Non aderire e sabotare

Non aderire e sabotare

Facile è colpire degli uccelli dal volo uniforme.

Baltasar Gracián, Oracolo manuale

Una cosa è sicura. La pace sociale è ogni giorno di più uno scrigno colmo di sciagure. Due anni di “guerra al virus” non sono passati in maniera indenne. Le metafore belliche non sono mai neutre né casuali. Di fronte al Nemico, bisogna serrare i ranghi, parlare a una sola voce e isolare – non potendoli fucilare – i disertori. Confinamenti, droni sopra le città, i boschi e le spiagge, un generale NATO come Commissario straordinario per l’Emergenza, coprifuoco, lasciapassare, divieto per i cortei in centro, manganellate distribuite democraticamente ai facchini della logistica come a qualunque gruppo di dissidenti che tenti di avvicinarsi a un palazzo istituzionale o a una trivella del TAV: la sequenza non è né accidentale né improvvisata. Mentre le strade si riempiono di divise e di telecamere, i corpi devono essere catturati senza eccezione dalla tecno-industria e dai suoi miracolosi prodotti. Il linguaggio del potere e dei suoi saltimbanchi televisivi si fa sempre più brutale – ci vuole un Bava Beccaris, diventerete poltiglia verde, organizziamo vagoni separati, solo i meritevoli riceveranno le cure gratuite… – mentre quello “antagonista” si ritrova disarmato, costretto a premesse difensive (se qualcuno sostiene che Draghi esprime gli interessi del capitale finanziario internazionale, aggiungerà subito dopo che questa non è una visione complottista…). Una tale condizione di sottomissione – e di comunicazione di guerra, come l’ha definita un tecnocrate in vena di chiarezza – sembra il contesto ideale affinché l’uso internazionale dei militari porti un pezzo di Afghanistan dentro l’Europa. Esercitazioni dell’esercito russo ai confini con l’Ucraina, immagini di bunker anti-atomici e di arruolamenti volontari a Kiev, truppe NATO in Romania, in Lettonia, sul Mar Nero. Chi può escludere che dalle mosse diplomatiche e dalle minacce non si passi alle armi? Il confine degli interessi in ballo è frastagliato. La stessa espressione “campo atlantista ed europeista” non definisce affatto un campo omogeneo, perché le mire della NATO rompono dentro l’Europa equilibri politici ed economici più o meno espliciti o inconfessabili (per lo Stato tedesco, per quello francese e non solo). Lo stesso governo italiano collabora servilmente alle manovre della NATO, dispiegando cacciabombardieri in Romania, carri armati in Lituania e portaerei sul Mar Nero, ma i capitalisti dell’Enel, dell’ENI, di Banca Intesa e di Unicredit continuano a fare affari con i loro omologhi di Mosca. Nessuno vuole uno scontro USA-Russia, ma gli Stati non vanno affatto dove vogliono andare, bensì dove li portano la loro potenza e le dinamiche strutturali del dominio e del profitto su cui si basano. Dentro le infinite variabili, c’è tuttavia una costante. La guerra – come insieme di mezzi che divorano i loro pretesi fini – ha sempre bisogno della pace sociale. Non è dunque con le raffinate analisi geopolitiche che fermeremo i venti di guerra, bensì rompendo il fronte interno, sabotando l’unità nazionale, facendo sentire il pericolo del disfattismo.

Per averne conferma, basta prendere il ragionamento al contrario. L’unico momento in cui le ostilità tra le varie potenze vengono sospese è quando c’è da rimettere in riga gli sfruttati, la cui rivolta mette in discussione gli interessi di tutti i padroni. È ciò che è successo con l’invio dei militari russi in Kazakistan e la sanguinosa repressione dei rivoltosi di quel Paese. In quel caso non c’erano diritti umani, autodeterminazione dei popoli e altre fumisterie in nome delle quali indignarsi, condannare, minacciare. Per sfruttare le immense risorse kazake c’è bisogno di ordine, da imporre anche con il sangue – perché quell’ordine è l’unico piedistallo su cui si fonda lo scontro internazionale fra bande statali e capitaliste. Poche chiacchiere umanitarie si sono fatte, d’altronde, anche sull’uso delle armi da parte della polizia contro i rivoltosi di Rotterdam, o sui cani scatenati contro i manifestanti ad Amsterdam (ma quelli sono degli schifosi “no vax”…). E certo non sarebbe Biden a lamentarsi se il confinante Trudeau – al momento scappato in una residenza protetta – ponesse fine manu militari al gigantesco blocco di Ottawa contro il passaporto vaccinale.

Se la situazione in Ucraina precipitasse, avremmo torto di pensare che la gran parte della popolazione qui da noi sarebbe contro la guerra, come lo è stata in passato. Non solo perché la distruzione di ogni logica con cui si sono aggrediti milioni di cervelli in questi due anni ha lasciato le sue tracce. Ma anche perché, stante l’aumento delle bollette a fronte della crescente povertà, il Nemico sarà colui a cui si riuscirà ad attribuire la responsabilità dei rincari. L’atmosfera, inoltre, cambia non poco quando il rumore delle armi si avvicina. Una certa ferocia compensa i difetti del ragionamento.

Scendere in strada in anticipo contro la guerra che monta (e per il ritiro delle truppe italiane da ogni fronte) è urgente e necessario. Abbiamo già visto come, in nome dell’Emergenza, l’inaudito può diventare quotidiano. Accettate certe premesse, vince poi la soluzione più efficace. La digitalizzazione della società, fuga in avanti energivora oltre che anti-umana, porta con sé nuove guerre per le risorse. Tecno-industria e mondo militare sono sempre più fusi tra loro, tanto più smisurati nelle loro tendenze quanto più macchinizzati nei loro calcoli e nei loro mezzi. Le “visioni del mondo” sono oggi incorporate nei dispositivi tecnologici, nelle mosse automatizzate della finanza, nei risultati dei laboratori.

Quali che siano le parole d’ordine con cui si scende in strada, ricacciare indietro la polizia, oggi padrona del campo, non sarà né semplice né indolore. Quale che sia il terreno o l’angolo d’attacco che si giudica prioritario, non è possibile sottrarsi alle sirene del militarismo senza disertare la “guerra al virus”, che è sempre più apertamente guerra contro di noi e contro l’altrimenti che la storia umana ancora contiene.