L’organizzazione scientifica della vita. Hitler ha vinto? Sull’indissolubile rapporto tra scienza, guerra e potere

Riprendiamo questo articolo uscito sul numero 13 (luglio 2021) della rivista anarchica “i giorni e le notti”. La bomba che sta per esplodere – sotto forma di digitalizzazione della società, di conquista biomedica dei corpi e di soldati “geneticamente potenziati” – è stata innescata da tempo. Queste riflessioni sono un contributo «per chi sente il ticchettio».

L’organizzazione scientifica della vita. Hitler ha vinto?

Sull’indissolubile rapporto tra scienza, guerra e potere

L’ospite inatteso

Sembra che la bomba di un futuro disumano sia già stata innescata. Eppure per le strade e nelle piazze, nel brusìo dei nuovi non-luoghi digitali, mentre altrove altre ed altri si battono contro gli effetti della Transizione, suonano le trombe di chi il ticchettìo non lo sente affatto.

In una società sempre più digitalizzata e sempre meno umana nei suoi rapporti, nelle sue sensazioni e nel suo riconoscersi, non sorprende che le mobilitazioni eticamente inconsistenti siano uno dei suoi prodotti.

«Si capisce da sé – scriveva Anders – che sarà facile per quelle potenze che forniscono opinioni, atteggiamenti, emozioni en masse agli eremiti di massa, nei momenti in cui potrà sembrare loro più opportuno, per motivi politici, ritrasformare come per incanto la semplice “massificazione” in “massa” fisica: quella massa che, se ne avrà la necessità, si potrà sempre rifabbricare in una notte». Lo abbiamo visto a Capitol Hill e in diverse piazze del mondo digitalizzato. Ma se sono sempre state le masse reazionarie ad esigere uno Stato che “funzioni come dovrebbe”, pare che anche una certa critica antagonista viva dell’illusione che il funzionamento efficiente possa rendere giustizia in un mondo destinato a lasciar fuori ormai una classe degli esclusi sempre più numerosa. Tuttavia è quando subentrano le Certezze e Verità del mondo scientifico che le cose si fanno davvero allarmanti. Come per esempio nella distribuzione dei “nuovi vaccini”: «l’organizzazione sociale non è abbastanza veloce, non è abbastanza equa». Si affaccia una presunta neutralità che farebbe della scienza applicata una potenziale causa della libertà.

Da quando l’illusione marxista del superamento tramite la tecnica è andata a farsi benedire, questo polveroso concetto di scienza non può che essere, in senso rivoluzionario, un ospite quanto meno inatteso. Le mosse della tecnologia e della scienza, e dunque le conseguenze della sua applicazione, non possono più essere previste e controllate. E questo avviene a livello strutturale, per “noi” che siamo ignoranti ma anche per “loro” che sono esperti. La differenza è che per coloro che giocano con le sorti del mondo l’appagamento ha un sapore divino, mentre per chi ne subisce gli effetti i margini di comprensione ricordano perlopiù degli atti di fede. Se ci sono delle pagine scritte da celebri anarchici del passato che dovrebbero essere usate per scaldarsi l’inverno sono esattamente quelle in cui il progresso scientifico poteva presentare la possibilità rivoluzionaria di essere strumento di liberazione.

Dopo il suo fondamentale contributo alla costruzione della bomba atomica, Oppenheimer si mise a strillare – un tantino tardi – che coloro dai quali dipendono le «grandi decisioni» – uomini di Stato, militari ed esperti – si trovano in «una situazione tale da non poter agire altro che follemente e stupidamente». Una questione di potere e di poteri, che lui, scienziato in preda al pentimento, descriveva secondo il «carattere più angoscioso della conoscenza»: la sua «irreversibilità». Ciò di cui diceva essersi reso conto era che «l’idea di progresso scientifico [fosse] ormai indissolubilmente legata alla nozione di destino umano». Sarà più preciso, qualche anno più tardi, Nicola Chiaromonte riprendendo le sue parole: «Nessun acquisto di conoscenze, oggi, rimane puramente teorico: anche le più astruse costruzioni della matematica possono tradursi in mezzi per influenzare, modificare, o minacciare le condizioni dell’esistenza umana».

