Per chi sente il ticchettio

Riprendiamo dal blog siciliano “sciroccomadonie”, in una versione parzialmente diversa, queste dense riflessioni su logica dell’emergenza, digitalizzazione e guerra, scritte per l’omonima iniziativa svoltasi di recente a Catania. Un’analisi del nostro presente storico – in cui speculazione finanziaria, apparato tecno-militare, spettacolo del terrore e progetti di ingegneria sociale ci stanno portando in un vicolo cieco –, con uno sguardo che cerca di tenere insieme il globale e il locale, quella Sicilia a cui il dominio assegna la funzione di colonia militare, parco turistico e infrastruttura energetica.

Riflessioni maturate non per aggiornare l’elenco degli orrori, ma per armare la coscienza che “allargare le fratture del mondo che ci rompe e ricomporci come esseri umani integrali in comunità non fittizie – in una rivolta o, se si daranno, nelle comuni rivoluzionarie – sono un tutt’uno”; e che “questo tutt’uno è la liberazione”.

 

Per chi sente il ticchettio

da https://sciroccomadonie.noblogs.org

Questo contributo è stato scritto da un compagno in vista dell’assemblea pubblica “Per chi sente il ticchettio” che si è tenuta alla LUPo a Catania, il 3 marzo scorso.

La lunghezza del testo non scoraggerà chi intende davvero leggere il mondo intorno a noi, i pilastri materiali che ne reggono l’alienazione, lo sfruttamento, la violenza cieca e l’idiozia. È proprio perché a lungo sono mancate, a queste latitudini, le fiammate dell’azione che la matassa si è ingarbugliata e, di conseguenza, il discorso si deve fare più lungo. Speriamo che queste parole possano essere usate come lime: per affilare gli sguardi, per squarciare le nebbie, per riprendere a cospirare.

Questo incontro è un po’ sintomatico del tempo in cui navighiamo. Pensato due settimane fa, l’idea iniziale era quella di approfondire le questioni legate alla digitalizzazione e alle nuove svolte del capitalismo: gli sviluppi di tendenza che trovano visibilità nella normalizzazione del Green pass, al contempo epifenomeno e punto di rottura politico/culturale nel contesto delle c.d. democrazie occidentali.

Nei giorni che sono seguiti a quelli dell’impostazione iniziale, e nel momento in cui ci troviamo, il rullare dei tamburi di guerra ci ha fatto riflettere sul fatto che concentrarci su green pass, digitalizzazione e nuovo estrattivismo, avrebbe rappresentato un eccessivo restringimento del campo visuale, se non una rimozione delle nuove minacce di guerra che si presentano all’orizzonte, minacce non solo alle possibilità di liberazione dal capitalismo, ma alla vita stessa della specie nel suo insieme (un aspetto che non dovremmo sottovalutare come rivoluzionari, dal momento che i giornali mainstream ne parlano con disinvoltura[1]).

Il tempo in cui viviamo e in cui vorremmo agire non è un terreno composto di materia stabile, semmai somiglia di più ad uno stato gassoso in cui sono sospese diverse possibilità di sviluppo, e tra queste brilla per assenza la possibilità, l’ipotesi stessa, di una rivoluzione sociale che possa fermare i piani degli assassini che governano il mondo. È bene sottolineare che questa gassosità del tempo vale per tutti: rivoluzionari e reazionari, dominati e (in misura diseguale rispetto ai primi) pure per i dominanti. Il grado di complessità dell’organismo sociale è talmente elevato che nessuno – neanche appunto il “segmento di testa” della classe dominante globale (ossia i settori della finanza e del tecnocapitalismo che trainano la ristrutturazione) – poteva prevedere quello che è successo alle periferie dell’impero e nelle teste dei dominanti di un impero concorrente. La stessa configurazione di ipercomplessità capitalistica, le sterminate catene di approvvigionamento e della messa a valore e la loro logica coloniale e diseguale – in sintesi, la struttura stessa del capitalismo –possono essere, in un frangente imprevedibile e imprecisabile, un ostacolo per la capacità di governare l’intero processo. E c’è ironia nella storia, in questa storia, perché il processo in corso è quello della costruzione di un capitalismo della sorveglianza in cui siano resi prevedibili, programmabili e monetizzabili tutti i comportamenti e le emozioni umani.

