La torre e le cantine

 «Per rassicurarci, ci spiegano che l’uomo si è umanizzato grazie alla tecnica, e che con le sue centrali nucleari, i suoi calcolatori che immagazzinano la storia universale, le sue manipolazioni genetiche stia semplicemente continuando la sua umanizzazione. Da una falsa premessa […], si salta a una conclusione assurda che non sarebbe meno assurda se l’affermazione iniziale fosse perfettamente esatta. Cosa si penserebbe infatti di qualcuno che dicesse: “Il signor Caio si era costruito una casa di due piani, una dimora spaziosa per lui e la sua famiglia. Ma non si è accontentato di due piani, ne ha costruiti altri quaranta, o quattrocento, o quattromila, e non ha alcuna intenzione di fermarsi. Cosa avete da ridire? Ha procurato un riparo ai suoi, continua”. La torre insensata del signor Caio è destinata a crollare da un momento all’altro sui suoi abitanti, ogni nuovo piano accresce la minaccia ma se ne parla sempre come di un riparo. È proprio questo il discorso degli apologeti dello sviluppo tecnico infinito con la circostanza aggravante che lo fanno davanti a un mucchio di macerie: la casa divenuta torre insensata è già crollata. E tutto ciò che in questo riparo c’era di tenebroso, le oscure realtà su cui erano fondate le identificazioni collettive e il ricatto sociale, le paure, le repressioni e le crudeltà, tutta la parte di barbarie sotterrata sotto l’edificio della civiltà, tutto ciò è risalito dalle cantine e dalle fondamenta, e viene ora all’aria aperta».

Jaime Semprun, L’abisso si ripopola, 1997

La guerra in corso in Ucraina non è un’escrescenza di follia (Putin il pazzo) o di belluinità (Putin l’animale), come politici e giornalisti ci stanno ripetendo da giorni, bensì un precipitato della logica di potenza che muove gli Stati e i capitalisti. Ma anche questa affermazione risulta a suo modo rassicurante. La verità è ben più terribile: è la società stessa che si è trasformata in una gigantesca macchina da guerra.

La globalizzazione tecnologica e finanziaria – coestensiva rispetto al regime politico dimostratosi a lungo come il più funzionale: quello democratico rappresentativo – era stata trionfalmente spacciata come “fine della storia”: le guerre, i nazionalismi, i fanatismi religiosi avrebbero ormai fatto parte dell’infanzia dell’umanità, finalmente approdata alla ragione (tecnica), al benessere (mercantile), al dialogo (democratico). Ora, simili fòle possono andare bene per il salotto buono, lontano dalla cantina insanguinata (spoliazione neocoloniale, massacri per procura, sfruttamento semi-schiavistico in altre parti del mondo o nei luoghi meno visibili delle metropoli). Ma quando l’economia, spinta da mezzi tecnoindustriali sempre più smisurati e incontrollabili, comincia a muovere guerra agli umani in quanto tali (e a tutti i viventi), la sua mobilitazione totale produce due effetti concomitanti: sempre più persone sono cacciate verso la cantina; i metodi del sottosuolo tendono a salire in superficie. Il salotto comodo e confortevole si sposta allora sempre più in alto; ma più la torre degli Übermenschen si eleva, più le fondamenta e le cantine si allargano; e più si estende il popolo degli Untermenschen. Le condizioni in cima e quelle in basso figurano mondi che non sembrano nemmeno contemporanei; i post-umani del dominio tecno-finanziario, che sentono di far parte letteralmente di un’altra specie, assegnano alla propria coscienza di classe piani sempre più onnipotenti di manipolazione del mondo, della natura, dei vivi su cui governano. La loro psicologia di bambini viziati e di padroni paranoici corrisponde perfettamente alla struttura della società su cui dominano: sottomessa a mezzi tecnici sempre più illimitati, essa è ogni giorno più fragile, in balìa di imprevedibili ritorni di fiamma, talmente connessa da dipendere dal funzionamento di ogni suo ingranaggio. Il capitalista-da-apparato di Mosca e il miliardario ingegnere della Silicon Valley provano lo stesso disprezzo per la materia umana su cui si basano le loro fortune, troppo refrattaria ad adattarsi al posto e alla funzione che vogliono assegnarle; il primo – nuovo arrivato in quella classe mondiale – sa che di fronte al secondo si porterà sempre appresso la fama e le maniere di un lumpen, di un “barbaro artificiale” costretto a dotare il suo management di quella violenza e di quella brutalità che contraddistinguono l’accumulazione originaria di entrambi, ma che il secondo non gradisce di sentir nominare nel proprio salotto high tech. Tuttavia, dentro la concorrenza che il macchinario capitalistico rende sempre più feroce – le speculazioni finanziarie avvengono ormai a una velocità incompatibile con i tempi della decisione umana –, lo scontro travolge ogni distanza tra l’ingegnere, il petroliere di Stato e il militare, e rispolvera dalle cantine i vecchi arnesi della “guerra fredda”: aggressione psichica di massa, dissociazione cognitiva, tecniche di tortura per ottenere la rieducazione politica e morale del dissidente, porte girevoli tra i Servizi e l’industria, e così via. Una volta stabilito il Fine, ogni mezzo vale, e il suo impiego divora l’obiettivo con cui si dovrebbe giustificare. “Rendere demenziale l’evidenza” diventa allora un processo in cui è sempre più arduo non solo distinguere il vero dal falso, ma anche separare il fine perseguìto dalle conseguenze involontarie, a loro volta foriere di nuovi obiettivi che richiedono mezzi ancora più sproporzionati – fino alla bomba nucleare, strumento reale e allo stesso tempo simbolo definitivo del Mezzo Assoluto.

