La vita per cui ci battiamo
…un luogo di raduno di persone che per la costituzione della loro individualità sono inadatte a diventare mai membri utili della società umana capitalista.
Eric Mühsam
Da un certo punto non c’è più ritorno. Questo è il punto da raggiungere.
Franz Kafka
Essere radicati nell’assenza di luogo.
Simone Weil
Non è una cattiva poesia sulla primavera.
Non è la mappa dettagliata di nessun luogo.
Non è un programma per l’avvenire.
È una malinconica melodia gitana che ci accompagna nella solitudine, nello sconforto, nei sogni sereni e in quelli sudati, nel fragore della tempesta, nel cuore di un’azione.
La vita per cui ci battiamo non coincide mai con le singole lotte, non scodinzola davanti alla realtà, non ammira il successo, non idolatra il fatto. Rimane incredula verso l’onnipotenza del visibile.
Non si sente grande di una grandezza sempre latente, non fa profferte d’Ignoto e intanto tira a campare nei retrobottega perché la situazione, come si dice, non è matura.
La vita per cui ci battiamo è splendida, minacciata, malfamata e derisa, incastonata nel grembo profondo di ogni presente.
Non è una meta radiosa. È piuttosto un avanzare di ritorno, come si chiama nel linguaggio dei marinai la perigliosa ricerca della rotta smarrita.
Non è una piuma al vento. Ha una lunga storia, arcigna e bizzosa custode di un tesoro perduto e possibile. Affiorata non si sa bene quando tra gli schiavi d’Egitto, arsa viva nel 1307 a Biella e straziata nel 1525 in Germania, riapparsa nel 1811 in Inghilterra e nel 1871 a Parigi, avvistata nel 1905 a Pietroburgo e abbattuta come una pernice nel 1921 a Kronstadt, accarezzata nel 1936 in Catalogna e riassaporata in rue Gay Lussac nel 1968, vestita di bianco nel 1979 a Teheran e di nero nel 2001 a Genova, si aggira oggi nella Libera Repubblica della Collera, una terra incognita che si estende dalla Mauritania alla Siria…
È raccolta in un punto focale, a cui alludono da sempre le immagini utopiche. Un punto irraggiungibile da coloro che hanno tempo.
La vita per cui ci battiamo è un fanciullo che esaspera l’adulto opponendo alla logica del “così è” l’ostinazione dei suoi “perché?”. Gratta le nuvole e non trascura i dettagli.
Ha quella semplicità che fa inorridire o sorridere.
Il denaro non si mangia. È l’attività umana che ci nutre e riscalda.
Lo Stato ci dà solo ciò che ci ha tolto. Persino i denti con cui ci morde sono i nostri.
Ogni specie animale, foss’anche la più pigra e maldestra, costruisce il proprio riparo in poche ore o giorni. Noi fatichiamo tutta la vita per pagarci una dimora, per di più insalubre e brutta.
Invece di distribuirci a gusto e ad agio sulla terra, tra boschi, campagne e borghi, sopravviviamo ammassati in gabbie metropolitane senza solitudine e senza incontri.
Invece di produrre ciò di cui abbiamo bisogno, svolgiamo lavori inutili e nocivi in cambio di un salario.
Mangiamo plastica invece di leccornie.
Invece di assaporare la nostra breve vita, la perdiamo a guadagnarla.
Invece di sapere cosa e perché abbiamo prodotto oggi, affastelliamo nocività per le prossime migliaia di anni.
Invece di illuminare la natura, la bruciamo.
Invece di riposare, ci sfiniamo a divertirci. Quando si tratta di agire, dormiamo.
Invece di decidere in comune le regole e gli accordi per vivere insieme, ci facciamo imporre delle leggi da una esigua minoranza che ci tiene docili e separati con gendarmi che siamo noi a pagare.
Invece di mettere in comune beni, piaceri e fatiche, socializziamo la paura e la concorrenza.
Ci vorrebbero pronti ad ammazzare persone che non conosciamo per difendere padroni che tra loro si conoscono benissimo e non si ammazzano.
Sembrerebbe un sortilegio maligno, invece è un ordine sociale che riproduciamo noi stessi.