 

ILPROGETTO È ANTIQUATO

Siamo insomma in un tempo che rende il “progetto” un concetto antiquato, riprendendo le parole di Günther Anders. Mi spiego meglio, ricorrendo all’esempio del green pass e della digitalizzazione: mentre le classi dirigenti erano tutte concentrate sull’inoculazione politica nei cittadini-sudditi della normalità del controllo e del ricatto permanente nella vita quotidiana per accedere a erogazioni di concessioni e servizi (nella neo-lingua iper autoritaria, esala quel poco senso che aveva in precedenza la parola “diritto”), questi stessi attori non si curavano, per l’ottusa sicurezza razzista e neo-coloniale che li contraddistingue, della parte in ombra del processo: la più importante, la parte materiale.

In qualche modo, tutti protesi nel governo dell’apocalissi culturale all’interno del mondo occidentale, davano (dovevano dare) i presupposti materiali del processo di digitalizzazione e del vivere capitalistico per scontati. Che la stabilità del sistema economico dipenda (tra le altre cose) dalla stabilità delle forniture di gas, che queste stesse forniture potessero essere interrotte come reazione alla spartizione diseguale e di marca neo-coloniale dei profitti (il capitale europeo incamera una fetta di valore dal gas russo molto più alta della frazione incamerata dal capitale russo), era un dubbio che neanche li sfiorava; così come non sono sfiorati dalla possibilità che di fronte al nuovo estrattivismo del digitale, alla militarizzazione e vessazione che richiede, la violenza dei dannati della terra possa insorgere in forme e intensità che possano spiazzare i loro piani.

Intanto, questa sfida al capitalismo occidentale è arrivata da un capitalismo concorrente che merita tutto il nostro disprezzo (come la popolazione merita tutta la nostra solidarietà), ma non ci sono ragioni per pensare che, se un domani ci sarà, questa non possa arrivare dall’internazionale umana degli insorti.

L’aspetto di crisi in cui siamo gettati in questa fase di dominio totale del capitale, è dettato dalla crisi antropologica della soggettività umana dominante, ossia quella che sta alla base del processo di dominio totale: a smisurati desideri di dominio non corrispondono smisurate capacità di governare il processo.

Se nella quotidianità “normale” della vita in regime di capitale, questo si traduce, per gli oppressi, in una sterminata sequenza di dolori, lutti, violenze e angosce, questo non importa per lor signori, purché questi sentimenti non trovino sbocco in azioni che tentino di distruggere la macchina che ci stritola e il potere di chi la controlla. Una dose via via più massiccia di dolore e oppressione è messa in conto dai dominanti, non disturba i loro piani di governo perché ne è componente necessaria.

Ciò non toglie che lo straordinario possa avvenire in qualunque momento.

Il tempo in cui viviamo è insomma un tempo dimidiato, e noi tutti lo siamo: oscilliamo, nell’arco della giornata, tra momenti di senso del possibile e perfino di estasi, e momenti di scoramento nero. Precipitano anche in questo modo, nella sfera della psiche, l’accumulo di epoche di alienazione tra natura e cultura, di guerra dell’economia all’ecologia, la contraddizione mente-corpo, con la prima per lo più immersa nel mondo-capitale come seconda natura e il secondo che sente (ancora e fino a quando esisterà) i messaggi di catastrofe che ci vengono dalla Terra, questa comune madre quotidianamente violentata. 

La stessa paralisi cognitiva che, dall’inizio della pandemia, ha colpito molte realtà e molti compagni e compagne nell’intima individualità, è legata a questa esigenza del pensiero umano di trovare delle direttrici stabili (il mondo, come costruzione culturale) in cui orientare e inverare i propri propositi e dalla scoperta amara, subito rimossa, che queste direttrici possono nell’immediato essere artificialmente fornite solo dall’introiezione dello spettacolo di eternità dell’organizzazione capitalistica.

C’è un aspetto di mondo che dobbiamo conservare per poterci mantenere umani agenti, ma c’è una sostanza di mondo che dobbiamo curare per mantenerci umani viventi (cioè viventi in mezzo ad altri viventi, umani e non, della biosfera).

La tenuta concomitante di queste due dimensioni fondamentali per la nostra specie, passa per la distruzione del capitalismo: un’immensa, faraonica, opera di distruzione di ciò che abbiamo e che ci ha costruito, in quanto umani, fin’ora.