Mentre si evocano scenari di distruzione totale, si avanza nella distruzione di ogni logica. Chi ha disseminato il mondo e l’Europa di basi militari, di missili e di bombe atomiche accusa il gangster moscovita di “terrorismo nucleare”. I costruttori di muri e filo spinato anti-immigrati diventano i campioni della solidarietà nei confronti dei profughi ucraini (purché abbiano stampato in viso un white pass). Chi ha finanziato e finanzia gli aguzzini dei lager libici, fa dell’accoglienza (si badi: non delle armi che si appresta a fornire ai soldati ucraini, ma proprio dell’accoglienza) il pretesto per rinnovare lo stato di emergenza di altri dieci mesi. Lo stesso generale NATO già comandante in capo della gloriosa missione in Afghanistan, in seguito Commissario per la campagna “vaccinale”, è subito nominato coordinatore logistico delle operazioni militari nell’Est europeo. I giornalisti che ci hanno spiegato per mesi e mesi che il “no vax” era un antinazionale, oggi, divenuti esperti anche di “crisi ucraina”, traggono dallo stesso copione l’identica sentenza: chi critica la guerra promossa e non dichiarata dal governo italiano è un amico di Putin. (Senza che manchi qualche spassoso caso di contrappasso: chi non ha avuto alcuna difficoltà a fornire legittimità politica e costituzionale al lasciapassare, oggi, quando fa timidamente notare che la Costituzione e persino una legge specifica vieterebbero l’invio di armi a uno Stato belligerante, si trova trattato da agente del Cremlino tra gli applausi generali). Le parole non sono un abbellimento dell’animo. Le metafore belliche sono sempre profezie che si autoavverano.

La concorrenza tra l’uomo-da-apparato russo (e, dietro la collina, cinese) e l’uomo-macchina statunitense rappresenta il mondo. Il progetto transumanista è tanto ferocemente classista e anti-umano quanto smisuratamente energivoro. La macchinizzazione del mondo ha costi energetici ed ecologici via via crescenti. Ora, la conformazione della Terra fa sì che la maggior parte degli idrocarburi, nonché delle terre e dei metalli rari – indispensabili per l’industria e la per guerra 4.0 – non siano a completa disposizione della tecnocrazia occidentale; e che i loro proprietari reclamino un posto più soleggiato nel banchetto mondiale. Questi ultimi, per spacciarsi come alternativa al capitale transumanista e allineare al proprio campo una parte del popolo dell’abisso, affermano un’altra visione del mondo e della società. Come già accaduto negli anni Trenta, la competizione ideologico-militare spinge le potenze in gioco – quelle imperiali in declino e quelle regionali o continentali emergenti – a entrare in un rapporto che è sia di guerra che di “simbiosi mutualistica”. La burocratizzazione del mondo – che all’epoca fece ipotizzare ad alcuni rivoluzionari la fine del capitalismo privato – continua oggi con caratteri diversi. L’intervento sempre più massiccio degli Stati nell’economia e l’infrastruttura tecnologica che collega tutti i regimi determinano una singolare integrazione nei metodi di governo e di formazione del consenso. E più precipita lo scontro, più accelera l’integrazione. Così, il tracciamento digitale della popolazione – una pratica che il liberale considerava tipica del totalitarismo cinese – è stata introdotta in Occidente grazie all’Emergenza Covid. La censura degli organi di informazione non allineati, la caccia al nemico interno, il divieto di manifestare, l’abiura in diretta televisiva del dissidente – insomma, tutto ciò che il liberale considerava tratto tipico del regime di Putin – vengono copiati in pochi mesi dal “mondo libero”. A un direttore di orchestra russo si impone di schierarsi contro il proprio governo (pensiamo se fosse avvenuto qualcosa di simile con un musicista israeliano…). Si blocca un seminario universitario su Dostoevskij perché non si sa quale autore ucraino giustapporgli per par condicio, si ritira il corrispondente italiano da Mosca perché riporta le veline del Cremlino (effettivamente, per fargli leggere quelle di Biden o di Draghi, tanto vale mandarlo a Washington o tenerlo a Roma), si estromettano autori e testi russi da questo o quel salone del libro, si sospendono innocui analisti universitari perché ricordano la politica espansionistica della NATO. Insomma, si procede spediti verso quella comunicazione di guerra invocata da un certo senatore a vita. Siccome non ci si può fermare a metà strada – principio di potenza che vale per l’ingegneria genetica, per la produzione di armamenti e per quella di notizie – una sola nota discorde fa stonare tutta la sinfonia. Se per tre quarti di un telegiornale si terrorizza lo spettatore con il fatto che i Russi hanno bombardato una centrale nucleare, il corrispondente da Mosca che riporta la posizione del Cremlino (“quella centrale era già occupata dai nostri soldati e tecnici da otto giorni”) è oggettivamente un sabotatore del campo del Bene (cosa che ha fatto notare con solerzia il segretario di un partito che è sempre stato maestro nell’inventare sabotatori immaginari per colpire il dissenso reale; e da allievo della stessa scuola politica usa oggi quel metodo staliniano contro i suoi eredi storici).

