Apocalisse o insurrezione (I)
Inauguriamo con questa prima “scheda di approfondimento” – a cui ne seguiranno altre con cadenza mensile – una nuova rubrica, dedicata all’antimilitarismo. Per mantenere un filo di continuità con l’impegno di analisi e di agitazione portato avanti nell’ultimo decennio, il titolo della rubrica rinvia a quello dell’omonimo blog (https://romperelerighe.noblogs.org/), che d’ora in avanti non verrà più aggiornato, mantenendo la funzione di archivio di materiali.
Apocalisse o insurrezione (I)
La guerra prossima ventura: il teatro dell’Indo-Pacifico
«Contro la guerra. Contro la pace. Per la rivoluzione sociale» (Luigi Galleani)
A) “Essere come l’acqua” (Bruce Lee)
Un’abile strategia fondata sul rapido adattamento alle circostanze – che impone di piegarsi senza spezzarsi – proviene dal manuale di arti marziali di Bruce Lee. “Quando versi l’acqua in una tazza, prende la forma di una tazza. L’acqua può scorrere, insinuarsi, gocciolare o distruggere”. Uno degli aspetti più interessanti delle rivolte ad Hong Kong fu l’adozione di Bruce Lee come modello di riferimento ideale da parte dei ribelli. Questo tipo di strategia è sempre stata parte nelle sue, appunto, svariate e molteplici forme, delle lotte delle sfruttate e degli sfruttati nella storia. Scopo della presente scheda di approfondimento e delle prossime che seguiranno sarà quello di rimarcare e di rilanciare la prospettiva di classe antimilitarista ed internazionalista, attraverso una analisi dello scontro sempre più acceso in atto fra capitalismi e blocchi di Stato avversi e di fronte alla possibile apparecchiatura per noi sfruttati di una prossima guerra di proporzioni mondiali. Scopo ancora più esigente sarà quello di ri-attualizzare il discorso e le pratiche per una concreta opposizione contro la guerra e l’apparato militarista. Ben consapevoli e con gli occhi bene aperti su quello che ci sta aspettando. “Guerra mondiale non si nasce, si diventa” titolava, già in epoca pre-Covid, una nota rivista padronale di analisi geo-politica. La pandemia da Covid-19, a livello di guerre esterne e di scontro fra Stati, ha funzionato come un potente acceleratore di radicali trasformazioni e di tendenze già in atto precedentemente. Di fronte a tali forze gigantesche (economiche-sociali e militari) che spingono a ritmi vorticosi l’umanità e il pianeta che la ospita verso il baratro, resta il fatto che, dal 2019 ad oggi, non siamo di fronte soltanto ad un gigantesco Risiko fra le grandi potenze. Sullo sfondo ci sono gli “ospiti inattesi”: le lotte, le resistenze e le rivolte della nostra classe che stanno scuotendo il globo. Per ricreare dei rapporti di forza con il nostro nemico di classe occorre una nuova lucidità e un nuovo impegno che sappia assumersi quella dose di rischio che ci rende umani. Ricreare una prospettiva che guardi più alle esigenze di lottare piuttosto che ai tristi vincoli dei rapporti di forza attuali. Sicuro che stato, padroni, e intelligenze artificiali varie non riusciranno mai a “ decifrare” e a normalizzare il linguaggio e le pratiche di chi lotta per la libertà. Ribadisco che, come diceva un vecchio partigiano dinanzi all’apparente strapotere del nemico, «bisogna lottare e lottare finché la sproporzione verrà stroncata».
B) QUIPAN: il teatro dell’Indo-Pacifico
Ovvero la “scacchiera” del WEIQI, antico gioco da tavolo cinese fondato sull’accerchiamento dell’avversario per controllare uno spazio superiore al suo. Attualmente perno della strategia della classe dominante mandarina nella sua ascesa nel ruolo di super-Potenza mondiale. Partirò con queste schede dal tracciare una panoramica analitica per questo scenario, in primis per due motivazioni fondamentali: 1) lo spostamento di importanza storica del baricentro del capitalismo mondiale dall’asse attorno al quale nacque (l’oceano Atlantico) a quello dell’oceano Pacifico, con tutto quello che ne può conseguire. Infatti, come il 1492 fu un anno simbolicamente decisivo per l’analisi materialista, così il 1998 fu terribilmente importante per evidenziare quale sarebbe stato il “nuovo corso” del capitalismo e degli Stati mondiali. Subito dopo la Crisi e il crollo delle “economie delle tigri asiatiche” avvenuto nel 1997, il “programma” per il capitalismo per il millennio che stava sorgendo fu riposto nei funghi atomici indiani e pakistani.
