Qui per restare. Sul green pass e sul suo mondo

Qui per restare. Sul green pass e sul suo mondo

Tratto da: https://bergteufelbz.noblogs.org/post/2021/10/04/qui-per-restare-sul-green-pass-e-il-suo-mondo/

Il testo che segue è la trascrizione di un intervento tenuto domenica 3 ottobre a San Giorio di Susa (TO) nell’ambito di un’iniziativa contro il lasciapassare (vedi locandina). Funzionando come riassunto dei contenuti dell’opuscolo Il mondo a distanza e come rapida ricognizione del mondo di cui il green pass è espressione, abbiamo pensato che potesse essere di qualche utilità e quindi di pubblicarla.

 

 

Il green pass non rappresenta “solamente” un modo particolarmente infame per costringere a sottoporsi alla sperimentazione dei cosiddetti vaccini. Io mi concentrerò, a partire dai contenuti dell’opuscolo Il mondo a distanza, su questo lasciapassare come dispositivo tecnologico di controllo, sul mondo di cui è espressione e sugli scenari che apre. D’altronde il ministro Speranza ne ha parlato come della “più grande opera di digitalizzazione mai fatta”.

Nei pochi mesi trascorsi da quando è uscito l’opuscolo siamo passati dalla farsa dell’app Immuni e dal guardare con inquietudine alla realtà cinese – dove era rapidamente diventato di fatto impossibile circolare senza mostrare continuamente, smartphone alla mano, di essere “puliti”, sulla base del tracciamento dei propri spostamenti e dei possibili contatti con positivi – al trovarci quella realtà materializzata di fronte. La cosa da sottolineare è che il green pass come tipo di dispositivo, lungi dall’essere costitutivamente legato alla fase di emergenza – già ormai permanente – sanitaria, è qui per restare, al di là delle forme specifiche che potrà assumere: una volta introdotto uno strumento in grado di tracciare in maniera puntuale, centralizzata e automatizzata tutti gli spostamenti e le attività di tutta la popolazione, e che consente di modulare in tempo reale e in modo potenzialmente individualizzato la libertà di movimento e di accesso a una serie di attività e di servizi sulla base, di fatto, dell’adesione alle ingiunzioni delle autorità, è ingenuo pensare che possa essere riposto con la fine dello stato di pandemia (ammesso che una fine ci sarà) – anche perché non sarà giustificato solo in chiave di controllo e discriminazione, ma anche di ottimizzazione dei servizi grazie all’analisi dei dati che permette di raccogliere.

Il modello verso il quale si tende è abbastanza evidentemente quello del cosiddetto “credito sociale” cinese, in corso di perfezionamento (c’è una certa assonanza fra le parole dell’amministratore delegato di Ant Financial di Alibaba, il colosso cinese del commercio online, secondo il quale il credito sociale “farà in modo che le persone cattive non abbiano socialmente alcun posto dove andare”, e l’intenzione del governatore PD della Toscana di bandire i non vaccinati da tutti i luoghi pubblici). In Cina, grazie all’integrazione e all’analisi algoritmica di tutte le informazioni raccolte da istituzioni, banche, social, telecamere intelligenti ecc. (dal livello di istruzione alle amicizie che si hanno, dalla puntualità nel pagamento delle rate al tipo di acquisti che si fanno – e non si parla solo del rispetto delle leggi, ma anche di una più ampia “morale sociale”), viene assegnato ad ogni cittadino e continuamente aggiornato un punteggio di affidabilità sulla base del quale si viene “premiati” o esclusi da una serie di servizi (automaticamente e in tempo reale, senza passare per procedimenti penali o amministrativi: come con la x rossa per i non vaccinati…). È un meccanismo già all’opera anche nel mondo occidentale, dove banche e datori di lavoro si affidano a strumenti di analisi dei comportamenti online per decidere se concedere un prestito o assumere un candidato. Ogni passo avanti della digitalizzazione in qualsiasi settore, dall’identità digitale alla “lotta al contante” che piace tanto a sinistra in chiave antievasione, è chiaramente un passo avanti in questa direzione. Inoltre, come è stato fatto giustamente notare a proposito per esempio dei contatori elettronici che permettono di interrompere da remoto la fornitura di corrente ai morosi, “tutto questo è contro la possibilità di lottare”.

La pandemia, attraverso l’introduzione “emergenziale” di dispositivi come il green pass, attraverso l’impennata nell’accumulazione di dati (la materia prima per l’autoaffinamento dell’intelligenza artificiale) data da smart working, didattica a distanza ecc., e nel prossimo futuro attraverso i “piani di ripresa” (basta dare un’occhiata anche solo all’indice del PNRR: infrastrutture di telecomunicazione – 5G in testa – e investimenti nella digitalizzazione di tutta una serie di settori) ha rappresentato un formidabile momento di accelerazione per il mondo di cui il green pass è espressione. Nell’opuscolo vengono presi in considerazione due aspetti in particolare: il capitalismo della sorveglianza con il modello di società che ci sta apparecchiando, e la rete 5G come infrastruttura abilitante.