Tutto questo preambolo, anche troppo lungo, per due ragioni ugualmente importanti: una di cura e di amore verso noi, il nostro essere esseri rotti, per dare un senso di connessione tra le corde più intime del nostro sentire, che spesso è sentire di dolore, e le sorti degli oppressi tutti di questa specie bella e (auto)dannata.

La seconda, per invitarci a non fare gli stessi errori dei nostri nemici: per comprendere che il contesto in cui ci troviamo ad agire, e che ci agisce, è un contesto in cui tutto ciò che si trova all’esterno ha un riflesso anche all’interno degli individui umani; questo rimanda ad un aspetto positivo: se noi siamo esseri rotti è perché il mondo fuori è rotto. Questo, a sua volta, si traduce nella possibilità di trovare linee di frattura nell’esistente e lavorare per allargarle.

Allargare le fratture del mondo che ci rompe e ricomporci come esseri umani integrali in comunità non fittizie – in una rivolta o, se si daranno, nelle comuni rivoluzionarie – sono un tutt’uno: questo tutt’uno è la liberazione.

 

LA FASE ATTUALE: DISSOLVENZA DELLA DISTINZIONE TRA GUERRA E PACE

Uno degli aspetti della guerra totale all’umano, che nell’ottica del transumanismo è un supporto tanto necessario quanto potenzialmente dannoso al capitalismo, è la distruzione delle sue facoltà di pensiero e di produzione linguistica. La capacità di penetrazione distruttiva del senso e dei sensi, si vede spesso nel modo in cui si esprime chi pensa di opporsi al potere. Due anni di scambi coi nostri simili nella cattività pandemica ci hanno già abituati a quella tragedia che è il non capirsi, la cattiveria dell’essere etichettati etc.

Le piazze di questi giorni contro la guerra e tra queste, in particolare e non a caso, quelle chiamate da CGIL e Pd, continuano l’opera di distruzione.

“Siamo contro la guerra e per la pace”, si sente urlare da più parti, anche da sinceri antimilitaristi.

Come se la discriminazione dei non vaccinati, le minacce di fucilazione ai renitenti alla guerra al virus, i 1500 morti all’anno sul lavoro, la guerra spietata alla natura, le centinaia di suicidi nelle carceri e nei CPR, i morti in mare, lo sfruttamento e il lavoro gratuito, la negazione delle cure ospedaliere, eserciti nelle strade e all’ingresso delle scuole, la tortura del controllo permanente, la militarizzazione dei discorsi – tutto quanto succedeva prima dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo, possa essere chiamato pace.

No gentili manifestanti, la pace, quella vera, gli oppressi e l’umanità l’avranno solo quando avranno annientato l’ultimo esercito, l’ultimo sfruttatore, l’ultimo Stato.

TRA GUERRA E PACE: IL TERRORISMO STRAGISTA DI STATO

L’Italia, in particolare, negli ultimi due anni è diventato il laboratorio di sperimentazione, per tutto il mondo occidentale, di politiche repressive e di limitazione delle già risicatissime libertà. Che il processo stia andando bene per la classe dominante, anche grazie alla collaborazione attiva e passiva di tutta la sinistra e di gran parte del movimento antagonista, risulta anche dalla normalizzazione della logica della premialità che imperversa nelle dichiarazioni di esperti e governanti[2] e negli atti normativi: la stessa logica che regola il funzionamento in un carcere, nota oasi di pace.

D’altronde, qualsiasi analisi di quello che è accaduto negli ultimi due anni nello stivale, che non parta dal riconoscimento della strage di Stato nelle carceri come vero e proprio atto fondativo e costituente del new deal, rischia di risultare spunta[3].

Lo spettacolo del terrore, la violenza con cui irrompe nella psicologia collettiva, produce nuove forme di ubbidienza e di adattamento alle strette disciplinari. È quello che è avvenuto in questi due anni, con cicli alternati di espansione e contrazione del terrore, in un fondo costante di disorientamento e impotenza tra gli oppressi.

Come è stato scritto, questa reinterpretata strategia della tensione va còlta nel senso di una rieducazione politica di massa volta a forgiare i sudditi della nuova forma di governo tecnocratico e militare. 