2) nella contesa fra capitalismo Usa e cinese per la futura supremazia mondiale, è in questa maxi area geografica che si vanno preparando due possibili “guerre locali” per stabilire una temporanea egemonia su scala regionale. “Guerra mondiale non si nasce, si diventa”, come già ricordato. Per primeggiare nel mondo, la classe dominante cinese deve strappare il “Mediterraneo asiatico” allo Stato statunitense. Crocevia insulare fra Indiano e Pacifico centrato sul mar del Giappone, sul Mar Giallo, cinese orientale e meridionale. Concepito dal geopolitico americano Spykman a secondo macello mondiale avviato, basato sul concetto che è dall’acqua che si controlla la terra. Gli analisti del dominio a stelle e strisce ragionano in termini di “oceano mondo”, e vedono il Mediterraneo asiatico come una vasca da bagno con la settima flotta pronta a chiudere tutti i “colli di bottiglia”; quelli dell’autoritarismo mandarino ragionano sui “Marginal Seas”, visti come trampolino di lancio verso il blu profondo. Indo-Pacifico, secondo la riattualizzata definizione anglo-sassone. In questo mondo di miseria, la parola è il marchio della potenza. Originata nel 1852 dall’avvocato scozzese Logan, direttore della malese “Penang Gazette”, e che, non a caso, corrisponde più o meno alla “sfera di coprosperità della grande Asia orientale” nipponica di tripartitica e fascista memoria, citata dal premier Abe Shinzo nel 2007 in India. Comandare significa dare un nome alle cose. Obbiettivo del più potente capitalismo mondiale: scompaginare l’espansionismo cinese delle nuove vie della seta, trasformando il contendente in una serie di coriandoli di piccoli Stati cinesi imbelli. Immaginiamo di porre su un tavolo la “scacchiera” del WEIQI e una mappa del cartografo fiammingo Ortelio del ’500, battezzata “Indiae orientalis insularumque adiacentium typus”, carta assimilabile alla convergenza di Indiano e Pacifico inscritta nelle opposte visioni dell’apparato dominante cinese e di quello Usa. Proviamo ora a sovrapporre il gioco da tavola e la mappa. Notiamo che il cartografo anticipava su scala minima il teatro della competizione attuale. Facciamo ora 4 salti di scala e di relativa messa a fuoco. Il primo ci mostra il “Mediterraneo asiatico” già individuato da Spykman, il secondo il mar cinese meridionale, il terzo è lo stretto di Malacca, “collo di bottiglia” ove transita il 90% del petrolio necessario all’espansionismo dello Stato cinese. Il quarto e ultimo focus è sulle isole Spratly, nel mar cinese meridionale, contese fra Repubblica popolare, Taiwan, Vietnam, Brunei, Malaysia e Filippine, e sulle isole Paracelso disputate fra Cina, Taiwan e Vietnam. WEI LU secondo una leggenda sinica del 1178, niente di meno che «le porte dell’inferno» dove le acque precipitano verso i nove mondi degli inferi. Immagine macabramente attuale visto che quest’ultimo è uno dei due teatri di guerra previsti fra militarismo sinico e statunitense. In questo quadrante emergono blocchi di Stati alleati e allineati agli Usa, alla Cina, e una pletora di Stati su posizioni terziste, intermediarie o evasive (come i dieci dell’ASEAN). Nella lettura a stelle e strisce, il rinato espansionismo giapponese e quello neonato dell’India rappresentano bracci indo-pacifici di una tenaglia imperniata sul continente nord-americano. Altro che contenimento dello Stato cinese; scopo del gioco per la classe privilegiata usa è quello di liquidarlo, dopo che negli scorsi decenni fu perseguìta senza volerlo la coltivazione del rivale, con un oscillare tra “pacifica” competizione e cooperazione selettiva, quasi che le “meraviglie” del capitalismo in salsa occidentale potessero spingere la classe dominante sinica ad adottare un’ideologia liberal-democratica. Ogni impero, nella storia degli sfruttatori, distribuisce carote e bastonate. Anche a livello di volontà dei singoli privilegiati e dei loro apparati economici, non solo a livello di dinamiche economiche. «Speak softly and carry a big stick»: la voce del padrone secondo la nota definizione di Roosevelt. Voce che si è affievolita dopo che l’apparato ideologico e propagandistico statunitense ha perso la battaglia per i cuori e le menti nella gestione pandemica. I fondi del 2021 stanziati dal Dipartimento di Stato Usa per