Non che fossero mancati, nei due anni di Emergenza precedenti, gli esempi di tale “spettacolo integrato” (tecniche dell’Est, parole ed effetti speciali dell’Ovest). Qualcuno potrebbe pensare, ad esempio, che l’esibizione televisiva dei “no vax” che si pentono e invitano a vaccinarsi dal loro letto di ospedale fosse un programma tutto nostrano. No. È andato in onda in diversi Paesi più o meno nelle stesse settimane. E chi ha accolto in silenzio o applaudito in pubblico la gogna degli “irresponsabili”, tradottasi materialmente nella marginalizzazione sociale di qualche milione di persone, oggi sgambetta nelle piazze contro Putin il folle che non ascolta la gente che protesta. E chi parla ora di “maccartismo” di fronte alle liste di proscrizione pubblicate dai giornali della borghesia, cerca di far dimenticare un’immagine di sé decisamente meno edificante: durante i due anni di maccartismo “pandemico” e “vaccinale” contro i renitenti, ad attaccare dalla terza o dalla quarta fila – dietro il fuoco incrociato di governo, Confindustria ed “esperti” –, c’era anche lui.

L’egemonia economica, politica e “spirituale”  degli USA e del capitalismo occidentale declina ogni giorno di più – e nessun panebianco riuscirà a trasformare la miseria crescente, con i suoi Ersatz nutrizionali e ideologici, in leccornie democratiche per le quali sacrificarsi. Una cantina verniciata non diventa un salotto.

Nessun “sovranismo” farà marciare all’indietro i cingoli del Leviatano e della sua Storia (per ripendere il titolo del saggio con cui quarantanni fa Fredy Perlman diede un contributo fondamentale alla critica anti-industriale).

Occorre guardare oltre gli epifenomeni politici e militari (chi sta salendo sulla torre, e chi viene gettato giù), per concentrarsi sulle fondamenta.

Il capitale, affrancatosi progressivamente dalla determinazione-lavoro, si “ultimizza” in una fuga in avanti per incorporarsi la specie umana e il mondo vivente. Valore sempre più “virtuale” che fagocita l’ecosfera, processo che si libera dalle mediazioni che lo fissavano in un spazio industriale e finanziario “nazionale”, il dominio schiera le proprie armate di tecnoscienziati per artificializzare e mercificare ogni elemento organico.

Qualsiasi segmento della vita (una pianta, un tessuto, una molecola, una proteina, una sequenza di nucleotidi, un principio attivo, una cellula staminale, un gene) è riscritto al computer, brevettato e quotato in borsa. Solo sul Coronavirus esistono 4000 brevetti; ben 117 sono legati ai meccanismi relativi al ricettore ACE 2; Moderna ha già depositato più di 300 brevetti per i futuri farmaci a RNA.

La guerra al vivente viene letteralmente incorporata nella finanza; affinché nessun giocatore decida di andare a vedere in questo gigantesco poker finanziario, il sistema del debito procede di emergenza in emergenza – il tutto sorretto dalla forza militare.