Potremmo spegnere il fuoco di questa servitù volontaria, invece l’alimentiamo di legna e maledizioni.
Marchiamo con le stimmate del rancore e dell’infamia i nostri fratelli più sventurati, ma non troviamo parole né armi contro lestofanti, padroni e ruffiani.
Ci sentiamo protetti dalle infinite protesi tecnologiche che ci circondano, ma controlliamo il nostro ambiente e la nostra vita infinitamente meno bene di un montanaro del 1300. Un guasto o un’alluvione e siamo come polli in batteria.
I borghi medievali ci sembrano un bell’ambiente materiale in cui vivere, senza servi né padroni. Le attuali città rimarrebbero un incubo anche se fossero liberate dal denaro e dalla polizia.
La varietà della natura umana permetterebbe di spingere la passione dell’incontro e della separazione fino al più meraviglioso dei giochi o al più intricato dei conflitti. Per quanto bizzarra possa essere un’esigenza o una condotta, ci sarà qualcun altro pronto a condividerla.
Incurante dei “pensieri complessi”, dei necessari compromessi e delle opinioni rispettabili perché stupide, la vita per cui ci battiamo parte da questa semplicità: vogliamo rovesciare un mondo alla rovescia.
E sappiamo che non è possibile farlo alleandosi con chi aspira a comandare.
La vita per cui ci battiamo non è una piuma al vento, senza storia né memoria. Ha visto all’opera i partiti, i sindacati, i comitati centrali, le burocrazie, i parlamentari, gli assessori, i consiglieri comunali, provinciali, regionali. Ha disertato i suffragi troppo a lungo per non conoscere le illusioni, gli intrighi, le compravendite di quella fiera che una lingua sinistra e menzognera chiama “elezione” (cioè scelta).
Ha sbirciato i modi in cui gli insorti sapevano e sanno organizzare la vita sociale senza capi né deleghe.
Ha visto troppi generosi battersi e morire per accettare ancora la farsa degli Stati e del potere.
Non ha santi da celebrare, ma vagabondi dello spirito con cui camminare, maestri senza cattedra da cui imparare.
Pisacane che tenta un’insurrezione fallita in partenza, finendo impiccato. Quel manipolo di internazionalisti che, nel Matese, imbraccia le armi nonostante centinaia e centinaia di gendarmi siano già lanciate al loro inseguimento. Bruciano gli atti di proprietà, distruggono i contatori del grano perché i tempi sono maturi ovunque regni l’ingiustizia. I Bresci e gli Schirru, la tradizione degli oppressi in rivolta. Cafiero che, rinchiuso in manicomio, chiede all’infermiera di non aprire le imposte perché non vuole approfittare a scapito altrui di quella luce del sole che crede limitata. Quei giovani partigiani che assaltano i camion di viveri scortati dalle SS e, con il denaro raccolto in cambio del cibo, estinguono i debiti al banco dei pegni di poveri che nemmeno conoscono.
La chiamiamo bontà armata, e i professori e i furbi sorridono.
Bava Beccaris, Auschwitz, Hiroshima, Mi Lai, Falluja… per fortuna e per scelta la rivoluzione anarchica tenda alla libertà e non all’affermazione di una giustizia da contabili. Non ci sarebbe violenza sufficiente per ripagare quei torti, quei volti, quelle ombre.
La vita per cui ci battiamo non sorgerà senza conflitti. Per espropriarla, la nostra vita, dobbiamo insorgere, tentando in tutte le occasioni propizie.
Colpire forte e presto, diceva un giovane d’altri tempi. Distruggere lo Stato, espropriare ciò che si può umanamente condividere e liquidare tutto il resto: un’idea semplice di anarchia. Banche, caserme, prigioni, titoli di proprietà… sono un insulto alla vita. In tanti luoghi del mondo le cittadelle della sofferenza e dell’avidità cedono sotto i colpi di sconosciuti che sentiamo più vicini di tanti conoscenti che incontriamo tutti i giorni.
Non siamo una piuma al vento. C’è un punto di non ritorno in cui incontreremo tutti i nostri fratelli. Ed è lì che vogliamo andare.
dal mensile anarchico “Invece” (n. 4, aprile 2011)