Idee per la ricreazione?

Idee per la ricreazione?

Il vecchio Tolstoj, in un articolo intitolato Che fare?, sosteneva che nel mondo dovevano essersi diffuse davvero tante teorie peregrine perché fosse entrata nell’uso corrente l’espressione “questo va bene in teoria, ma in pratica…”. Se una cosa è giusta in teoria – diceva lo scrittore russo – è giusta anche in pratica. Se invece è smentita dalla pratica, vuol dire che non era giusta nemmeno in teoria.

Qualche anno dopo gli faceva eco il giovane Michelstaedter: «Ma gli uomini dicono: “Questo va bene, ma intanto, intanto bisogna ben vivere”. “Intanto”! Intanto che avvenga che cosa?».

Non siamo anarchici perché ci piace fare i bastian contrari. Siamo anarchici perché la teoria anarchica dello Stato e del potere ha sempre retto alla prova della storia. Non è possibile trasformare la società in senso libertario ed egualitario attraverso le istituzioni del capitalismo e del governo; qualsiasi uso “temporaneo” di metodi autoritari deforma i fini con i quali si intende giustificarlo.

Ci sono, si dice, delle situazioni eccezionali che impongono una deroga ai propri princìpi. In realtà, le situazioni “eccezionali” – quelle in cui è più difficile orientarsi dal punto di vista teorico e pratico – sono proprio le situazioni in cui i princìpi sono più necessari. I princìpi rivoluzionari non sono costruzioni astratte, ma un distillato storico di idee, valori e metodi, una bussola tanto più preziosa quanto più la tempesta storica confonde il paesaggio e l’orizzonte. E una teoria che non contempla le situazioni eccezionali – cioè proprio quei contesti in cui il potere agisce allo scoperto  – è una teoria che serve a ben poco. Cosa ce ne facciamo, infatti, di una teoria valida solo per la ricreazione, da mettere da parte appena comincia la lezione vera e propria?

La critica radicale della tecnoscienza diventa fondamentale proprio quando gli “scienziati” sono al potere. Non contemplare che l’apparato tecnoscientifico si estende  grazie alle Emergenze e dichiara sempre di agire “a fin di bene” – mandando avanti la medicina a spianare la strada del controllo e della guerra ai viventi – è semmai un difetto di quella critica, non certo una sua smentita pratica. Oppure ci aspettavamo che arrivassero dei biotecnologi a dirci chiaro e tondo, magari al telegiornale, che stanno lavorando a una nuova eugenetica?

Lo stesso vale per il nazionalismo e per il militarismo. Visto che è ampiamente noto che certe sirene diventano molto più suadenti quando il nemico è alle porte, sarebbe ben curioso sostenere che in guerra bisogna mettere da parte il proprio antimilitarismo e il proprio internazionalismo. Un rifiuto della guerra che vale solo in tempo di pace sarebbe, appunto, un’idea per la ricreazione.

Che ce ne facciamo di una critica della scienza da sfoggiare quando la Scienza non sconvolge in modo diretto e brutale le nostre e le altrui vite? Cosa ce ne facciamo dell’opposizione alla guerra se questa diventa inutile quando cadono le bombe?

Facciamo un altro esempio. Rifiutarsi di partecipare alle elezioni non è certo un grande sforzo. Ben diverso è quando una massa di insorti ripone in te la fiducia e ti chiede a gran voce di entrare in un “governo provvisorio”. È ovvio che tu ti senta meno corruttibile di altri. Ma la tua teoria, secondo la quale il punto non è la qualità morale dei singoli dirigenti, bensì la struttura stessa del governo, rivela davvero quanto vale nel momento in cui andare al governo diventa una possibilità concreta.

La necessaria coerenza tra mezzi e fini – che solo l’anarchismo ha affermato tra le correnti storiche del movimento proletario – diventa ancora più indispensabile in un’epoca in cui i mezzi hanno raggiunto una potenza inaudita, la cui natura sempre più totalitaria si dispiega tanto in “pace” quanto in “guerra”.

Proprio perché, in questi due anni di Emergenza, abbiamo avvertito dentro e fuori di noi quanto pesi la forza di gravità sociale sulle scelte e sui discorsi di tutti i giorni, possiamo immaginare dentro quale turbinìo si trovino oggi le anarchiche e gli anarchici in Ucraina.

Se il loro drammatico “Che fare?” merita la più fraterna delle attenzioni, su alcune cose di fondo non possiamo tacere, pur sapendo – senza bisogno che qualcuno ce lo ricordi – quanto sia comodo parlare lontane dalle bombe. Ma proprio perché certi dibattiti diventano quasi impossibili quando la guerra è in casa, le questioni vanno poste con chiarezza là dove si può ancora fare. La popolazione ucraina, d’altronde, non aspetta certo il nostro parere per decidere come comportarsi. Il nostro peso di internazionalisti è talmente leggero che sarebbe il colmo mettere sulla bilancia delle idee sbagliate.

