La propaganda come sortilegio tecnicizzato
La propaganda totalitaria come potenza composta di «temibili esseri psichici che assediano il pianeta» e che «si sostentano con tutte le nostre disattenzioni a pensare». Tale è la demonologia che attraversa l’opera di Armand Robin, poeta e rivoluzionario, instancabile decifratore della falsa parola, tra gli anni Trenta e Cinquanta del Novecento. Per questo ne abbiamo convocato lo spirito, affinché ci affianchi nella battaglia, più urgente e impervia che mai, contro gli «sparvieri mentali» che si abbattono «su milioni e milioni di cervelli». Se il pensiero sovversivo è sempre stato una sorta di “contro-stregoneria” (merce come feticismo, capitale come fantasmagoria, comunismo come spettro che si aggira nelle menti e nei Paesi, tecnologia come religione…), di quella forza di resistenza e di evocazione abbiamo disperato bisogno in un’epoca in cui il dominio, con la sua quotidiana teologia della paura, si spinge fino a «rendere demenziale l’evidenza».
Ripubblichiamo qui l’articolo uscito con il titolo Armand Robin nella rubrica «esercizi di gratitudine» del mensile anarchico “Invece” (n. 16, estate 2012). Dallo stesso numero del giornale riprendiamo anche una delle inconfondibili lettere indesiderabili di Robin, la sua Domanda ufficiale per ottenere di essere incluso in tutte le liste nere.
La propaganda come sortilegio tecnicizzato
Un indesiderabile, come si autodefiniva, che per tutta la vita ha combattuto contro gli assassini dei poveri e della parola.
Nato il 19 gennaio 1912 in una cascina delle Côtes du Nord (Bretagna), in una famiglia di sette figli, Robin maturò ben presto una passione eccezionale per le lingue. Ne imparò una quarantina. Da quelle più comuni (castigliano, italiano, inglese, tedesco) a quelle più lontane (l’ungherese, il polacco, il russo, il cinese, l’arabo), passando per quelle “provinciali” come il gallese, il macedone o il ceremisso (parlato lungo il Volga). Una passione che fu anche l’attività principale della sua vita. Oltre a tradurre poeti di vari Paesi (da Pasternak a Majakowskij, da Esenin a Li Po, da Rilke a Montale, da Dylan Thomas a Ricardo Paseyro), infatti, ascoltò per vent’anni, quattordici ore al giorno, le radio straniere, redigendo da solo un bollettino che vendeva a pochi abbonati.
Il titolo del bollettino – Le temps qu’il fait (“Il tempo che fa”) – raccoglie in sé le ragioni di quell’“ultra-fatica”: «L’insieme della propaganda lanciata simultaneamente giorno e notte su tutti i paesi, senza mai un solo secondo di interruzione, mi appare in quei momenti tramutato in uno stormo di uccelli da preda, impazienti di abbattersi su milioni e milioni di cervelli. Al di là delle parole, sono grida di carnivori mentali in cerca di cibo». Se erano le grida di quell’essere collettivo a raccontare a Robin il tempo che fa, la resistenza dello spirito contro gli “sparvieri mentali” era tutt’uno, per lui, con l’emancipazione proletaria. Attraverso la propaganda – «guerra nel cervello», «guerra contro il cervello» – sentiva, come rovescio, il dolore dei suoi fratelli, dei poveri di tutti i paesi. «Non sono soddisfatto, non so ancora le grida degli uomini in giapponese!». Come per Karl Kraus prima di lui, per Robin giustizia e lingua erano profondamente unite: «È logico che ogni azione di guerra contro le facoltà dello spirito finisca col violare il sillogismo». Lo sfruttamento dei lavoratori non poteva che basarsi sulla falsa parola (così s’intitola una sua raccolta di riflessioni a partire dagli ascolti radiofonici, pubblicata nel 1953), a cui si contrappone ogni autentica poesia.
Robin scoprì presto, per esperienza diretta, quella gigantesca organizzazione dell’irrealtà che fu lo stalinismo. Nel 1934 si fece assumere in un kolkoz russo, nel quale visse la condizione del contadino, da un lato, e la stregoneria della propaganda staliniana, dall’altro. «Laggiù, vidi al potere gli uccisori di poveri», restando «muto, accartocciato, sconvolto al ricordo del massacro dei proletari da parte dei borghesi bolscevichi». Il suo contatto con la falsa parola, approfondito nelle migliaia di ore di ascolto radiofonico, trovava il suo doppio nella lettura della stampa stalinista dell’epoca (“aragonizzata”, per usare la sua espressione) di cui Robin fu sferzante e inimitabile fustigatore: «Che cosa devo fare? Non posso decidermi a schiaffeggiare in pubblico l’uomo più disprezzato di Parigi (avete capito che parlo di Aragon). Sono nato dal popolo e il contatto con la faccia di questo ignobile borghese sporcherebbe una mano che ci tengo a tenere pulita per stringere quella dei lavoratori; sotto un certo livello di bassezza un uomo diventa “inschiaffeggiabile”».