Il capitalismo della sorveglianza è un libro di una ricercatrice americana, Shoshana Zuboff, uscito un paio d’anni fa, che traccia un quadro particolarmente completo e acuto dell’economia dei dati. L’autrice parte dai primi anni duemila, quando Google, che all’epoca era solo o comunque soprattutto un motore di ricerca, capisce che i dati generati dagli utenti con le loro ricerche (il contenuto della ricerca ma anche i cosiddetti metadati come ad esempio quando e da dove è stata effettuata), fino a quel momento utilizzati per migliorare il funzionamento del servizio e per il resto considerati scarti, erano in realtà una preziosa materia prima, che la Zuboff chiama surplus comportamentale. “Lavorata” dall’intelligenza artificiale, si sarebbe potuta trasformare in prodotti predittivi – cioè dati strutturati sul probabile comportamento futuro degli utenti, ricavati dall’analisi del loro comportamento passato – da vendere in un mercato dei comportamenti futuri a inserzionisti desiderosi di investire in pubblicità individualizzata e quindi più remunerativa. In breve tempo, questo modello è diventato lo standard del capitalismo su internet.

Una breve parentesi sull’intelligenza artificiale, il “mezzo di produzione”: più o meno negli stessi anni, grazie all’aumento della potenza di calcolo e ad altri “progressi”, si era verificato il passaggio da computer in grado, per quanto velocemente, solo di applicare regole predefinite a dati in qualche modo strutturati per essere “letti” dalla macchina, a sistemi in grado di ricavare per conto proprio regole da applicare poi anche ad oggetti “nuovi”, capaci quindi di analizzare dati non strutturati, come la voce umana o immagini video. Quanti più dati ingerisce, tanto più il sistema migliora automaticamente le proprie capacità; ogni dispositivo inoltre non “impara” solo dalla propria “esperienza”, ma anche da quella di tutti gli altri esemplari gestiti dalla stessa intelligenza artificiale.

Compreso il valore dei dati comportamentali, Google e concorrenti colonizzano il mondo reale, attraverso strumenti come ad esempio Google Maps, che si appropria della realtà – peraltro senza chiedere il permesso a nessuno – attraverso le sue auto con telecamera, e poi incrocia i dati sugli spostamenti di un utente, ricavati dal servizio – gratuito – di navigazione che offre, con quelli sugli interessi dello stesso utente, ricavati da altre applicazioni, per proporre la pubblicità giusta nel posto giusto al momento giusto. La cattura di dati avviene attraverso tutta un’architettura dell’estrazione formata dal cosiddetto internet delle cose (domotica, smart city…), che fornisce sia nuove fonti di approvvigionamento di dati, sia nuovi terreni per pubblicità mirate. Particolarmente degni di nota sono i cosiddetti assistenti vocali digitali (Siri, Alexa…), che inducendo l’utente a conversare con loro ottengono informazioni particolarmente significative sulle sue abitudini, e nello stesso tempo affinano automaticamente le capacità dei sistemi di riconoscimento vocale. La frontiera successiva della renderizzazione, cioè della conversione della realtà in dati, è il cosiddetto affective computing, “analisi delle emozioni”: il riconoscimento, attraverso microcamere incorporate potenzialmente in qualsiasi oggetto, di espressioni e movimenti rivelatori di determinati stati d’animo.

La remuneratività dei prodotti predittivi è legata all’affidabilità della previsione, e il modo più sicuro per prevedere un comportamento è intervenire a monte determinandolo. Un esperimento nella direzione di quella che la Zuboff chiama architettura dell’esecuzione è stato il gioco Pokémon Go, che consisteva nel dare la caccia con lo smartphone, attraverso GPS e videocamere, alle creature virtuali che comparivano sullo schermo quando si raggiungeva il luogo reale – strade, parchi, negozi – nel quale erano posizionate. Il passo ulteriore rispetto a Maps è che qui non c’è più nemmeno la decisione iniziale di recarsi in un determinato luogo: è l’app che ci “ordina” ad esempio di raggiungere un bar il cui proprietario ha pagato per avere un Pokémon piazzato al suo interno. L’altro esempio di architettura dell’esecuzione sono i cosiddetti contratti smart, le cui condizioni si applicano automaticamente senza bisogno di intervento umano: porte di casa che non si aprono se si è in ritardo con l’affitto, premi assicurativi che aumentano in tempo reale se si corre troppo ma anche se si parcheggia per strada in una zona considerata degradata