foraggiare i partner militari sono per la maggior parte ancora volti al vicino oriente (5 miliardi e mezzo di $), mentre all’Asia meridionale e centrale spettano “solo” 19 milioni. Unendo questo fatto alle sanzioni statunitensi verso la borghesia mandarina, risulta subito evidente che siamo di fronte ad un surrogato, e non all’espressione di una strategia precisa. La superpotenza capitalistica e statale è tale in forza dello strapotere militare su cui si regge il primato del dollaro e la calante primazia tecnologica. Le armi dell’apparato bellico Usa valgono quando non sparano, e si svalutano per le spese in guerre neocoloniali ed asimmetriche (come quelle combattute a ripetizione dalla seconda guerra del Golfo in poi). Lo ammette R. Gates, ex segretario alla Difesa: «la Cina ha una strategia, gli Usa no. Dobbiamo riscoprire nella dolosa empatia tattica la virtù dell’egemone». La strategia statale cinese ha la risposta inscritta nelle nuove vie della seta che Xi Jinping ha codificato nella costituzione. Una rivoluzione geopolitica nella versione del militarismo attuale, ovvero duale: civile e militare, per trasformare l’«impero del centro» nel giro di tre decenni in una superpotenza a trazione marittima, con Stati e capitalismi avversari (Giappone, India e Vietnam), con falsi neutrali (Asean, a parte i satelliti Laos e Cambogia), e altri imprevedibili ( Corea del nord e Pakistan). Lo Stato cinese, sotto tutti gli aspetti, non è stabile. La BRI serve per riunificarlo e consolidarlo. Per quanto riguarda la potenziale sfera d’influenza e area di penetrazione e di competizione degli interessi padronali cinesi nell’arena mondiale, ovvero per le “vie della seta”, Xi Jinping rovescia il teorico anglosassone Mahan: le navi mercantili precedono la flotta militare. Ogni Stato è caratterizzato sempre dal binomio indissolubile fra moneta e spada. Come avviene da decenni su scala europea nel modellarsi del compromesso storico soprattutto fra capitale e Stati francese e tedesco, nel tentativo contradditorio di costituire un’unica potenza sul vecchio continente, così anche per Xi e la classe dominante cinese la moneta precede la spada. Anche le nuove vie della seta marittime sono lì per dimostrarlo. Scelta più che strategica, ma necessaria per fare i conti con la realtà dei rapporti di forza in campo a livello mondiale: cioè espressione navale dell’estroflessione sinica. In caso di conflitto, la settima flotta Usa bloccherebbe i “colli di bottiglia”. Obiettivo del militarismo cinese è dunque quello di spingere la frontiera marittima oltre le coste, alla giunzione dei due oceani. In linguaggio strategico la “catena di perle”, elevazione militare della mercantile “collana di perle” e catapulta verso il blu profondo. In pratica, una sovraestensione strategica prima ancora di possedere un impero esterno. Gli strateghi militari di Pechino stanno elaborando un’ipotesi di guerra “1.5”: offensiva nel teatro principale, difensiva nello scontro secondario, con due direttrici di corsa all’Indo-Pacifico con altrettanti gruppi navali, con minimo una doppia coppia di portaerei (le due attuali sono impresentabili al cospetto delle omologhe della Us Navy). Ogni strategia è sempre a doppio taglio. Non fanno eccezione le nuove vie della seta. A Pechino potrebbero sfogliare il resoconto del giro del mondo di Careri, aristocratico avventuriero napoletano che ispirò Verne, quando ci racconta che l’imperatore fece recare in dono ad un influente aristocratico una fascia di seta delicatissima e pregiatissima, per poi poterlo fare strangolare. Il teatro dell’Indo-Pacifico non è partita a due Stati e capitalismi, ma nel parallelogramma delle forze in campo vanno inclusi tutti gli attori coinvolti nella disputa. A differenza della guerra fredda, lo scontro fra i due blocchi sfocerebbe in un finale molto tragico. Nell’alveo della nuova strategia imperiale della casta privilegiata britannica, l’“Empire 2.0” inaugurato dalla Brexit, nel 2019 Johnson ha dichiarato di tornare “ad est di Suez”. Già nel 1965 (data del disimpegno dello Stato britannico in Asia), un documento a Downing Street sosteneva che «è alla confluenza dei due oceani che il conflitto fra America e Cina offrirà il terreno più fertile per i semi della terza guerra mondiale».