Dopo aver collaborato alla Resistenza durante l’occupazione nazista di Parigi (dove da tempo risiedeva), dal 1945 Robin, ormai su posizione chiaramente anarchiche, comincia a scrivere sul Libertaire, per le cui edizioni escono le sue Poesie indesiderabili (altre raccolte furono Ma vie sans moi, Le monde d’une voix e Poésie non traduite). Difficile, tra l’altro, separare le poesie scritte da quelle tradotte, due luoghi dagli incerti confini. La sua intensa attività di traduzione non era solo una battaglia sociale (come nel caso dell’edizione autoprodotta dei poemi di Pasternak, «usciti dal campo di concentramento istituito per sbaragliare l’Anima»), ma esperienza di estasi, di uscita da sé grazie a un’altra lingua («Mi infrattai nel cinese per meglio impedirmi qualsiasi ritorno verso di me»; «Tracanno fino all’ubriachezza del non-essere?»). La giustizia era per lui una forma dell’estasi.
Torniamo al parallelo con Kraus, accennato sopra.
Tra il 1949 e il 1953, Robin non è certo il solo a smascherare la propaganda stalinista. Per fare due esempi significativi, nel 1949 Orwell pubblica 1984, mentre nel 1953 – lo stesso anno de La fausse parole, e sempre in Francia – esce La mente prigioniera di Cesław Miłoz. Ma la denuncia dell’incasermamento del pensiero e del linguaggio contenuta in quei due libri si muoveva su un registro diverso, incentrato sull’opposizione tra ideologia e realtà. Robin, come Kraus, vede in azione un vero e proprio demone, la cui opera di saharizzazione dello spirito assume i tratti della magia nera. Cos’hanno in comune il poeta proletario francese e l’aristocratico scrittore viennese? Si tratta di due uditori di voci (il primo anche in senso “tecnico”), di due guerrieri che hanno messo la loro epoca tra virgolette, perché sentivano il sangue sgorgare «dalla crosta delle frasi fatte» (Kraus). La Terza Notte di Valpurga di Kraus – scritta nel 1933, ma uscita postuma nel 1952 – è una lucida analisi del nazismo condotta a partire dalla non-lingua giornalistica; La falsa parola, scritta tra il 1945 e il 1950, è un’autopsia condotta sul Verbo assassinato da ogni propaganda. Kraus scorge nel nazional-socialismo la «tripla alleanza di inchiostro, tecnica e morte», il cui fine è, ben oltre la menzogna, quello di «rendere demenziale l’evidenza». Proprio perché vede che «al fiore della retorica resta attaccato qualcosa che assomiglia a una rugiada di sangue», egli ricava «la guerra e la fame dall’uso che la stampa fa della lingua, dall’inversione di senso e valore, dallo svuotamento e dalla violazione di tutti i concetti e di tutti i contenuti». In breve, dalla «contemporaneità della frase e dell’arma». Allo stesso modo, per Robin – che combatte un sortilegio fatto non di carta, ma di onde – questo “mattatoio mentale” non serve solo a «distogliere l’umanità dalla sua incomprensibile propensione a constatare che quello che esiste esiste», ma «a inabissare, come Atlantide sotto le antiche inondazioni, l’intelletto umano pazientemente creato in alcuni millenni». «Non-grammatica, non-sintassi, non-lingua», la voce totalitaria è fatta di «temibili esseri psichici che assediano il pianeta» e che «si sostentano con tutte le nostre disattenzioni a pensare». Questa stregoneria tecnicizzata rende risibile la nozione di materialismo: siamo nel più completo “idealismo”, nella più profonda superstizione – e Robin fece solo in tempo a intravvedere il “popolo dei teleguidati” che stava nascendo. Se nel linguaggio nazista la parola era come «in stato di arresto» (Kraus), sotto la propaganda del capitalismo totalitario essa è «in campo di concentramento» (Robin). Per evadere, il primo si rivolse quasi unicamente – con l’eccezione di Shakespeare – al tedesco di Goethe, muraglia cinese contro ogni corruzione e ogni ingiustizia, mentre il secondo vagabondò tra le lingue di tutto il mondo in cerca di fratelli, di parole vere, di rivolta.
Robin fu un anarchico e un poeta, un teologo del linguaggio e un rivoluzionario. Non tradì mai il campo dei poveri perché da lì soltanto si poteva chiedere reciprocamente che «tutto divenga non-intrigo, non-tattica, non-propaganda, non-odio, non-vendetta, non-profitto, non-calcolo, non-desiderio di dominare, non-rispetto del successo, non-sete di ricompensa, non-preoccupazione dei vantaggi e degli interessi, non-ricorso agli appoggi, non-brivido davanti alle prigioni, non-spavento in seno agli spaventi, non-morte in seno alla morte, non-tenebra tra le più tenebrose delle tenebre».
