Nuovo. Un mondo di macchine in cui vige soltanto la logica dell’efficacia. Basta guardare con attenzione quello che è avvenuto in Kazakistan ad inizio gennaio (su cui non si è sollevata alcuna indignazione istituzionale) per vedere il vero volto della digitalizzazione e della guerra. In quel territorio sono moltissime le risorse utili alla costruzione delle componenti microelettroniche per la digitalizzazione (i cosiddetti metalli e terre rari), oltre al petrolio e il gas, e di conseguenza l’interesse delle superpotenze ad averne il controllo. Inoltre le centrali utilizzate per la produzione di dati hanno un consumo energetico enorme che in Kazakistan ha letteralmente fatto spegnere intere città e alzato a dismisura i prezzi delle bollette. Questo è uno dei motivi per cui hanno preso vita le rivolte. Il controllo delle risorse minerarie è una delle priorità delle guerre di oggi e di domani, il momento di verità dietro la cosiddetta Transizione. E l’estrattivismo sfrenato è ciò che non solo devasta i territori e ammala le popolazioni, ma anche ciò che occorre alla costruzione di nuovi armamenti sempre più tecnicamente avanzati. La guerra che produce la guerra. Le spese militari sono in continuo aumento e il PNRR dice chiaramente quali sono i piani per il prossimissimo futuro. Questa è l’industria 4.0 cui vengono preparati (o sarebbe meglio dire arruolati) molti degli studenti universitari. Ed è per questo che in questa guerra, come in tutte quelle che la hanno preceduta, non esiste il campo del Bene contro quello del Male, esistono interessi e poteri che devono essere difesi a qualunque costo e sacrificio umano. Ed a pagarne il prezzo saranno solamente gli oppressi e la povera gente. Ogni militarismo, da qualunque parte provenga, porta con sé nuovi confini e con essi morte, distruzione e sfruttamento. Ogni cuore che vi si contrappone, al contrario, può essere parte dell’unica coscienza capace di mettere freno alle guerre dei padroni, quella di un internazionalismo senza patrie.

In tal senso, salutiamo con gioia il rifiuto da parte dei lavoratori di Pisa e di Genova di caricare materiale bellico, il blocco di armamenti della NATO da parte dei ferrovieri greci e il sabotaggio attuato dai ferrovieri bielorussi dei rifornimenti all’esercito russo.

In questi gesti c’è più umanità, più intelligenza e più solidarietà concreta che in tutti i convegni universitari sulla “pace”.