Se ogni comportamento imprevedibile equivale a un guadagno perso, quella che si profila è una società della prevedibilità totale, in cui l’intera realtà diventa un’infrastruttura progettata per privarci della possibilità di decidere – in maniera più “confortevole” o più coercitiva, dalle più piccole scelte individuali quotidiane al livello politico, dove siamo già di fronte a un governo algoritmico, o data-driven come dice Draghi, in cui le decisioni vengono prese automaticamente sulla base dei dati, indiscutibili per definizione – nonostante dietro la loro presunta oggettività si nasconda in realtà quello che è stato definito il distillato del modo in cui in passato si è dato un ordine alla società. Quello che il capitalismo industriale ha fatto alla natura intesa come ecosistema, il capitalismo della sorveglianza minaccia di farlo alla natura umana intesa come volontà e capacità di decisione autonoma sul proprio futuro.

Indispensabile per il pieno dispiegarsi dell’internet delle cose, grazie alla velocità di trasmissione e alla capacità di gestire flessibilmente più connessioni in contemporanea (si pensi ai veicoli a guida autonoma, che non possono certo permettersi un ritardo del segnale, neanche di una frazione di secondo), è il cosiddetto 5G, cioè la quinta generazione della rete mobile, che rispetto alle generazioni precedenti non rappresenta solo l’ennesima evoluzione, ma un vero e proprio salto – tanto che intorno al controllo della filiera produttiva delle apparecchiature di cui si compone, strategica anche dal punto di vista militare, si è già scatenata la competizione fra le potenze mondiali. Il 5G utilizzerà diverse bande di frequenza, da quelle paragonabili a quelle utilizzate dalle generazioni precedenti fino a frequenze molto più alte (cosiddette onde millimetriche), con maggiore capacità e velocità di trasmissione ma minore copertura in termini di distanza, richiedendo così molti più ripetitori posti a breve distanza fra loro.

Nell’opuscolo non viene approfondita la questione degli effetti del 5G sulla salute umana e non, sia per insufficiente preparazione sia perché quel poco di opposizione che si è manifestata si è comprensibilmente concentrata su questo aspetto, lasciando più in ombra quello del controllo. È comunque da notare perlomeno il fatto che le stesse autorità – che non riconoscono nemmeno i danni causati dalle precedenti generazioni, nonostante numerosi studi di istituti accreditati – ammettono che non è possibile conoscere in anticipo gli effetti sulla salute una volta dispiegato l’internet delle cose coi suoi miliardi di oggetti connessi. Intanto, l’attuale ministro per l’innovazione tecnologica Colao (ex manager Vodafone, poi in Verizon, colosso americano delle telecomunicazioni), quand’era a capo della task force per il post covid del secondo governo Conte, ha chiesto di innalzare i limiti di emissione, adeguandoli a quelli dei paesi europei più permissivi. Sempre il secondo governo Conte nel decreto semplificazioni ha introdotto una norma che impedisce ai comuni di opporsi all’installazione di ripetitori sul loro territorio. E si sta già sperimentando anche in Italia, sulla scia di Elon Musk e Amazon negli Stati Uniti, il wifi da satellite, che promette di coprire tutto il territorio (letteralmente, dalle cime delle montagne alle isole più remote).

Nell’opuscolo vengono passate in rassegna le applicazioni delle tecnologie abilitate dal 5G in alcuni campi, a partire da quello del lavoro. Se nel dibattito pubblico si tende a concentrarsi sulla questione della disoccupazione tecnologica – certo non secondaria e che riguarda sempre più professioni che si sarebbero credute al riparo –, la prospettiva più immediata è quella di una crescente “polarizzazione” fra quello che la Zuboff chiama stretto clero di specialisti informatici e chi il lavoro lo conserverà ma si troverà “sotto l’algoritmo”, come i rider che stanno in attesa che lo smartphone dica loro – sulla base delle loro performance – se e quando potranno lavorare, o come nei magazzini di Amazon dove un paio d’anni fa si è arrivati a sperimentare braccialetti che vibrando “suggeriscono” alle mani del lavoratore i giusti movimenti – una vera e propria “robotizzazione dell’umano”. Gli scenari di controllo (aperti in Italia dal Jobs Act di Renzi, che ha sdoganato il controllo da remoto tramite dispositivi aziendali) vanno da software in grado di “scorporare” automaticamente dall’orario di lavoro tutti gli atti non direttamente produttivi, come andare in bagno o scambiare due parole con un collega, fino alla valutazione di sorrisi, espressioni e postura attraverso gli strumenti di “analisi delle emozioni” citati prima.