Ciò che sottostà all’oscurantismo scientista – quello che vorrebbe far tacere ogni dubbio, poiché “scientificamente” il dubbio non c’è e non ci deve essere – è la pretesa di distinguere Scienza e Tecnica al punto da illuderci che la “scienza teorica” – o “pura” che dir si voglia – possa assumere una sua neutralità. Possa dunque avere un suo determinismo, come se essa esistesse di per sé e non fosse prodotto umano. Come se i rapporti sociali non fossero stati determinanti per il modo di vedere e interpretare la natura, razionalizzandola secondo gli schemi della produzione e del profitto. Una razionalizzazione costruita da attori tutt’altro che neutrali, esattamente inseguendo il motto di Bacone e Descartes: «Sapere è potere». Leggendo certi avvenimenti con gli occhi bendati, l’inettitudine dell’essere umano solo a posteriori – con la rivoluzione del metodo scientifico – avrebbe “raggiunto” determinate conoscenze della “matematica del mondo naturale”. Ma questo può dirsi vero fin tanto che si resta nel campo dell’osservazione dei fenomeni. La tecno-scienza – applicabile e dunque inevitabilmente applicata – non osserva il mondo, lo modifica. A tal punto da non poter più fare altrimenti, perché è nelle sue tecniche implicitamente contenuta un’idea di società e di conseguenza un’idea di essere umano che possa farvi parte come collaboratore. Ed oggi non si può certo affermare che essa possa esistere al di fuori del suo momento operativo, quando è indubbio che la teoria scientifica è allo stesso tempo la sua prassi. Mentre ci troviamo a fare da cavie delle nuove tecniche di ingegneria genetica all’interno dei nostri corpi – in «fase di sperimentazione», nel senso stretto del metodo scientifico – l’evidenza ha superato l’ipotesi.

Di fronte alla posta in gioco, l’essenziale non è capire se l’utilizzo di una certa tecnologia sia “buono” o “cattivo”. Ma comprendere l’apparato per capire in quale tipo di mondo viviamo, e soprattutto quale è il tipo di esistenza a cui vengono spalancate le porte. Se per esempio ci si ferma a criticare la tecnologia di telecomunicazione di quinta generazione esclusivamente per i danni provocati dall’elettrosmog, non si fa che un favore alla controparte. Proprio perché in tali casi il ragionamento scientifico si ribalta affermando che «non ci sono prove scientifiche che dicono che determinate nuove tecniche possano avere effetti non desiderati». E se non si è pieni di volumi noiosi in cantina si resta con un pugno di mosche.

Ne consegue che solo interpretando gli sviluppi della tecno-scienza leggendoli attraverso la storia del potere può risultare più chiaro che sono proprio gli effetti desiderati quelli di cui deve essere percepito il pericolo.

Dovremmo forse affermare che le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki siano state in qualche modo “funzionali” a porre fine alla seconda guerra mondiale; e che dunque il rapporto costi/benefici del suo utilizzo sia stato favorevole? Non credo, se consideriamo gli scenari che si sono aperti. Eppure la scontro mondiale tra Stati ha trovato un suo equilibrio, ci dicono. Ci sarebbero stati più morti se quella bomba non fosse stata lanciata? Lasciamo la risposta al vento.

Ma il punto è un altro. Se la bomba atomica può non essere un buon paragone con le nuove tecniche di biologia sintetica per la sua potenza spettacolare – queste ultime sono infatti tecniche “mute”, ed essendo mute rendono muti i loro prodotti – lo è dal punto di vista della sua irreversibilità.

L’animale sperimentale che costava meno”

Il nazionalsocialismo non è

altro che biologia applicata.

Rudolf Hess, politico e vice di Hitler

Se c’è stato un tempo in cui lo scienziato aveva modo di rifiutarsi di fornire le proprie conoscenze per eventi così brutali come la guerra, oggi questo non è certo possibile perché la guerra stessa comincia nei laboratori e la sperimentazione è di già in atto. In altre parole, certi esiti sono già contenuti all’interno dei dati di una ricerca.