Il Leviatano si nutre dell’energia dei viventi. Più i suoi ingranaggi si estendono quantitativamente e qualitativamente, più esso colonizza direttamente i corpi. Ma siccome i corpi con più energia sono quelli di chi crede in qualcosa – aspetto, questo, che i tecnocrati dell’Ovest ignorano, convinti che se i loro laboratori possono ricombinare i geni o produrre bistecche sintetiche, possano anche fabbricare anime –, le potenze emergenti sono quelle che hanno nei propri ingranaggi sia la violenza coloniale sia la forza a rovescio delle rivoluzioni anti-coloniali: il lavoro forzato e l’identificazione collettiva. La tecnocrazia cinese è politicamente, economicamente e tecnologicamente sempre più egemone perché il suo Stato ingloba sia il plusvalore prodotto dai campi di rieducazione e dalle  “Zone economiche speciali”, sia l’apparato organizzativo di massa creato durante la Grande Marcia. C’è, in tutto questo, una terribile verità storica: è il sangue giovane delle rivoluzioni – stroncate o messe a valore dalle strutture del dominio – che fornisce agli Stati un rinnovo di potenza. Anche per tali ragioni gli USA e l’Europa stanno uscendo di scena, e per questo ricorrono alla guerra totale e alla predazione sempre più diretta sui viventi (con la seconda che accresce la prima).

Epifenomeni politici e materialità della predazione capitalistica provocano tuttavia nuovi moti tellurici nell’ordine mondiale, di cui lo scontro militare amplifica le scosse. Così, mentre alle nostre latitudini si continua a ritenere che il razionalismo tecno-scientifico rimuova le antiche credenze, in India il nazionalismo indù rappresentato da Modi convive sia con la miseria delle baraccopoli sia con i laboratori biotecnologici all’avanguardia (nonché con la potenza nucleare). E i brevetti in mano al complesso militare-industriale-finanziario statunitense fanno sempre più fatica a contenere l’avanzata tecnologica indiana. Anzi, lo “sviluppo diseguale” – di cui il Pentagono e la NATO sono i garanti armati – fornisce involontariamente al gigante asiatico – sgravato com’è degli involucri giuridici ancora vigenti all’Ovest – nuovi sbocchi. Non potendo, ad esempio, accedere al libretto delle istruzioni per produrre in proprio i “vaccini” anti-Covid a m-RNA – a causa dell’ingordigia di Pfizer e Moderna –, i biotecnologi indiani hanno fabbricato il primo “vaccino” a DNA (lo ZyCov-D), approvato in tempi ancora più rapidi di quelli impiegati dalla FDA e dall’EMA per autorizzare i sieri made in USA. Con la differenza che l’India non ha avuto bisogno di un’azione di lobbing per accaparrarsi un campo di sperimentazione internazionale, dal momento che quello interno le basta e avanza: quasi un miliardo di corpi. Su quel terreno specifico, quindi, sono le multinazionali farmaceutiche statunitensi a inseguire la geno-industria indiana (o cinese). Dal momento che i farmaci genetici (“vaccini” compresi) sono la nuova frontiera della biomedicina, aver abbattuto, dopo quella dell’RNA, anche la barriera del DNA per un prodotto su larga scala, è stata una mossa strategica nella competizione farmaceutica – nonché nei progetti di ingegnerizzazione del vivente. Stiamo parlando di un “vaccino” che va ad “accendere” direttamente nel nucleo della cellula il gene capace di codificare la proteina Spike. Siamo di fronte, insomma, all’intervento genetico di massa. Il fatto che sia nato in una ex colonia ci dice di più sullo stato delle cose di tante saccenti analisi geopolitiche.

Lo stesso vale per le armi biotecnologiche. Per arruolare università e centri di ricerca, il Pentagono deve ricorrere a costose Fondazioni, confondere la vista e le carte con delle ONG, aggirare norme giuridiche e assoldare burocratiche commissioni di bioetica. Per l’Accademia delle scienze di Pechino, invece, basta una risoluzione durante l’annuale congresso del Partito: “ogni ricerca biologica deve avvenire sotto il controllo dei militari” – et voilà. Per questo i biotecnologi d’assalto della DARPA (cioè del Pentagono) si sono trasferiti nel laboratorio di Wuhan per continuare i loro esperimenti sull’“aumento di funzione” dei virus. Certo, per aprire quel laboratorio P4 lo Stato cinese ha dovuto chiedere – e ottenere – un’autorizzazione da parte dell’OMS, autorizzazione condizionata alla supervisione da parte dei dirigenti del laboratorio P4 di Lione. Ma questa collaborazione internazionale non è a somma zero: ad avvantaggiarsene maggiormente sono gli apparati tecno-scientifici più fusi con lo Stato e con l’esercito – cioè quelli cinesi. L’ideologia liberale è ormai un ferro vecchio non solo perché lascia fuori dei suoi recinti più della metà della popolazione terrestre – e la massa pesa nelle rispettive macchine belliche –, ma perché nella guerra il potere concentrato nello Stato risulta più efficiente dell’articolata conquista delle istituzioni da parte del capitale finanziario. La guerra è anche ideologia in azione, arte del segreto, convergenza di tutte le strutture sociali.