C) “Sino-American Litoral War of 2025”
La scintilla e l’incendio dello scontro sono situabili tra Indonesia e penisola coreana, con il mar cinese meridionale come centro. È questione di anni, non di decenni. Entrambi i militarismi si preparano per la guerra litoranea, non oceanica. Nelle menti deliranti dei padroni e dei burocrati, la prima potrebbe essere contenuta, la seconda virerebbe immediatamente verso il conflitto totale e nucleare. La posta in gioco: una guerra per l’egemonia sull’Asia sud-orientale, sul modello della guerra russo-giapponese del 1905. Come stanno studiando e preparando questa guerra? La casta militarista cinese sa di essere meno potente e di non avere alleati. Compensa questo svantaggio con una stabile presenza in quel teatro e con la metodica preparazione al conflitto. Opera da anni nell’ampia zona grigia fra pace e guerra militarizzando il mar cinese meridionale. Dal 2012 in poi, con la presa dell’atollo di Scarborough (rivendicato dalle Filippine), Pechino scopre il bluff della US Navy, che non vuole sostenere un conflitto per difendere l’alleato. A Washington prende piede una scuola navale orientata verso stili di deterrenza meno da “guerra totale” con Pechino. Gli analisti del potere perdono le tracce della grande strategia, surrogata dalla guerra litoranea. Opera di una scuola di pensiero minoritaria ma rampante negli Usa, e che ha come obiettivo la spartizione del mondo in sfere d’influenza. Negli scenari ipotetici di un conflitto per il controllo del mar cinese meridionale, viene riconosciuto un notevole vantaggio tattico all’ELP, mentre la settima flotta e la terza impiegano molti giorni per raggiungere la zona di operazioni. Lo scenario ipotetico tracciato culmina nell’affondamento della portaerei G. Ford. Una scoperta fatta durante la pandemia, è che le portaerei Usa sono potenzialmente dei dinosauri: si sono dimostrate vulnerabili al Covid-19. Per mesi tutte e quattro le ammiraglie nel Pacifico sono rimaste in porto. Ma il ripiegamento Usa non comporterebbe di necessità l’egemonia dello Stato cinese. Potrebbe indurre e velocizzare il ritorno dell’impero giapponese, dove il padronato nipponico ha iniziato da anni un riarmo in tutte le sue dimensioni: aeronavale, missilistica e cibernetica. Lo stato del Mikado è anche una potenza nucleare virtuale, disponendo delle più ricche riserve di plutonio al mondo. Nel documento Visione NATO 2030, il segretario generale Jens Stoltenberg vede un’alleanza che dall’Atlantico si proietta verso il Pacifico. Non mancherà molto tempo a far sì che anche le navi militari dell’“imperialismo straccione” nostrano salpino alla volta dell’Asia orientale. Consultando lo strumento previsionale più sofisticato ed attendibile che hanno a disposizione questi apprendisti stregoni della borghesia, ovvero la sfera di cristallo, si rimane perplessi. Il globo trasparente mostra solo il presente. E la mente contiene solo il passato. Si può restare interdetti. L’esecutivo britannico offre ad un milione di residenti di Hong Kong l’accesso in Gran Bretagna (primo rifiutato ed ora semplicemente parallelo all’esigenza di avere piccoli e medi imprenditori che trasferiscano le attività e la relativa mano d’opera fresca, specializzata e sottopagata per una parvenza di ripresa manifatturiera); lo stato USA utilizza invece come strumento fondamentale per contrastare la Cina l’interferenza nelle questioni di Taiwan e di Hong Kong (con un atteggiamento ambiguo e tragicomico: gli USA denunciano la violazione dei “diritti umani” mentre gli sfruttati negli Stati Uniti sono sulle barricate – anche – per la violenza della polizia americana; minacciano sanzioni per il progetto della Repubblica popolare che vuole unificare le “misure di sicurezza” su tutto il territorio nazionale mentre questo atto contiene le stesse norme già in vigore negli USA e perfino più blande di quelle applicate dagli Stati europei in materia di “terrorismo, eversione e criminalità”). Per la casta dominante mandarina, Hong Kong dovrà divenire sempre di più la vetrina per il “made in China” e il nodo finanziario-logistico del capitalismo cinese sul mare globale. Digitale, spazio e manifattura: mentre si sviluppano gli “accordi Artemis” per lo sfruttamento delle risorse spaziali (che entreranno