«Dal punto di vista strategico – scriveva Anders in un saggio sul finire degli anni ’50 – significa che tutte le azioni di guerra verranno “prodotte” e fatte scoppiare nelle retrovie: con il che naturalmente le retrovie smettono di essere retrovie e diventano il fronte». Un linguaggio che risulta familiare se si analizzano i discorsi politico-tecnico-sanitari degli ultimi due anni. E noi, al di là di farci impressionare dal linguaggio paurosamente militaresco della “guerra al nemico invisibile”, dovremmo valutarlo esattamente per quel che è. Di fatto anche l’espressione «il settore sanitario è stato militarizzato» – di certo non errata – ci può portare fuori strada, se non si analizza l’espressione a partire da un’analisi sul ruolo della Tecnica e dello Stato. Un’impostazione che ci trasforma già virtualmente in ingranaggi. Piuttosto può essere più sensato, se così si può dire, affermare che lo Stato si è predisposto operativamente nei settori che sono e saranno le fondamenta della società digitalizzata e tecnica. Per usare un’espressione metaforica, i camici bianchi che vestono i suoi “Rappresentanti della Sanità” vengono cuciti negli stessi spazi produttivi in cui si decide quando è l’ora di invadere un territorio per accaparrarsi le materie prime, quando è l’ora di alzare una nuova frontiera o di sganciare qualche bomba democratica.

La concezione hobbesiana dello Stato vuole che esso sia rappresentato attraverso la metafora del corpo umano, per il quale il funzionamento delle “cellule” – gli individui – è direttamente proporzionale al funzionamento dell’intero organismo. Quelle buone devono essere produttive, quelle infette devono essere eliminate.

Una metafora medica, nel senso scientifico del termine. A tutt’oggi questa è una metafora che non poco di frequente viene utilizzata, assieme al suo opposto: il corpo come uno Stato – dove le cellule buone sono i poliziotti ed i virus i nemici da combattere.

Non a caso tale metafora è stata utilizzata da moltissimi sistemi totalitari. Ma, se così si può dire, uno su tutti in una direzione tutt’altro che metaforica. È non solo «la trasformazione dell’uomo in materia prima», ma l’idea stessa che ogni individuo si risolva nel suo materiale biologico l’aspetto che più caratterizza il regime nazista, nonché ciò che permette di comprendere perché i medici fossero considerati dal Reich come «massime autorità». E tra una dichiarazione di guerra e l’altra può sfuggire l’enorme peso che la medicina aveva nel sistema nazionalsocialista. Un sistema che aveva raggiunto la fama di avanguardia mondiale nella lotta contro il male del secolo: il cancro. E non è un segreto nemmeno che si fece pioniere del bando delle sostanze inquinanti e delle campagne di massa contro il fumo. Appena divenuto cancelliere Hitler fece approvare una legge «sulla protezione della salute ereditaria» – che nei fatti era una campagna di sterilizzazione di tutti coloro che erano considerati come portatori di un basso «valore genetico».

Se il «Grande medico tedesco», come fu definito da diversi scienziati del Reich, aveva forse preso un po’ troppo alla lettera certe metafore politiche – sotto il regime, per amplificare il legame tra medicina e guerra non era poco frequente che gli indesiderati venissero identificati come «tumori» –, da un punto di vista tecnico non aveva certo la possibilità di un controllo capillare e totale tramite una rete digitale di informazioni in tempo reale. Ma i passi decisivi del controllo automatizzato già battevano la strada: Herman Hollerith, ingegnere, fondatore di IBM e considerato uno

dei padri dell’Informatica, aveva dato in mano ai nazisti la sua “macchina”, mostrando le nuove potenzialità di schedatura di massa delle “cellule” da eliminare. Per il momento, però, era certamente più efficace utilizzare milioni di persone già concentrate in luoghi circoscritti per poterle studiare. E quelle sperimentazioni servivano un progetto: l’eugenetica nazista era soprattutto un’idea che avrebbe salvato i «buoni geni» del Corpo- Stato, dove l’eliminazione degli indesiderati sarebbe stata solo una parte della “soluzione finale”, di un tutto che era l’organizzazione scientifica dell’umanità.