Per questo gli USA – con il capitalismo occidentale al traino – sono costretti a far precipitare la situazione, a produrre caos governabile, a ricorrere a iniezioni sempre più massicce di Emergenze: il tempo gioca contro il loro predominio. Per questo assorbono sempre di più il modello cinese come lubrificante dei propri tecno-apparati. Per questo i suoi ingegneri e i suoi informatici promuovono, nel regno dell’individualismo proprietario, il “superamento dell’individualità”. (Non è un caso che per far accettare le misure di Emergenza anti-Covid i governi occidentali abbiano utilizzato, in dosi da cavallo, perfusioni costanti di “bene comune”1). Ma secoli di confucianesimo, abilmente recuperati dal “socialismo di mercato” della burocrazia celeste attraverso la nozione di “armonia sociale”, non si inventano. E mentre si approfondiscono le “crisi” – o, per dir meglio, mentre le catastrofi si fanno convergenti come le tecnologie con cui si pretende di controllarle –, le cosmovisioni entrano direttamente in gioco, nella guerra come nelle possibilità rivoluzionarie. In un caso come nell’altro, la cosmovisione occidentale sforna uomini-macchina, ma produce sempre meno combattenti. E non a caso il monopolista di idrocarburi russo – sempre più circondato dalle armate USA e NATO – ha aspettato la disfatta in Afghanistan per assestare la contromossa. E se trattiene la propria potenza bellica nell’“operazione speciale” in Ucraina (che non si debba nominare la parola “guerra” lo ha imparato, oltre che dai dizionari staliniani di neolingua, proprio dagli USA) non è per contenere le perdite civili ucraine né soltanto per la resistenza che sta incontrando, ma probabilmente per non mostrare tutte le proprie carte allo Zio Sam, che lo ha provocato per procura anche allo scopo di studiare da lontano il suo apparato bellico in azione.

Se c’è una parola che descrive le trasformazioni tecnologiche in corso, questa è senz’altro l’aggettivo duale. L’indistinzione tra civile e militare non data certo da oggi. Inedito semmai è il fatto che essa si applica ormai a tutto. Le tecnologie digitali e quelle genetiche sono, in tal senso, le più emblematiche. È fin troppo noto che ogni innovazione telematica introdotta sul mercato – Internet, realtà virtuale e aumentata, gps, 5G, droni, computer quantici, crittografia ecc. – è nata nei laboratori militari e sperimentata nei teatri bellici. Lo sviluppo dell’ingegneria genetica si è svolto invece più a spirale. Esso comincia nel solco della Seconda guerra mondiale, grazie ai mastodontici investimenti legati alla militarizzazione dell’industria e della ricerca2, nonché alle possibilità di sperimentazione medica, farmacologica e tossicologica nei campi creati dal Terzo Reich, dal Giappone e dagli Alleati. Finita la guerra, quel sapere si è integrato al di là delle cortine, con travasi di conoscenze e di personale dal nazismo alla democrazia. Le varie “scoperte” in ambito genetico – che non sono tanto il “disvelamento” scientifico dei processi biologici e molecolari, quanto la produzione di modelli operativi efficaci per la loro manipolazione – si inseriscono, rafforzandolo, nel paradigma cibernetico, per la cui elaborazione sono stati arruolati tanto gli ingegneri quanto i militari, gli informatici quanto gli antropologi, gli psicologi quanto i torturatori della CIA. La “guerra fredda” è stata l’Eldorado industriale, finanziario, politico e giuridico all’ombra del quale sono state condotte innumerevoli “operazioni speciali”. Se all’epoca non si è giunti ai risultati operativi di una nuova eugenetica non è solo per la memoria troppo recente degli esperimenti nazisti, ma per la battuta di arresto imposta dalla sollevazione giovanile e nera contro il complesso militare-industriale, contro la guerra in Vietnam, contro la segregazione “razziale” e la brutalità del sistema carcerario. Per il venire meno, cioè, sia delle cavie sia del silenzio complice attorno ad esse. Prima di arrivare all’uomo, quindi, l’ingegneria genetica si è applicata a “migliorare” le piante e gli animali. Ibridi e chimere vegetali, crioconservazione del seme e fecondazione artificiale hanno affilato gli strumenti per il salto di specie. Per cui, quando quel molino delle armi tecno-industriali ha permesso di forgiare le “forbicine molecolari” per tagliare e cucire i geni, il Progetto Genoma Umano aveva già permesso nel frattempo di capire come usarle sui corpi, dispiegando la medicina come fanteria e la procreazione “assistita” come artiglieria. Se applicassimo a questo processo le categorie aristoteliche, potremmo dire che il paradigma cibernetico (ogni vivente è un flusso di informazioni) ne rappresenta la causa materiale e formale, l’industria la causa efficiente, il transumanesimo quella finale. Se ogni ricerca bellica ha come télos la guerra, ogni ricerca biotecnologica ha come télos l’eugenetica. “Duale” significa allora che alla stessa meta si può arrivare sia dalla strada “civile” che da quella “militare”, e che i mezzi per percorrerle non sono determinabili a priori. Si tratti di distruzione nucleare o di fabbricazione degli umani, c’è un solo modo quindi per non giungere all’atto: rinunciare alla potenza. Aspetto, questo, che ha molto a che vedere non solo con quello che gli umani fanno, ma anche con ciò in cui credono (le tecnoscienze sono un sistema di credenze operative, il cui motore non è lo spirito conoscitivo, bensì l’efficacia).