in vigore nel 2024, e dai quali sono esclusi sia lo Stato russo che quello cinese), la Repubblica popolare pensa al ponte continentale delle vie della seta per sottrarsi alla morsa USA. Se facessimo un brevissimo focus sul capitale mandarino a confronto con gli effetti della pandemia globale, scopriremmo che è stato incrementato il sostegno alle imprese di Stato, e già ad aprile 2020 le esportazioni erano aumentate del 3,5% (quando era previsto un declino del 15,7%). Alle minacce USA di colpire Huawei, si sono contrapposte le ritorsioni su Apple, Cisco e Boeing. La Repubblica popolare si sta preparando ad affrontare la completa cessazione dei rapporti diplomatici e commerciali con gli Stati Uniti nell’alta tecnologia. Se la guerra commerciale già in atto richiede la capacità di gestire sia i negoziati che i litigi; se il mercato americano può essere sostituito in un futuro prossimo da quello europeo, russo, nipponico ed interno, tutti questi fattori indicano un cambiamento della posizione del capitale mandarino nel sistema capitalistico globale. Lo Stato cinese ha il monopolio delle terre rare, materiali fondamentali nelle tecnologie più avanzate, dai telefonini agli Icbm (ecco un motivo dell’accelerazione USA e della borghesia europea verso l’esplorazione dello spazio e dei relativi accordi sullo sfruttamento di quest’ultimo). Il padronato cinese sta sperimentando il 6g e la nuova piattaforma globale che sostituirà Google. Huawei sta investendo nelle infrastrutture globali della comunicazione e sta realizzando una rete globale che sostituisca quelle delle multinazionali a stelle e strisce. Qualsiasi gestore digitale dovrà appoggiarsi a queste infrastrutture terrestri e sottomarine. Huawei, dai primi segnali di ostilità USA, ha cambiato di molto l’architettura del proprio 5G, ampliandone le capacità di intrusione e quelle di difesa. Come sarebbe una seconda guerra fredda? Come la prima: una grande opportunità per la Cina, una crisi cronica per gli Stati Uniti e un bagno di sangue per tutti gli sfruttati. Con il venir meno dell’ennesimo ciclo liberista del capitale mondiale e con il riavviarsi di una fase tendenzialmente protezionista, il padronato statunitense si trova di fronte al problema manifatturiero. In questo momento, la capacità manifatturiera cinese comprende larga parte dei beni necessari alla vita e alla sopravvivenza del capitalismo americano. Ad esempio, i ventilatori polmonari necessari per fronteggiare il Covid sono assemblati dalle imprese cinesi, che forniscono anche 1100 dei 1400 componenti. Gli analisti del dominio mandarino escludono che la capacità cinese possa essere sostituita da quella di Vietnam, Bangladesh, Filippine e India. Non si tratta, infatti, solo di infrastrutture e di manodopera bruta, ma anche di, per utilizzare una terribile espressione borghese, “risorse umane qualificate”.
La guerra per sancire l’egemonia regionale si basa dunque sui teatri di Taiwan, o delle isole Spratly e Paracelso. I militari cinesi vedono una guerra per Taiwan vantaggiosa in quanto prossima alla costa continentale. Quelli statunitensi invece nel mar cinese meridionale. Uno studio della “Rand corporation” nel 2017 individuava i vantaggi di ciascuno dei due contendenti per le differenti aree operative. Due note a riguardo su questo studio: la prima è che le capacità nucleari non sono basate sul numero di testate e di vettori disponibili da ciascuna parte (a favore gli Stati Uniti per 13 ad 1), ma sulle capacità di sopravvivere al primo attacco e di rispondere. Lo squilibrio esistente può indurre il più forte a garantirsi una facile vittoria usandole per primo o inducendo il più debole ad usarle per primo, o per “punizione” asimmetrica colpendo obiettivi altamente simbolici o terrorizzanti. Secondo punto: le capacità “counter space”, non più prerogativa unica del militarismo Usa o russo, ma anche di quello cinese dal 2007. Concludendo, la guerra dei dazi non è una metafora spettacolare. Come sempre nel sistema capitalista, è una fase dello scontro sul piano economico che sottende un piano strategico di esercizio del potere. L’ipotesi di un conflitto diretto ma limitato alle aree periferiche del “Mediterraneo asiatico” è realistica perché è proprio questo che i due Stati stanno preparando.