Tra medicina e mito del superuomo

Come è stato ingenuo e umano

il darwinismo quando ha riposto

«l’inumanità» solo nella

preistoria dell’uomo, paragonato

alla manipolazione dei

geni che potrebbero produrre

l’inumano, attraverso la produzione

di esseri che sarebbero

le «immagini perfette» o copie

di tipi desiderabili per motivi

politici, economici o tecnici.

Günther Anders,

L’uomo è antiquato, vol. II

Molti scritti hanno osservato in maniera precisa che il mutamento in atto, il quale utilizza come espediente l’Emergenza Covid, si può riassumere in una parola: digitalizzazione. Per entrare nel merito di cosa stia a significare bisogna però comprendere uno degli aspetti fondamentali dell’accelerazione in corso – alla faccia di un’economia “ferma”, si deve guardare piuttosto al suo movimento: l’essere umano come materia prima per una produzione di nuovo tipo. L’accelerazione della Transizione digitale è non solo evidente ma conclamata, e il fatto che a direzionare tale transizione vi siano vertici militari e tecnici della guerra non è casuale. Se la digitalizzazione della vita è il mondo in cui sfoceranno la medicina biotech e l’ingegneria genetica, è importante mettere insieme alcuni pezzi di quel mondo, un mondo immaginabile esattamente nella misura della diffusione endemica della tecnologia.

Come lo è stata la bomba atomica, il campo della biologia genetica può essere considerato oggi una nuova Luna nello scontro internazionale tra superpotenze. Sono ormai anni che gli Stati – seguendo il modello DARPA – hanno messo le mani sulle possibili applicazioni delle terapie geniche, tramite le tecniche di ingegneria genetica di gene doping e gene editing. E questo perché, nei teatri di guerra odierni, gli esseri umani stanno diventando un impiccio più che una risorsa. La carne non è più di qualità sufficiente per i cannoni del futuro. Non solo perché di fronte all’efficacia delle macchine le potenzialità umane risultano inefficienti – e la biologia genetica può aumentare la resistenza, la forza, la soglia del dolore, l’energia, migliorare la vascolarizzazione… –, ma anche per proteggere le truppe da armi chimiche e biologiche, o nuovi virus che vengono incontrati in territori poco conosciuti, «facendo sì che il genoma produca proteine che proteggano in automatico» (Dipartimento della Difesa americano). Seguendo la logica della DARPA (in italiano Agenzia per i Progetti di Ricerca Avanzata di Difesa), il processo consisterebbe nell’individuare quali siano i geni che si attivano per contrastare l’esposizione a determinati agenti – che siano virus o agenti radioattivi –, per poi trovare il modo di «stimolare il gene a produrre questa proteina prima che avvenga il contatto». Una sorta di “vaccinazione” preventiva. Il direttore della DARPA, per cui il ruolo della medicina e quello della guerra hanno lo stesso fine, dichiara che «se possibile, vogliamo che sia l’organismo umano a diventare una fabbrica di anticorpi»; in altre parole, se i soldati iniziano ad essere troppo svantaggiati di fronte alle macchine, bisogna rendere essi stessi macchine. E quando lo spettro militare è tecnicamente implicito ad ogni aspetto della vita, si capisce bene che questo è quello che sta già avvenendo per l’intera società. La dice lunga il fatto che queste siano le stesse tecniche utilizzate per la produzione dei “nuovi vaccini” contro il Covid. Così come è emblematico il fatto che l’idea del “Passaporto vaccinale” sia stata avanzata dalla Commissione Europea ben 20 mesi prima dell’inizio dell’epidemia Covid promuovendo l’autorizzazione di non meglio definiti “vaccini innovativi”. E non è fantascienza, oggi. Oggi che a studiare la minaccia zoonotica dei coronavirus nei pipistrelli – con il progetto Big One Health – è la stessa DARPA; oggi che vengono pensati programmi militari come Safe Genes, il quale per «prevenire e/o invertire i cambiamenti genetici indesiderati in un dato sistema biologico» prevede di utilizzare le stesse tecniche che avrebbero prodotto i danni; oggi che gli sviluppi del sistema di modifica genetica CRISPR, su cui si basa l’editing genetico, hanno imboccato la strada delle modifiche genetiche permanenti, aprendo orizzonti quasi sconfinati di potere; oggi che gli scienziati più ingenui acclamano ancora restrizioni legislative per le sperimentazioni sugli esseri umani, mentre il consenso di massa sulle scienze biologiche come “unica possibilità di sopravvivenza” (a cosa? A quale tipo di mondo?) sta superando ampiamente ogni dubbio. E se oggi si è forzati a vaccinarsi per poter “vivere normalmente” la propria vita – una Normalità che va di pari passo con la Transizione –, domani a quali tipi di modifiche irreversibili ci si sentirà obbligati a sottoporsi per poter vivere?