E infatti, nel momento in cui scriviamo, è stato prorogato per l’ennesima volta lo stato d’emergenza – un’altra volta il cargo salvifico della Costituzione non è passato – senza che nessuna sommossa si stia verificando nelle strade. È la nuova normalità: militari a presidiare le strade, un generale Nato come commissario straordinario, il 5% in più per le spese militari, ricorso massiccio a calmanti, lavoro, consumo e socialità totalmente mediati dalla tecnologia, guerra al contante, telecamere dappertutto, l’emergenza come modo sovraliminare di governo (democratico nella forma; totalitario nella sostanza; sovra-umano, disumano, anti-umano, nella produzione normativa).

Eppure se media e politica spettacolarizzano l’opposizione tra guerra e pace è proprio perché questa opposizione non si dà nella realtà. La guerra è la condizione strutturale del normale riprodursi della macchina capitalistica: è la presenza di militari italiani a garantire approvvigionamento di petrolio e gas in Libia e in Nigeria per il bel Paese.

E infatti tanto la normalità (pacifica?) puntellata da stragi, da uccisioni poliziesche, dall’incubo dei tanti carceri, quanto la straordinarietà della Guerra con la G maiuscola, concorrono alla passività spaventosa e spaventata di gran parte degli esclusi. Sul fronte interno è insomma la guerra psicologica a tenere banco: componente importante di tutte i cicli di controrivoluzione è, in questo ciclo, centrale e, bisogna dire, efficace.

In un simile contesto non stupisce la spinta all’adorazione di uomini forti da parte di molti, anche negli ambienti di chi si oppone al green pass: l’impotenza dei più, che si nutre della sfiducia verso l’autorganizzazione tra pari, è il carburante del potere dei capi; la mancanza e le difficoltà della lotta e la decomposizione vitale creano quel percolato ideologico che è il fascismo anche tra personalità non fasciste.

L’alternativa vera è, semmai, tra una guerra nucleare che azzeri la vita sul pianeta (con somma gioia, l’ultima, forse la prima, illuminata al fosforo, del variegato mondo nichilista, compagni inclusi) e una tensione multipolare in crescendo con vari teatri di guerra, con diverse sfumature di brutalità e diversi gradi e forme di guerreggiamento.

L’angoscia del momento è data proprio dal non sapere se sarà il cuore irrazionale, il famoso impulso di morte che sta alla base della volontà di dominio, a prevalere sulla razionalità assurda (basata com’è sulla feticizzazione delle merci) dell’accumulazione, oppure no. 

Essendo la seconda opzione l’unica che dia senso allo scrivere e all’usare il tempo che ci rimane nella lotta, sceglieremo questa come plausibile.

Il fatto che non vi sia opposizione materiale tra guerra e pace è tanto più vero nella nuova fase di sviluppo del capitalismo della sorveglianza in cui stiamo entrando (vedi il libro di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza; o l’opuscolo Il mondo a distanza[4]). Come abbiamo detto, questa fase, che si inserisce in un momento drammatico della storia ecologica del pianeta, richiede al contempo maggiori livelli di estrattivismo e di correlata nocività[5].

Seppure marginalmente, vale la pena analizzare il cambiamento che le classi dominanti stanno apparecchiando con la lente dei cambiamenti della vita quotidiana che sempre più sarà vita di lavoro (e che lavoro!)

Riporto alcuni passaggi di un intervento del compagno che ha curato l’opuscolo Un mondo a distanza.

Il capitalismo della sorveglianza è un libro di una ricercatrice americana, Shoshana Zuboff, uscito un paio d’anni fa, che traccia un quadro particolarmente completo e acuto dell’economia dei dati. L’autrice parte dai primi anni duemila, quando Google, che all’epoca era solo o comunque soprattutto un motore di ricerca, capisce che i dati generati dagli utenti con le loro ricerche (il contenuto della ricerca ma anche i cosiddetti metadati come ad esempio quando e da dove è stata effettuata), fino a quel momento utilizzati per migliorare il funzionamento del servizio e per il resto considerati scarti, erano in realtà una preziosa materia prima, che la Zuboff chiama surplus comportamentale. “Lavorata” dall’intelligenza artificiale, si sarebbe potuta trasformare in prodotti predittivi – cioè dati strutturati sul probabile comportamento futuro degli utenti, ricavati dall’analisi del loro comportamento passato – da vendere in un mercato dei comportamenti futuri a inserzionisti desiderosi di investire in pubblicità individualizzata e quindi più remunerativa. In breve tempo, questo modello è diventato lo standard del capitalismo su internet.