D) IL QUAD
Nato nel 2007, è il “Dialogo quadrilaterale” che raggruppa USA, India, Giappone e Australiano. La borghesia della superpotenza ha convinto gli alleati nel contenimento dell’impero del centro, ma non nel suo soffocamento. Il Quad è un acquerello più che una struttura formata. È incarnazione dunque dell’Indo-Pacifico che abbraccia spicchi di mondo troppo vasti per esprimere un carattere. Concetto di matrice anglo-sassone dove l’Asia è descritta in modo talassocratico. All’interno il rinato impero nipponico. Non è un caso che il primo appuntamento del Quad sia stato convocato a Delhi e aperto dall’allora primo ministro giapponese Abe, che nel discorso inaugurale citò La confluenza dei due mari, opera seicentesca del principe moghul Shikoh. La borghesia del Sol Levante è protagonista nei progetti alternativi alla BRI; è prima per investimenti infrastrutturali in Indocina, e stanzia miliardi per rimpatriare le proprie aziende dalla Cina aumentando gli investimenti in India e nel Sud-est asiatico: altro nodo cruciale dove i nostri padroni stanno giocando i destini del mondo. Per lo Stato nipponico il Sud-est asiatico è cosa sua e perno della strategia anticinese di Tokyo. Il padronato del Mikado ha fondato la FOIP (Free and Open Indo Pacific vision) simile alla BRI ma in funzione antimandarina e (in prospettiva) antistatunitense. Essa serve al Giappone per fornire un’alternativa alla BRI basata su regole condivise. Nell’attuale situazione pandemica, tutti gli Stati indocinesi hanno bisogno di assistenza sanitaria, e nell’istruzione e nel digitale. Lo scontro con la Cina nell’Indocina è aperto. Il flirt fra lo Stato giapponese e quello indiano è segno di questi tempi di guerra. I privilegiati cinesi stanno costruendo, fra alleanze e espansionismo economico e militare, una vera e propria “gabbia di seta” attorno all’India. Già nell’estate del 2020 Pechino ha approfittato del “virus lag” per occupare 60 km quadrati nel Ladakh, vera e propria guerra combattuta brevemente sulle cime dell’Himalaya. Dal 1997, in anni non casuali e che corrispondono alle esplosioni atomiche indiane e pakistane, l’India ha lanciato il BIMSTEC (Iniziativa per la cooperazione tecnica ed economica multisettoriale del Golfo del Bengala) e ha il vantaggio di poter contare sull’avamposto delle isole Andamane e Nicobare all’ingresso dello stretto di Malacca, dove Delhi mantiene i propri sottomarini nucleari, dotati di missili balistici e trampolino di lancio per espandere lo spazio strategico indiano.
E) La guerra per “i colli di bottiglia”: Malacca, la cruna dell’ago
È la rotta più breve tra i produttori di petrolio del golfo e i cruciali mercati asiatici; per questo braccio transita ogni anno un terzo del greggio e dei raffinati trasportati via mare. Un ruolo strutturale a livello economico che non è stato messo a rischio dall’attuale pandemia. Anzi. Lo stretto svolge un ruolo fondamentale nella ripresa dei capitalismi asiatici. In caso di conflitto, sarebbe improrogabile per gli Stati Uniti ed i loro alleati il blocco dello stretto, mentre per i cinesi sarebbe necessario riuscire a tenerlo aperto. Gli scenari di guerra imperniati su questo collodi bottiglia sono alla base delle attività cinesi nel Golfo del Bengala, “mascherati” dalla solita facciata duale del rilevamento marittimo e della ricerca oceanografica. Quest’ultimo studio è essenziale ai sottomarini cinesi per forzare un ipotetico blocco navale, vista la difficile e cattiva orografia dei fondali nello stretto di mare. Se il Covid-19 ha intaccato temporaneamente la primazia navale statunitense (un focolaio a bordo della portaerei Roosevelt ha dimostrato al mondo quanto possono essere vulnerabili le gigantesche portaerei USA), il pericolo di sconvolgimento del traffico energetico attraverso lo stretto è sempre presente nel cosiddetto “dilemma di Malacca” per i privilegiati mandarini. La ricerca di fonti energetiche alternative (ad esempio gli accordi energetici con lo Stato bengalese e quello birmano, che prevedono rifornimenti via terra tramite oleodotti, non sono risolutivi). La borghesia e la casta burocratica cinesi sono fortemente vulnerabili ad un blocco marittimo: il 60% del greggio che consumano è importato, e di quest’ultimo il 90% transita via mare da Malacca. Negli ultimi anni c’è stata una crescita delle capacità operative in alto mare della flotta dell’ELP per poter proteggere le proprie rotte strategiche o per poter rompere un blocco in acque profonde: ad esempio, durante la disputa per il territorio del Doklam con lo Stato indiano, tra giugno ed agosto del 2017, l’ELP ha schierato 14 navi da guerra tra cui un sottomarino nell’oceano indiano, mentre dalle basi avanzate aeree a ridosso del mar cinese meridionale, il bombardiere H6k potrebbe compiere incursioni sullo stretto.