Scriveva Nicola Cusano nel 1463: «Sembra che se noi consideriamo Dio un banchiere, allora l’intelletto sarà un cambiavalute». Se lo sostituiamo con un ingegnere, la natura e gli umani saranno delle macchine. Dietro la visione del corpo come computer e del DNA come software agisce, insomma, la stessa cosmovisione che ha prodotto le enclosures, lo sterminio degli indios, la streghizzazione delle donne e dei diversi (e da lì deriva anche la «terrificante caverna della nostra ignoranza eziologica», diceva nel 1905 Kopaezewski). Quell’accumulazione originaria non è solo la scena prima dello spettacolo capitalistico, bensì la sua condizione permanente, il suo cuore di tenebra, il suo deus ex machina.

Nessun’altra visione «può passare attraverso le loro porte. Il solo canto che passa è un canto divenuto tanto secco e cadaverico quanto i fossili trovati nella sabbia» (Fredy Perlman, Against His-story, Against Leviathan).

Il film L’ultimo lupo, il cui senso è sfuggito forse al suo stesso regista, racconta l’arrivo di un gruppo di studenti maoisti in Mongolia all’epoca della “rivoluzione culturale”. Il loro compito è istruire quelle popolazioni dalla vita nomade e dalla tradizione orale. Penetrando nella loro cultura, uno di loro comprende poco a poco il delicatissimo equilibrio che regge quella società in quell’ecologia: branchi di lupi, greggi, accampamenti mobili, marmotte e zanzare vivono in simbiosi. L’intelligenza di specie ha creato presso quel popolo una cosmovisione che distilla prudenza, autotrattenimento dall’ingordigia, formule rituali di ringraziamento, divinizzazione del lupo, intreccio tra ordine sovrumano ed etica comunitaria. La soluzione di potenza imposta dagli ufficiali maoisti – uccidere un branco di lupi – rompe quell’equilibrio, e ne conseguono per la comunità sia la paura di aver provocato l’ira delle potenze cosmiche, sia una ben materiale infestazione di zanzare.

Ciò che il racconto insegna è che non si vive su questa Terra senza una cosmovisione, senza un insieme di credenze-valori-pratiche in cui si stratifica l’esperienza storica.

La tecnoscienza – di cui la macchina bellica è espressione e guardiana – non è solo infinitamente meno poetica nelle sue spiegazioni del mondo rispetto ai miti elaborati dai “popoli senza storia”, ma anche incomparabilmente meno sapiente – perché scompone l’unità delle forze della vita per conoscerle, e le conosce al solo fine di sfruttarle. Il seguito del racconto, infatti, si potrebbe ambientare nel Brasile dei giorni nostri. Di fronte a un’infestazione di zanzare, nuovi ufficiali, questa volta dell’armata biotecnologica Oxitec, hanno fabbricato delle zanzare geneticamente modificate per ridurre quelle naturali. Risultato: “ibridi tripli” di zanzare ancora più resistenti agli insetticidi. E si può scommettere che la geno-industria troverà senz’altro una nuova soluzione alle sue stesse disastrose soluzioni. Nel frattempo, nel maggio 2021 le zanzare transgeniche sono state rilasciate anche negli Stati Uniti.