Collaborare con lo Stato ucraino contro l’invasione russa e cercare di ritagliarsi – dentro quella collaborazione – una propria autonomia di azione è a nostro avviso un grave errore. Non solo perché in tal modo si contribuisce a continuare la guerra, ma perché si combatte, volenti o nolenti, per conto della NATO e del capitalismo occidentale.

Capiamoci su questo. Lungi da noi negare la violenza del regime russo. I nostri compagni russi torturati dai servizi segreti o i rivoltosi kazaki repressi nel sangue dai soldati di Mosca ci ricordano cosa vuole dire vivere sotto quel tallone di ferro. Ed è normale che a quelle latitudini il potere dello Stato russo venga avvertito più direttamente della longa manus dell’imperialismo occidentale. Così come giova ricordare che di fronte all’oppressione non siamo mai, in quanto abitanti di zone diverse della Terra, del tutto contemporanei gli uni degli altri.

Ma se c’è un Paese dell’Est dove è fin troppo chiaro cosa rappresenti il giogo del Fondo Monetario Internazionale, e cosa comporti avere gli addestratori della NATO in casa, questo è proprio l’Ucraina. Mentre alcuni milioni di ucraini – e soprattutto di ucraine – sono emigrati nell’ultimo decennio per sfuggire alla miseria, migliaia di neonazisti sono stati armati, preparati militarmente dagli USA e poi integrati nell’esercito ucraino. Che il regime di Putin abbia le proprie mire di potenza, è certo. Ma che le responsabilità maggiori delle guerra in corso ricadano sull’imperialismo occidentale – che ha utilizzato l’Ucraina e la sua popolazione come zona bellica per procura e come carne da macello – è altrettanto certo.

Una scelta coerentemente internazionalista, in Ucraina, comporta oggi delle posizioni decisamente impopolari: denuncia delle responsabilità del “proprio” Stato e del campo occidentale; rivendicazione della pace a ogni condizione (a discapito, cioè, del governo e dell’esercito ucraini); opposizione alla legge marziale e all’arruolamento coatto, sostegno a tutti quelli che vogliono fuggire; impiego di mezzi di lotta e di autodifesa dall’esercito occupante che fuoriescono dalla logica di guerra e dei fronti, adottabili poi come forma di insubordinazione e di resistenza contro la creazione di un eventuale governo fantoccio da parte del Cremlino; soddisfacimento dei bisogni legati alla sopravvivenza attraverso l’esproprio di chi si è arricchito con la svendita delle ricchezze al capitale occidentale.

In poche parole: pace con il nemico della nazione per approfondire la guerra contro il nemico di classe, contro cui rovesciare la rabbia di una popolazione che oggi si sente abbandonata dalla NATO e dall’Occidente.

Collaborare con l’esercito – e quindi con il governo – non significa solo subordinarsi a interessi opposti ai propri e rafforzare la cricca di Zelensky; non significa solo farsi schiacciare o assorbire dalle soverchianti forze nazionaliste e banderiste, ma implica accettare dei mezzi di combattimento (droni lanciarazzi, missili anticarro ecc.) che provocano in risposta altri bombardamenti, distruzione di case, morti tra i civili, rischi di fuoriuscite di radiazioni nucleari.

“Pace a qualsiasi costo” (compresa l’annessione russa dei territori dal Donbass al Mar Nero) non vuole dire accettare passivamente il tallone di ferro russo, bensì rispondergli con l’insubordinazione sociale (se necessario, con la guerriglia), fuori dal campo e dall’armamentario della NATO, in coordinamento e in solidarietà con le lotte in Russia, in Bielorussia, in Kazakistan e in altre parti del mondo, che troverebbero in quel protagonismo dal basso un esempio da seguire contro i padroni di tutte le fazioni in guerra.

Perseguire la sconfitta militare dell’occupante, viceversa, implica una chiamata alle armi della NATO, cioè uno scenario di guerra mondiale (potenzialmente nucleare); “far pagare all’esercito russo il conto più salato possibile”, significa trascinare l’Ucraina in una tragedia immane di distruzione e di morte. Non è certo questo l’eroismo di cui ha bisogno l’emancipazione sociale.

Propositi impopolari? Senz’altro.

Con quali forze attuare un simile disfattismo? Non lo sappiamo.

Mai come davanti alle catastrofi che questo mondo ci sta apparecchiando valgono le parole del poeta:

 

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

antimilitaristi anarchici