D) Il Risiko delle dighe: Mekong, geopolitica di un fiume conteso
L’Indocina è il fulcro della contesa. È in corso uno scontro fra Stati sul fiume Mekong, il dodicesimo fiume più lungo al mondo. Nella primavera del 2020, si è abbassato ulteriormente il livello del corso d’acqua. La fame di energia per lo sviluppo capitalista e gli interessi dei vari Stati ne hanno stravolto l’ecosistema e lo scenario. Solo nella Repubblica popolare cinese operano dieci dighe e 9 entreranno in funzione entro il 2030. Lo Stato laotiano, alleato storico dei cinesi, punta sull’idroelettrico come volano della borghesia autoctona, e ha già in funzione 46 dighe e ne ha in programma ulteriori 54. Progetto del capitale laotiano è quello di divenire la “batteria dell’Asia”. Per questo motivo sono in corso nel Laos duri scontri con le comunità di villaggio locali che cercano di resistere a questo scempio. I danni che si stanno creando al basso bacino del fiume stanno distruggendo uno degli ecosistemi più ricchi al mondo. Secondo gli studi curati dalla società di consulenza “Eyes on earth”, questo sfruttamento delle acque è chiaramente la principale causa di siccità. L’effetto combinato fra agenti inquinanti e il riscaldamento globale con il conseguente cambiamento della regolarità dei monsoni porterebbe al risultato che, se tutte le dighe in progetto fossero costruite, il 97% dei sedimenti in viaggio verso il delta del fiume sarebbero bloccati, con il risultato della devastazione agricola per tutte le comunità locali. Per lo Stato cinese, gli effetti del Covid-19 sul medio e lungo periodo sono una manna per l’accumulazione di capitali, grazie ad una concentrazione su scala regionale delle nuove vie della seta in termini di investimenti e di minore dipendenza dalle filiere occidentali. Per gli USA, il rischio di un controllo mandarino sul Mekong è identificabile in un bacino più navigabile ed infrastrutturalmente dotato che sarebbe il passaggio perfetto per portare in Cina il petrolio o il gas dal Mar cinese. Il 70% del PIL del Laos è il valore del debito di questa piccola borghesia autoctona con l’omonima cinese. La contesa fra gli Stati cinese, giapponese ed americano nell’Indocina è una delle chiavi di volta per capire la partita che i nostri padroni stanno giocando in Asia.
E) L’ospite inatteso: rivolte, insurrezioni e prospettiva internazionalista per la nostra classe
Da marzo 2019, la regione ad amministrazione speciale di Hong Kong è stata un focolaio di una rivolta che, con tutte le sue parzialità e contraddizioni, ha ricoperto un tassello fondamentale nello scenario delle mobilitazioni e insurrezioni continue che stanno preoccupando i nostri nemici di classe negli ultimissimi anni. Come sostenevo all’inizio dell’approfondimento, non c’è solo il Risiko fra i blocchi di Stati. Sullo sfondo, appunto, ci sono le lotte e le rivolte di noi sfruttati. Davanti alle nuove e ulteriori barbarie che stanno preparando, era da decenni che le classi dominanti del pianeta non perdevano il sonno a causa di esplosioni sociali di dimensioni epocali. Dalla Colombia al Libano, dagli Stati Uniti alla rivolta dei contadini in India, passando per Hong Kong, dove, dopo l’avvio pacifico, le manifestazioni nella ex colonia britannica sono diventate più violente. È importante parlare di queste mobilitazioni, come sarebbe necessario parlare delle rivolte in corso in Cina e Indocina. Dato il contesto che stiamo analizzando in questo scritto, soprattutto affinché divengano patrimonio comune di esperienze e di pratiche per gli sfruttati in tutto il mondo, assieme alla critica e all’attenzione fondamentale (come in ogni rivolta) sulle parzialità e le innumerevoli e mastodontiche contraddizioni interne che fanno emergere. Fin dall’inizio, i manifestanti concentrarono le proprie attività nei luoghi simbolo del centro urbano e nei suoi nodi logistici più rilevanti, inclusi le fermate delle metropolitane e l’aeroporto internazionale. Obiettivo: essere imprevedibili e, come in ogni strategia proletaria di blocco, interrompere la “normalità” del «porto profumato». Altro elemento contradditorio, ma assai rilevante e oggetto di necessarie riflessioni: l’organizzazione delle proteste si è sviluppata soprattutto (ma non solamente) via Internet. Secondo gli analisti borghesi, le piattaforme più utilizzate nel coordinamento logistico sono state il forum LIHKG (simile