Per quanto riguarda le applicazioni più specificamente repressive, pensiamo a cosa può voler dire essere circondati non più solo da telecamere ma anche da oggetti apparentemente “innocenti” in grado di rilevare, “comprendere” ed eventualmente segnalare, in tempo reale e senza bisogno di intervento umano, tutto ciò che si dice o si fa nelle loro vicinanze… o a droni in grado di seguire e registrare i movimenti di un soggetto in maniera del tutto automatizzata e senza che questi possa percepire la loro presenza… negli Stati Uniti si sperimenta già l’applicazione dell’intelligenza artificiale anche alla giustizia: algoritmi che decidono – analizzando la sua storia personale – della liberazione o meno di un detenuto, e che arrivano a sostituirsi ai giudici, perlomeno nei casi meno complessi. Non è difficile immaginare quali possano essere le conseguenze per il diritto alla difesa di fronte a un giudizio come quello della macchina che è indiscutibile per definizione, pena l’invalidamento di ogni giudizio emesso dalla macchina…

I campi di applicazione, dalla scuola all’agricoltura, sono talmente tanti che è difficile coglierne tutte le implicazioni. Uno sviluppo che nell’opuscolo non viene trattato ma assolutamente centrale anche alla luce delle risposte alla pandemia e delle previsioni dei “piani di ripresa” è quello della cosiddetta telemedicina: colonizzata l’intera realtà, il mondo appena descritto si fa strada all’interno dei corpi. Intelligenze artificiali come Watson di IBM promettono diagnosi e indicazioni terapeutiche molto più affidabili di quelle dei medici in carne ed ossa, potendo analizzare tutta la letteratura e tutti i dati disponibili su una certa patologia; diagnosi che potranno essere fatte anche a distanza, attraverso sensori indossabili, sottocutanei o ingeribili che permettono un monitoraggio costante, e che possono essere usati ad esempio dalle assicurazioni sanitarie per controllare il rispetto degli stili di vita prescritti; tutto questo in combinazione con le bio- e nanotecnologie applicate alla medicina. È evidente che questi sviluppi vadano nella direzione di rimuovere definitivamente dal discorso sulla salute le nocività e le cause sociali delle malattie (vedi i presupposti del covid) a favore della “disincentivazione” se non criminalizzazione di comportamenti individuali non conformi (vedi le proposte di far pagare le cure a chi non si vaccina).

Due aspetti che mi limito a segnalare ma tutt’altro che secondari sono la divisione internazionale del lavoro, neocoloniale e strutturalmente razzista, che sorregge la “transizione digitale”, e l’impatto ecologico di quest’ultima. Dietro la retorica dell’immaterialità si nasconde, oltre a infrastrutture come i satelliti o i cavi sottomarini che fanno funzionare internet, uno sfruttamento feroce e gerarchizzato del lavoro e del territorio. Se le condizioni di lavoro nelle fabbriche di Shenzhen dove vengono assemblati gli iPhone (ma lo stesso vale per gli altri dispositivi digitali) hanno fatto loro guadagnare l’appellativo di “fabbriche dei suicidi”, i cosiddetti “metalli rari” indispensabili per tutte le tecnologie che stanno alla base della “transizione energetica e digitale” vengono estratti e separati dai materiali spesso radioattivi ai quali in natura si trovano mescolati attraverso procedimenti tali da condannare a morte precoce gli abitanti di intere aree del pianeta (e i loro ecosistemi). E a questo bisogna aggiungere il consumo energetico dato dalla digitalizzazione dell’intera realtà e la questione dei rifiuti elettronici. Inoltre, la crescita esponenziale della richiesta di materie prime come i metalli rari unita alla loro scarsità prepara i conflitti futuri (oltre a far già parlare di sfruttamento minerario dei fondali oceanici e dello spazio).

E veniamo così alla guerra. Se in un mondo interamente digitalizzato un attacco informatico – la cosiddetta cyber war – minaccia di avere conseguenze materiali più gravi di quelle un bombardamento, nel campo della guerra “tradizionale” la tecnologia ha già radicalizzato l’asimmetria al punto che ci troviamo di fronte da una parte il soldato americano che da dietro uno schermo decide della vita o della morte di persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza e poi timbra il cartellino e va a prendere il figlio a scuola, e dall’altra intere popolazioni costrette a convivere col ronzio dei droni nel terrore di diventare da un momento all’altro una delle tante “vittime collaterali” delle esecuzioni “chirurgiche”. Esecuzioni decise sulla base della cosiddetta analisi dei pattern di vita, cioè l’individuazione algoritmica dei comportamenti “anormali” rispetto a schemi abituali, e perciò sospetti. Il passo successivo sono i cosiddetti LAR, “robot letali autonomi”, in grado di uccidere senza controllo umano – e che comportano tra l’altro un’ulteriore “centralizzazione del comando” come la definisce Chamayou (l’autore di Teoria del drone), dato che programmarli equivale a determinare in una sola volta tutte le decisioni automatiche future.