Una breve parentesi sull’intelligenza artificiale, il “mezzo di produzione”: più o meno negli stessi anni, grazie all’aumento della potenza di calcolo e ad altri “progressi”, si era verificato il passaggio da computer in grado, per quanto velocemente, solo di applicare regole predefinite a dati in qualche modo strutturati per essere “letti” dalla macchina, a sistemi in grado di ricavare per conto proprio regole da applicare poi anche ad oggetti “nuovi”, capaci quindi di analizzare dati non strutturati, come la voce umana o immagini video. Quanti più dati ingerisce, tanto più il sistema migliora automaticamente le proprie capacità; ogni dispositivo inoltre non “impara” solo dalla propria “esperienza”, ma anche da quella di tutti gli altri esemplari gestiti dalla stessa intelligenza artificiale.

Compreso il valore dei dati comportamentali, Google e concorrenti colonizzano il mondo reale, attraverso strumenti come ad esempio Google Maps, che si appropria della realtà – peraltro senza chiedere il permesso a nessuno – attraverso le sue auto con telecamera, e poi incrocia i dati sugli spostamenti di un utente, ricavati dal servizio – gratuito – di navigazione che offre, con quelli sugli interessi dello stesso utente, ricavati da altre applicazioni, per proporre la pubblicità giusta nel posto giusto al momento giusto. La cattura di dati avviene attraverso tutta un’architettura dell’estrazione formata dal cosiddetto internet delle cose (domotica, smart city…), che fornisce sia nuove fonti di approvvigionamento di dati, sia nuovi terreni per pubblicità mirate. Particolarmente degni di nota sono i cosiddetti assistenti vocali digitali (Siri, Alexa…), che inducendo l’utente a conversare con loro ottengono informazioni particolarmente significative sulle sue abitudini, e nello stesso tempo affinano automaticamente le capacità dei sistemi di riconoscimento vocale. La frontiera successiva della renderizzazione, cioè della conversione della realtà in dati, è il cosiddetto affective computing, “analisi delle emozioni”: il riconoscimento, attraverso microcamere incorporate potenzialmente in qualsiasi oggetto, di espressioni e movimenti rivelatori di determinati stati d’animo.

La remuneratività dei prodotti predittivi è legata all’affidabilità della previsione, e il modo più sicuro per prevedere un comportamento è intervenire a monte determinandolo. Un esperimento nella direzione di quella che la Zuboff chiama architettura dell’esecuzione è stato il gioco Pokémon Go, che consisteva nel dare la caccia con lo smartphone, attraverso GPS e videocamere, alle creature virtuali che comparivano sullo schermo quando si raggiungeva il luogo reale – strade, parchi, negozi – nel quale erano posizionate. Il passo ulteriore rispetto a Maps è che qui non c’è più nemmeno la decisione iniziale di recarsi in un determinato luogo: è l’app che ci “ordina” ad esempio di raggiungere un bar il cui proprietario ha pagato per avere un Pokémon piazzato al suo interno. L’altro esempio di architettura dell’esecuzione sono i cosiddetti contratti smart, le cui condizioni si applicano automaticamente senza bisogno di intervento umano: porte di casa che non si aprono se si è in ritardo con l’affitto, premi assicurativi che aumentano in tempo reale se si corre troppo ma anche se si parcheggia per strada in una zona considerata degradata

Se ogni comportamento imprevedibile equivale a un guadagno perso, quella che si profila è una società della prevedibilità totale, in cui l’intera realtà diventa un’infrastruttura progettata per privarci della possibilità di decidere.[6]

Nell’opuscolo troverete anche l’analisi delle conseguenze sul mondo del lavoro, alcune delle quali sono già qui – ad esempio nel lavoro dei riders e nel rapporto di dipendenza dagli algoritmi e dallo smartphone del rider stesso – mentre altre sono in elaborazione e perfezionamento: app che scorporano dall’orario di lavoro gli atti non produttivi, che valutano la quantità di sorrisi e atti gentili nei confronti della clientela per comminare un premio o una sanzione al lavoratore/lavoratrice etc. Quello che si profila, se questa utopia capitale dovesse andare in porto, è insomma una robotizzazione dell’umano tanto utile al controllo sociale e politico, quanto all’estrazione di valore comportamentale (statualità ed economia saranno sempre più fusi l’una nell’altra, grazie alla regia delle macchine e dell’IA).