Con il progresso della tecnica – e della sottomissione umana – lo stormo dei “rapaci fantasmi” che assassinano l’anima e la parola si è fatto sempre più fitto, rendendo sordi e ciechi, stregati dall’«orribile sintonia dei fatti che producono notizie e delle notizie che sono colpevoli dei fatti» (Kraus).
Le lettere indesiderabili di Robin hanno attraversato indenni la bufera di questo progresso, pure di una purezza «quasi metafisica, sconosciuta ai codici, alle leggi, agli usi», nauseabonde per tutti gli sparvieri mentali.
Come quella che scrisse alla Gestapo, il 5 ottobre 1943: «È esattissimo che io vi disapprovo di una disapprovazione per la quale non esiste nome in nessuna delle lingue che conosco (e certamente neppure nella lingua ebraica, che voi mi fate desiderare di studiare). Voi siete degli assassini, signori; e aggiungo anche (è un punto di vista cui tengo molto) che siete degli assassini ridicoli … Voi avete assassinato, signori, mio fratello, il lavoratore tedesco; non rifiuto, come vedete, di essere assassinato di fianco a lui».
Il 29 marzo 1961, Robin viene trovato morto nell’infermeria di una carcere provvisorio a Parigi. Aveva lasciato casa sua due giorni prima (un ufficiale giudiziario gli aveva sequestrato i libri). Morto come tanti proletari, «in circostanze oscure». Morto come era sempre vissuto – da indesiderabile.
Matus
Domanda ufficiale per ottenere di essere incluso in tutte le liste nere
Signore autorità preposte alla poesia,
Avendo saputo da Le libertaire dell’esistenza sorprendente del vostro Comitato di Epurazione per le Lettere, vi chiedo di prendere una sanzione contro di me.
Ve lo chiedo in nome dell’antifascismo assoluto e delle idee realmente di estrema sinistra; saprete sicuramente che questo è stato, questo è, questo rimarrà il mio orientamento; ora, un simile atteggiamento, signori, è indesiderabile e deve essere deprecato da chiunque tenga all’onore e soprattutto alla tranquillità delle nostre lettere francesi.
I poetastri francesi autorizzati dallo Stato vi hanno mostrato la via. Mi hanno bandito dalla loro compagnia, che io rifuggivo; mi hanno escluso dal mondo della vanità e dell’interesse, cosa che io naturalmente cercavo; mi hanno indicato al disprezzo e ai motteggi di quelli che si mettono dalla parte dei potenti, cosa che naturalmente desideravo. Hanno avuto ragione: provenendo da lavoratori e ostinandomi, nonostante i reazionari «comunisti», a vivere tra i lavoratori, rifiutandomi di fare il cicisbeo nei salotti, nei caffè letterari, nelle anticamere in cui si usa che uno scrittore sia pusillanime, ho osato, scandalo degli scandali, essere poeta! Dove andremo a finire, proclamano in tutta la città i poeti prezzolati detti «poeti impegnati», se in questi tempi di carestia, di massacri e di terrori assurdi, compare un poeta che vuole parlare per tutte le vittime?
Spero, Signori, che non avrò bisogno di insistere maggiormente presso di voi per assicurarmi l’onore dei vostri fulmini. I fulmini vostri mancano ancora alla mia collezione di fulmini.
Ho letto la lista delle prime vittime, riportata dalla stampa addomesticata detta «Stampa della Resistenza». Si tratta di letterati per i quali il mio cuore non aveva mai battuto e che certamente mi detestavano; vi posso assicurare che adesso provo dei sentimenti per loro? Ho lo spirito talmente deformato che preferisco i perseguitati ai loro persecutori; anche voi, se un giorno foste perseguitati, con quale gioia finalmente vi apprezzerei! Oserei aggiungere che ho lungamente cercato in che cosa, moralmente e intellettualmente, differivate da coloro che colpivate; e non ho trovato che questo: voi avete meno talento di quelli, ma avete il vantaggio di far loro ciò che giammai essi vi avrebbero fatto.
La letteratura francese, grazie a voi e ai vostri simili, prende una strada molto strana che non passa affatto per la Parigi di quegli indesiderabili che furono ad esempio Rimbaud e Verlaine. È da prevedere che altre varietà di cattivi poeti, appoggiandosi sui tiranni di turno, costituiranno altre liste di proscrizione; pur maledicendo questo secolo bizzarro, prendo per tutta la mia vita la sola decisione che sia in armonia con esso:
mi candido anticipatamente a tutte le liste nere. Una lista nera in cui non comparissi mi offenderebbe.
Armand Robin
(Le libertaire, 29 novembre 1946)
(Questa Lettera indesiderabile del 5 aprile 1946 è contenuta nella bella raccolta La falsa parola e altri scritti, pubblicata nel 1995 da L’Affranchi)