a “reddit”), Facebook, Twitter e Telegram. Sul web circolava per esempio l’invito a disattivare il riconoscimento facciale per lo sblocco degli smartphone. La polizia ha tentato infatti di costringere gli arrestati a guardare lo schermo per aprire il proprio dispositivo. Siti come HPmap.live.com e 103.hk sono stati usati per mappare gli eventi in tempo reale. La sponda settentrionale dell’isola di Hong Kong – fulcro politico, economico e militare della regione – è stata il principale teatro delle proteste. Il 1° luglio 2019, un gruppo di persone mascherate ha fatto irruzione nel consiglio legislativo. Anche l’area finanziaria è stata invasa dalla folla. A giugno, è stato assediato il quartier generale della polizia hongkonghese. Il 12 e il 13 agosto 2019, le proteste hanno penalizzato l’aeroporto internazionale. Centinaia di voli sono stati cancellati. Nelle posizioni espresse durante la rivolta, per la maggior parte dei casi contradditorie o non condivisibili, non va dimenticato, come al solito, di prestare l’attenzione al “grande non-detto” delle società borghesi: la questione sociale. Perché gli sfruttati del porto profumato continuano (tutt’ora) a battersi? Le radici di questa sana rabbia sociale risiedono nella loro difficile situazione socio-economica. Milioni di persone vivono in povertà con un altissimo tasso di disuguaglianza, residuo già del periodo coloniale e notevolmente ampliatasi sotto i nuovi padroni cinesi. La casa, ad esempio, è un primo fattore da considerare. Per più di un decennio Hong Kong è stato uno dei mercati immobiliari più costosi del pianeta. I proletari pagano somme esorbitanti per piccoli appartamenti. La realtà è che la maggior parte degli abitanti della città non può permettersi una casa. I primi cinque magnati di Hong Kong hanno ricevuto nel 2016-2017 dividendi da 2,8 miliardi di euro. Non sorprende che la popolazione si chieda perché sia costretta a pagare imposte sul reddito e ad abitare nei ripostigli mentre gli ultraricchi possono condurre una vita da favola detassata. Questo brevissimo e parziale resoconto delle rivolte ad Hong Kong denota due elementi importanti da considerare per guardare e poter innanzitutto comprendere le rivolte in giro per il mondo: 1) le radici sociali delle lotte: è il ritorno in grande stile della questione sociale; 2) la possibilità di poter praticare la solidarietà, ovvero la volontà di essere contemporanei delle rivolte, che è sempre una scelta ed una pulsione individuale e collettiva. Ribadisco ancora che non esiste oggi una questione rilevante che non abbia una dimensione internazionale.
F) Il nemico è in casa nostra
Il vecchio motto internazionalista ritorna prepotentemente alla ribalta. Davanti a scenari tremendamente inquietanti, all’apparenza così lontani, e alle insurrezioni che stanno scuotendo il mondo della tanto decantata “pace sociale”, come possiamo porci all’altezza del momento storico che stiamo attraversando? Innanzitutto, lottare per la sconfitta del proprio padrone e del proprio Stato. La prospettiva da perseguire per la nostra classe è quella di sempre, e che avrebbe già potuto evitare i due macelli mondiali: una pratica internazionalista antiautoritaria e di classe che non finisca a rimorchio della propria borghesia e del proprio Stato. Per attaccare l’ingranaggio del militarismo e del riarmo in atto in tutti gli Stati nazionali è necessario, in primis, conoscere come si muove il nostro nemico di classe. Da qui uno degli scopi di questi approfondimenti. E, dopo la fine della coscrizione obbligatoria che offriva un campo di intervento pratico per ogni antimilitarista, cercare di comprendere alcuni dei pilastri delle guerre in corso: e cioè il come, il perché, e dove vengono fabbricati gli strumenti che rendono possibili sia le guerre interne che quelle esterne agli Stati. Venir meno a questi aspetti etici e pratici vuol dire semplicemente riconsegnare l’umanità alla tragica barbarie di una guerra mondiale.
«Nella lotta contro l’apparato statal-militar-industriale è fondamentale osservare con attenzione i suoi nervi più scoperti, i suoi interessi, la sua linfa vitale e i suoi retroscena. Quei dietro le quinte che preparano il palcoscenico dei conflitti globali. Contro la guerra per attaccare la salute dello Stato, contro lo Stato per colpire l’essenza della guerra». (Dietro le quinte, edizioni “Rompere le righe”).