Due tipi di considerazioni vanno fatte a questo punto. La prima è che la vita sarà sempre più appendice delle macchine, dei molti dispositivi necessari, che incorporeranno la funzione poliziesca e disciplinare senza esaurirla (militari e poliziotti saranno meno visibili, forse, ma presenti grazie alla connessione agli occhi elettronici disseminati ovunque): una vita in cui il lavoro sarà polarizzato con una gran massa di lavori non qualificati e un clero di lavoratori altamente specializzati e addetti all’ingegnerizzazione della vita sociale. Una vita di merda per molti insomma, per accedere alla quale sarà necessario iniettarsi periodicamente e regolarmente gli intrugli che la tecnoscienza elaborerà per far sopravvivere i corpi lavoranti alle nocività crescenti. Ed è da considerare almeno come possibile la schizofrenia tra intenzioni ed effetti, cioè con effetti di nocività incrementata proprio dal prodotto salvifico della tecnoscienza e dalla volontà di editare la vita che può nascere solo dalla radicale ignoranza di ciò che la vita organica è.

La seconda considerazione è sul fatto che, come abbiamo detto, la tenuta del sistema produttivo dipende in ultima analisi da una serie di variabili, la più importante delle quali è la tenuta degli equilibri biologici ed ecologici del pianeta. E abbiamo detto anche che questa ulteriore spinta all’artificializzazione e alla digitalizzazione presenta un costo elevatissimo in termini di fabbisogno di energia, di metalli rari, di materie prime in via di esaurimento.

Il modo in cui è stata gestita l’epidemia da covid con la pubblicizzazione del criterio etico sulla scelta di chi far vivere e chi fare morire, con l’ostentata violenza con cui si dice che bisogna rendere la vita impossibile a dubbiosi e renitenti – copione proficuo, per loro, visto il suo riuso contro i disfattisti anti-Nato – indica che i dominanti non pongono certo argini etici alle loro azioni.

In più, una volta consolidata, sarà proprio l’infrastruttura digitale della vita sociale a rendere politicamente poco costosa l’esecuzione dell’apocalisse differenziata[7] per gli umani di troppo: chi protesta, chi non si adatta alle ingiunzioni dell’autorità (o dell’algoritmo che la incorpora), chi si ostina a vivere fuori dalla logica del produci/consuma/crepa, chi mostra segni di logoramento psichico, chi non paga regolarmente le multe e/o ha problemi con le tasse, e poi chi… ah, già: chi pensa di distruggere l’ordine della merce e dell’autorità!

L’IMPERO VISTO DA UNA COLONIA

L’analisi portata avanti fino a qui ha però le caratteristiche delle formulazioni generiche. Se è vero infatti che le risorse per realizzare i vari passaggi della digitalizzazione (5G, internet delle cose, smart cities, realtà e domotica aumentata, telemedicina) sono scarse, è certo che a “godere” di questa nuova forma di vita non saranno tutti e tutte: linee di classe, di demarcazione geo-sociale, etniche, sbarreranno la strada d’accesso a questo vero e proprio paradiso artificiale per pochi.  Anche l’esclusione derivante dalla scelta di non iniettarsi il siero genico può essere vista come un’invenzione bio-politica (probabilmente non l’ultima) per venire incontro all’esigenza strutturale di nuove esclusioni.

Spostandoci più sul concreto della nostra isola, che cosa possiamo prevedere che succeda?

Difficile rispondere con precisione, ma con i livelli di disoccupazione e povertà nelle città più grandi (Palermo, Catania e Messina) è probabile che si avrà una brasilianizzazione delle città siciliane, con enclavi di cittadelle per ricchi, un po’ gated community e un po’ smart cities, nel contesto di grandi “città inferno”, che di smart avranno solo le telecamere con cui sorvegliare la popolazione povera (e, quindi, tendenzialmente criminale). Piccoli esperimenti di smart cities di scala ridotta saranno possibili in quelle zone, come le Madonie e le “isole di turismo”, che si prestano, per la capacità di attirare vari flussi di capitale e le loro caratteristiche sociali (ad es. il basso tasso di delinquenza), a questo tipo amministrazione integrata e spettacolare del territorio (previa, ovviamente, l’espulsione di tutto ciò che non somiglia al tipo umano capitalistico o che gli è apertamente contro).  Quello su cui non si può assolutamente dubitare è l’intensificazione dell’uso estrattivista e colonialista dell’isola.