Tanto per tornare alle mitomanie del nazionalsocialismo, «Il vaccino AstraZeneca COVID-19 è stato co-sviluppato da Adrian Hill, che ha legami di lunga data con il movimento eugenetico britannico attraverso il suo lavoro con il Wellcome Trust’s Center for Human Genetics e l’affiliazione con il Galton Institute [organizzazione che prende il nome da Francis Galton, cugino di Charls Darwin e promotore della pseudoscienza per il “miglioramento del ceppo razziale”], precedentemente noto come UK Eugenics Society» (ilrovescio.info). Tra i finanziatori del Vaccino c’è anche Google. Ma le collaborazioni vanno oltre AstraZeneca: «In collaborazione con la Pfizer Foundation e IRC, Google sta contribuendo a espandere ulteriormente l’uso di mReach per i quattro miliardi di persone stimati che non hanno un indirizzo fisico e sono difficili da rintracciare. La tecnologia di Google fornisce indirizzi mappabili a luoghi che non ne hanno uno» (dal sito di Pfizer). Verrebbe da pensar male visti gli stretti legami tra Google e DARPA, abili nello scambiarsi vicendevolmente i dirigenti. Ma di certo non sfuggirà a nessuno che i dirigenti di Google sono i più influenti esponenti del movimento transumanista globale. Vi è però, nelle trame della più grande azienda di sorveglianza di massa della storia, anche qualche elemento in più. Già negli anni ’90 la CIA e l’NSA avevano capito di dover mettere le mani sul luogo in cui si stavano concentrando enormi gruppi di scienziati fuoriusciti dalle università, quello che sarebbe diventato noto come Silicon Valley. Era essenziale perché lì, qualcuno stava ideando il modo per dare «un senso intelligente» all’enorme quantità di dati raccolti tramite Internet. E lì, attraverso il progetto militare MDDS (Massive Digital Data System), CIA, NSA e DARPA –dietro la National Science Foundation (NSF) – dichiarano di voler «assumere un ruolo proattivo» finanziando le aziende che avrebbero potuto soddisfare le mutevoli esigenze che «richiedono che la comunità di Intelligence elabori diversi tipi e maggiori volumi di dati». La borsa di studio DARPA-NSF sulla «costruzione di un’enorme biblioteca digitale utilizzando Internet come spina dorsale» costituiva la risoluzione in chiave “antiterrorista” per scovare quelli che venivano definiti «uccelli di una piuma»: come stormi di passeri fanno bruschi movimenti insieme in armonia, gli esseri umani che la pensano allo stesso modo si sarebbero mossi insieme online. Gli studenti che ci lavoravano, superando di gran lunga le aspettative, erano Sergey Brin e Larry Page, poi fondatori di Google. Affermare che Google è stato una creazione militare è errato, ma non è errato affermare qualcosa che somiglia di più al suo contrario: ciò su cui hanno lavorato i tecno-scienziati Brin e Page – finanziati dal mondo militare – ha insegnato ai militari come fare meglio la guerra.