Ecco un altro esempio, particolarmente chiarificatore nei suoi inquietanti contorni, di cosa significhi tecnologia duale. Si tratta di una notizia diffusa in sordina più o meno negli stessi giorni in cui il Cremlino accusava la NATO di aver costruito in Ucraina dei laboratori per la fabbricazioni di armi batteriologiche. Ad uscire dalla ragnatela delle opposte propaganda di guerra (dove il chi usa certi mezzi ha sempre il sopravvento sul fatto stesso che certi mezzi esistano), ci aiuta la cronaca svizzera: «Sei ore: è questo il tempo che ha impiegato un’intelligenza artificiale a sviluppare 40.000 molecole potenzialmente letali per gli esseri umani. È quanto emerge da uno studio pubblicato sulla rivista Nature Machine Intelligence, a cura di alcuni ricercatori esperti nell’utilizzare le tecnologie di apprendimento automatico per identificare nuovi farmaci. Stavolta però l’obiettivo era dimostrare in che modo le tecnologie di intelligenza artificiale potessero essere utilizzate … per la progettazione di armi biochimiche. Quello che i ricercatori non immaginavano, però, è che fosse così facile: l’intelligenza artificiale ha prodotto decine di migliaia di nuove sostanze, alcune delle quali sono simili al Vx, il più potente agente nervino mai sviluppato». Conclusione: «Sebbene sia ancora richiesta una certa esperienza in chimica o tossicologia per generare sostanze tossiche o agenti biologici che possano causare danni significativi negli esseri umani, questi ostacoli possono essere facilmente superati con l’intelligenza artificiale». La dimostrazione pratica della possibilità di un simile uso dell’Intelligenza Artificiale dovrebbe suonare, ci dicono questi ricercatori, da “campanello di allarme”. Un campanello: come se non ci trovassimo di fronte a possibili pratiche di sterminio, ma all’allagamento di una scuola.

Un nuovo articolo sull’IA, in cui ci viene spiegato che essa potrebbe consentire ai ciechi di essere più autonomi o ai pazienti di qualche rara malattia di guarire, rimetterà ben presto in cantina, lontano dagli orecchi e dalle coscienze, quel campanello. Proprio come le notizie sulla tecnica CRISPR applicata nell’editing delle piante o alla produzione di qualche farmaco dalle miracolose promesse ci faranno dimenticare che si tratta della stessa tecnica impiegata nel laboratorio di Wuhan per potenziare i virus o negli esperimenti per “migliorare” geneticamente gli embrioni pre-impianto. 

A proposito di genetica (e di cosmovisione), torniamo un momento sulla questione dei “vaccini” anti-Covid.

L’errore in cui sono caduti quasi tutti è stato quello di vederli come un capitolo della storia delle vaccinazioni, mentre andavano affrontati come un capitolo della storia dell’ingegneria genetica. Per mesi e mesi, stuoli di esperti ci hanno spiegato dottamente che l’informazione genetica contenuta nei “vaccini” non poteva raggiungere il nucleo cellulare e integrarsi nel DNA. Qualcun altro faceva notare, lontano dai salotti televisivi, che una tale visione era già ampiamente superata dalle conoscenze di biologia molecolare disponibili; che tra il citoplasma e il nucleo della cellula non vi è alcuna barriera biologica; che il corpo umano è in grado di produrre – sia pure in casi poco frequenti – enzimi capaci di “trascrittasi inversa” (dalla proteina al DNA invece che nella direzione descritta dal “dogma centrale” della biologia molecolare: dal DNA all’RNA, dall’RNA alle proteine). La trascrizione inversa – pronta la replica – sarebbe possibile solo con i retrovirus come quello dell’HIV.

Noi, che siamo dottori in nulla, ci siamo tenuti ai nostri princìpi, a quelle coordinate etico-sociali dalle quali non giudichiamo i dettagli tecnici, bensì le dinamiche strutturali dell’ingegneria genetica – quale che sia il cavallo di Troia che essa utilizza per penetrare nella città dei viventi.

Bene. Una ricerca svolta al MIT di Boston ha dimostrato, nel maggio dell’anno scorso, che alcuni frammenti di coronavirus possono integrarsi nel nostro DNA; un mese più tardi, un gruppo di ricercatori della Thomas Jefferson University di Filadelfia ha scoperto che le “polimerasi teta” sono in grado di convertire sequenze di RNA all’interno del DNA, con meno errori di trascrizione di quanto accada nella duplicazione del DNA in DNA. Sulla base di queste “scoperte”, un gruppo di biologi molecolari svedesi dell’Università di Lund ha sperimentato in laboratorio cosa succede inoculando il “vaccino” Pfizer-BioNTech in alcune cellule del fegato umano. Conclusione: «L’mRNA di BNT162b2 (il codice dell’mRNA del siero Pfizer) viene trascritto inversamente a livello intracellulare nel DNA fino a 6 ore dopo l’esposizione al vaccino». Con quali conseguenze? Per saperlo andrebbero eseguiti degli approfonditi studi di geno-tossicità e di cancerogenicità, studi che i produttori dei sieri non hanno condotto e che i cosiddetti enti regolatori non hanno preteso3. Lo studio svedese4 aveva tutti i crismi per “fare notizia”: finanziato con fondi governativi, uscito sul Molecular Biology Journal, sottoposto a valutazione paritetica e poi pubblicato da Mdpi, “il più grande editore ad accesso libero di lavori scientifici peer-reviewed”. Invece, quel piccolo dettaglio per cui la “vaccinazione” di massa anti-Covid potrebbe influire sul genoma umano non è stato riportato in Italia da alcun organo di stampa. Un po’ scomodo, altrimenti, dare del “cospirazionista”5 a chi ha messo in guardia rispetto alla natura sperimentale dei sieri anti-Covid; e forse un po’ più impegnativo, da parte del governo e dei suoi esperti, rassicurare sul rapporto rischi-benefici per giovani e bambini, e procedere come se nulla fosse con la terza e magari con la quarta dose.