È cronaca di questi giorni che la NATO ha fatto partire da Sigonella i droni per sorvolare l’Ucraina, grazie all’ausilio del Muos di Niscemi, ormai pienamente in funzione. E il 5G è l’infrastruttura internet che rende possibile lo spostamento da remoto dei droni, come l’immediata attivazione dei missili super-sonici presenti a Sigonella.

In Sicilia (ma anche in Sardegna) l’uso del 5G avrà, probabilmente, rilevanza strategica per l’apparato delle basi militari che qui operano (e che fanno della Sicilia una colonia militare Usa-Nato). La colonizzazione energetica dell’isola va quindi letta in un’ottica duale, civile (per l’apparato tecno-industriale del Nord Italia ed Europa) e militare, con una netta prevalenza di servizio all’apparato militare imperiale: la violenza sulla natura e sui territori (inceneritori, pali eolici ovunque, distese di fotovoltaico) è l’altra faccia della guerra alle popolazioni umane per accaparrarsi risorse e zone d’influenza. 

Una lotta antimilitarista radicale e sociale è tanto urgente sul piano etico, per dare concretezza ai nostri sentimenti internazionalisti, quanto sul piano dell’autodifesa popolare, contro eventuali prossimi attacchi militari alle basi e ai dintorni (ricordando che l’intorno di Sigonella è Catania, l’intorno di Birgi sono Trapani e Marsala). Una lotta in cui non si facciano gli errori dell’ultima stagione significativa di mobilitazione antimilitarista, durante la quale, nelle fasi calde, la paura di alcune organizzazioni interne al movimento NoMuos, e di alcune personalità, rispetto ad una radicalizzazione e al diffondersi delle azioni dirette ha favorito un’impostazione centralistica della lotta che di fatto ha traghettato il movimento sui binari morti della testimonianza e del vittimismo. Accompagnando a questa critica “degli altri”, una riflessione autocritica sui perché della nostra debolezza e sui limiti della nostra parte, anarchica e libertaria, che non ha saputo difendere nei momenti salienti, quelli in cui tanti e tante persone si organizzavano informalmente e appoggiavano le azioni, una difesa fiera ed esplicita delle nostre storiche pratiche di lotta.

È altresì vero che siamo in un momento in cui un altro totem fondativo della pace capitale e della sua religione (il progressismo) è caduto, quello dell’impresentabilità della guerra sul suolo europeo. Questa caduta può scrollare di dosso paure e freni sociali decennali che hanno scoraggiato tanti settori della società siciliana dal partecipare alle lotte fino “all’altro ieri”. Basta guardarsi intorno per vedere che qualcosa sta già avvenendo: ad esempio, come forse qualcuno avrà notato, da quando si è affacciato lo spettro della guerra, le mascherine rimangono nelle tasche delle persone anche nei posti al chiuso. È a livello del gesto quotidiano irriflesso che spesso si esprime quello che non si può dire a voce o nel pieno vibrare corporeo della ribellione: questo gesto a me sembra dire “non sarà un virus che ci seppellirà” e, in aggiunta, “a questo teatro dell’assurdo, non partecipo più!”. È compito nostro non lasciare il messaggio nascosto dei gesti quotidiani al mare ondeggiante della solitudine e della rassegnazione (dove magari può essere pescato da qualche peschereccio fascista, o da qualche altro Caronte della politica) e dargli spazio, espressione e dignità: liberandolo, nella lotta di liberazione.

Tornando al versante civile della colonizzazione, quello che sta già avvenendo e che ci si deve aspettare dal futuro è l’utilizzo di gran parte dell’entroterra come “grande parco energetico” c.d. verde, per sostenere le esigenze energivore del sistema produttivo e militare[8]. Questo destino è riservato a tutto il Sud e alle due Isole maggiori e, qui, ha grandi possibilità di realizzarsi, data la scarsa reddittività dell’uso agricolo dei terreni, la scarsa propensione all’autorganizzazione delle collettività siciliane e il volume d’affari stimato.[9] Se questo piano dovesse andare in porto, avrebbe gravi conseguenze sulle nostre possibilità future di autodeterminazione libertaria e anti-capitalistica. Senza terreni agricoli e senza i vincoli di solidarietà che residuano nelle campagne, come potere auto-produrre il cibo per una società rivoluzionata su basi libertarie? Se non ci poniamo queste questioni ora che ancora possiamo combattere, daremmo un contributo involontario a che le nostre tensioni escano dall’orizzonte del possibile.