Oggi la NSF fornisce il 90% dei finanziamenti per la ricerca informatica universitaria americana (circa il 20% di tutto l’ambito della ricerca) e le ambizioni sono ben diverse, perché i “computer” sui quali si lavora stiamo diventando noi. Se mettiamo insieme gli obiettivi dei teorici della “Società guidata dai dati” – di cui il fine è il mondo-macchina agognato dai transumanisti – e la direzione dell’ingegneri genetica, risultano evidenti le finalità delle terapie geniche, della telemedicina, dei sensori biometrici indossabili, dell’accelerazione sfrenata della digitalizzazione. Qualsiasi progetto totalitario ha sempre a fondamento delle ideologie apparentemente emancipatorie. Forse la più pericolosa è proprio la pretesa neutralità della scienza. Che l’intero sistema della ricerca possa garantire questa illusione non deve stupire: è proprio questo il fondamento che nasconde l’applicazione della scienza dietro la “Libertà di Ricerca”. Si potrebbe pensare che questo è un poco esagerato. Invece bisognerebbe rendersi conto che se si vuole pretendere una sua neutralità, essa assume un valore deterministico che esclude qualsiasi etica, favorendo la produzione meccanicistica del mondo razionale, in cui ogni cosa deve seguire il suo corso fin nelle minime parti che compongono ogni corpo, e questo non è discutibile. Si innalza cioè la Scienza ad essere una sorta di anima della comunità, che va difesa ad ogni costo, anche se gli effetti della sua applicazione sono riprovevoli o discutibili: e se è la Scienza che “lo vuole”, ogni responsabilità di potere si frantuma.

Intanto, ogni giorno che passa sotto la sua bandiera, è un giorno in cui le modifiche senza ritorno della sua imposizione la rendono l’unico attore – poiché è l’unico capace di interpretare il mondo dapprima edificato – nella scacchiera della vita. Un fine di cui noi non siamo che i mezzi. Allora il rapporto costi/benefici si fa un tantino più complicato. All’alba della Transizione digitale sembrano scritte ieri le parole trovate sul diario personale di un medico che lavorava nel Blocco 10 di Auschwitz: «L’uomo era l’animale sperimentale che costava di meno, meno di un ratto».

In un tipo di mondo in cui è possibile modificare un essere umano a partire dal suo DNA, i confini tra ciò che è “sano” e ciò che è “patologico” seguono l’imperativo categorico della Tecnica – dove qualunque azione assume un’obbligatorietà quasi mai dichiarata ma simile ad una forma di obsolescenza dell’essere umano – e il concetto di “salute” diviene strettamente legato alle funzioni dell’apparato. Il treno sul quale viaggiamo distratti non sembra avere freni visibili, e l’idea del “potenziamento” – o meglio dell’adattamento del proprio corpo alle esigenze dell’apparato – va giorno dopo giorno integrandosi con quella di cura, e il tempo in cui saremo esseri naturalmente patologici non è distante. In tale scenario, sembra così piccolo il solo pensiero che determinati prodotti della tecno-scienza debbano diventare un «Bene Comune»; una forma di carità ben magra. Non serve aver visto Gattaca per comprenderne gli effetti sociali.

Dovremmo forse pensare che proprio lui, il nemico, venga a salvarci da ciò che ha prodotto? Che il macchinista sia pronto a tirare il freno d’emergenza per evitare lo schianto? Tuttalpiù se c’è qualcosa che si deve imparare, è che in questo mondo maledetto, tutto ha un prezzo. E le catene che stringono tra loro scienza, guerra e potere sono divenute inscalfibili. Se dunque chi ha potere è sempre pronto a giustificare la guerra, chi non ne ha dovrà essere pronto a sacrificare ciò che consolida e legittima il governo della scienza.

E forse inizia a non essere totalmente stravagante l’ipotesi secondo cui «sarebbe stolto sperare che le illibertà scompariranno con la fine del capitalismo che forse un giorno avverrà, dato che queste illibertà sono conseguenze della tecnica assai più che dei rapporti di proprietà». (G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II).

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L’organizzazione scientifica della vita