Coincidenza storica, poi, ha voluto che lo studio in questione fosse pubblicato il 25 febbraio, il giorno dopo l’inizio dell’“operazione speciale” dell’esercito russo in Ucraina. Avevamo ben ipotizzato, più di un anno fa, che gli eventuali rovesci della “vaccinazione” sarebbero stati occultati da qualche altra Emergenza; certo non potevamo immaginare che il Leviatano passasse dalla “guerra al virus” alla guerra-e-basta in un paio di anni.

Testardi e poco inclini alla “logica” per cui le tragedie di oggi debbano far dimenticare le manipolazioni e il servilismo di ieri, continuiamo a pensare che la guerra per le risorse (o per le sfere di influenza) e la guerra al vivente rappresentino rispettivamente la cantina e il salotto dello stesso edificio. E che per noi Untermenschen la bandiera nazionale sventolante sugli ultimi piani è una questione irrilevante di fronte al fatto che la torre ci sta letteralmente crollando addosso mentre siamo ancora prigionieri nelle sue stanze buie.

«Da un po’, molti hanno preso d’assalto le porte. Solo recentemente qualcuno ha cantato che la rete di fabbriche e di miniere era l’Arcipelago Gulag e che tutti i lavoratori erano degli zeks (cioè dei coscritti, dei detenuti, dei membri di un gruppo di lavoro). Un altro ha cantato che i nazisti hanno perso la guerra, ma non il loro ordine nuovo».

«Ignoriamo se i detriti tecnologici che ingombrano e avvelenano il mondo lasciano agli esseri umani lo spazio per danzare.

 «Ciò che sappiamo è che il Leviatano, il grande artificio, che è unico e stringe il mondo per la prima volta nella storia, si sta decomponendo» (Fredy Perlman).

 

1 A proposito di dispositivi intercambiabili tra emergenza sanitaria ed emergenza bellica – e di come di fronte al Nemico si rafforzi sempre il controllo interno in nome del “bene comune” –, è indicativo che, mentre il governo russo ha messo fuori legge la parola “guerra”, quello ucraino, dopo il coprifuoco decretato in tutto il Paese e la proscrizione di partiti, movimenti e media dissidenti, abbia imposto per due volte in una settimana il confinamento degli abitanti di Kiev con il pretesto di stanare, nelle strade deserte, eventuali “sabotatori” e quinte colonne filo-russe.

2 «Dopo la bomba, in tutti i paesi del mondo l’intervento governativo e militare nelle questioni scientifiche diverrà permanente, e viceversa» (Georges Waysand, La controrivoluzione scientifica. Il crepuscolo dei ricercatori, Faenza, 1976).

3 Secondo una cosmovisione non meccanicistica –  ad esempio quella su cui si basa la medicina tradizionale cinese –, il Fegato è l’organo del coraggio, dove la volontà acquisisce la propria direzione. Per analogia, esso corrisponde alla capacità di immaginare e quindi attuare scelte autentiche. È il deposito della memoria e del sangue. Quest’ultimo, veicolo della consapevolezza di sé, viene poi rilasciato affinché ogni organo, cuore e cervello compresi, sia opportunamente nutrito e informato.

4 Qui l’articolo in inglese: https://www.mdpi.com/1467-3045/44/3/73/htm

Qui l’articolo tradotto in italiano dalle macchine di Google:

https://www-mdpi-com.translate.goog/1467-3045/44/3/73/htm?_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc#B25-cimb-44-00073

5 «Oggi è il pubblico delle gradinate che non vuole più saperne di questo circo e sono i commessi del sistema, tecnocrati e baroni, che gridano all’oscurantismo perché si critica lo sviluppo scientifico» (Georges Waysand , op. cit.).