Allo stesso tempo, nel breve termine questo processo può rivelarsi un’occasione di critica pratica al sistema capitalistico, al suo modello di vita (sarebbe meglio dire di morte). Una critica che deve tenere insieme tutte le manifestazioni del disastro e l’urgenza d’azione che sprigiona dal senso nuovissimo di apocalisse, dalla memoria di lungo corso della dignità calpestata, dall’esigenza di risignificare la vita e di curarsi le violenze perpetrate ai corpi, ai territori, alle trame simboliche del vivere (che fu) collettivo, dal sistema.

Un’urgenza furente anima gli individui che sentono il ticchettio, ne accompagna la determinazione e lo sguardo pronto a cogliere tutto ciò che, intorno a noi, può essere trasformato in pietra focaia (e spesso è un’angolatura dello sguardo, non la cosa che abbiamo di fronte, a compiere la magia). Se il ticchettio ci indica che il tempo non è infinito, non ci sono limiti all’intensità con cui possiamo viverlo (come scriveva un compagno tempo fa). È, tra le altre cose, il contagio di questa intensità che può sovvertire i piani e darci più tempo.  

[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/02/28/guerra-russia-ucraina-larsenale-nucleare-di-putin-la-stima-4477-testate- a-disposizione/6509649/

[2] A fine gennaio il presidente della regione Piemonte ha affermato che “va premiato il bambino che si è vaccinato: bisogna lasciarlo in classe” e non è un caso isolato.

[3]https://ilrovescio.info/2022/02/13/rieducational-channel-il-lockdown-come-dispositivo-di-rieducazione-politica/

In questo pur ottimo testo manca, ad esempio, qualsiasi riferimento alle uccisioni dei detenuti come elemento di spettacolarizzazione del Terrore. Il sangue prima, la mistificazione delle cause di morte, l’insabbiamento e l’auto-proscioglimento delle istituzioni, fino alle accuse di devastazione e saccheggio e di sequestro di persona (tutti reati che prevedono pene altissime) ai rivoltosi e relative, pesanti, condanne, hanno agito come monito – subito interiorizzato e rimosso – per tutti gli oppressi del bel Paese e, di conseguenza, come olio negli ingranaggi degli altri regimi di terrore a più bassa intensità applicati a tutta la società. 

[4] https://bergteufelbz.noblogs.org/post/2021/01/27/opuscolo-il-mondo-a-distanza-su-pandemia-5g-materialita-rimossa-del-digitale-e-lorizzonte-di-un-controllo-totalitario/

[5]https://pungolorosso.wordpress.com/tag/capitalismo-verde/; https://www.carmillaonline.com/2020/07/09/estrattivismo-pandemico/

Lo spillover del profitto, Colibrì, Milano, 2021.

[6] https://ilrovescio.info/2021/10/06/qui-per-restare-sul-green-pass-e-sul-suo-mondo/

[7] Concetto introdotto da alcuni filosofi per inquadrare teoricamente l’avvento del primo lockdown.

[8] È già noto da alcuni anni il progetto di TERNA del mega-elettrodotto da 380 kV che collegherà, con 170 km di tracciato, la provincia di Ragusa alla provincia di Palermo, infrastruttura utile ad esportare verso il continente l’eccedenza energetica prodotta in Sicilia (circa un terzo del totale), https://www.palermotoday.it/economia/terna-chiaramonte-gulfi-ciminna-collegamento.html; a questo progetto si affianca, il c.d.  Tyrrenian Link, un progetto da 4 mld di euro per collegare le infrastrutture elettriche di Sicilia, Sardegna e Campania, con un cavo sotto marino https://www.terna.it/it/progetti-territorio/progetti-incontri-territorio/Tyrrhenian-link. Entrambi questi progetti traggono linfa e accelerazione dal PNRR, la cui voce di spesa principale è la c.d. “riconversione energetica” per cui è prevista una spesa di 70 mld di euro. Sul tema riconversione energetica e neo-estrattivismo in Sicilia uscirà a breve un opuscolo a cura di Scirocco Madonie. Sull’opposizione al Tyrrenian Link sta girando un appello scritto dai compagni e dalle compagne di Sardinnia Aresti, che si trova qui: https://www.maistrali.it/2021/04/29/sardinnia-aresti-una-proposta-di-resistenza-e-lotta/

[9]https://palermo.repubblica.it/cronaca/2022/01/19/news/energia_sicilia_rinnovabili_caro_bollette-334122786/