L’epidemia di Stato
Sotto la pressione incrociata dello Spettacolo, della Comunicazione e dell’Isolamento, il sapere critico entra in affanno, le evidenze che ciascuno con i sensi e l’intelletto è in grado di afferrare sembrano svaporare, mentre il nemico – di classe, della nostra specie e del vivente tutto – assesta in rapida successione i propri colpi. E ormai parecchie persone paiono non riuscire più a ritrovare il bandolo della matassa.
Filo robusto, ancorché da riannodare e da riportare alla luce, è quello della storia delle lotte e, lì dentro, le posizioni della corrente radicale, che mai ha concesso credito alcuno agli esperti di Stato. Quel filo ci disvela sorprendenti analogie storiche, e illumina la battaglia presente (contro l’«uso capitalistico del Covid-19»). Ecco un esempio delle perle che la pesca sovversiva riesce a scovare.
L’epidemia di Stato
«[…] i giovani militanti dei comitati di quartiere di Napoli parlano già di “uso capitalistico del colera”.
Ne parla persino una fonte “al di sotto di ogni sospetto” (“L’Ora”, 3 ottobre):
“nelle more della prossima stagione estiva, in silenzio, le industrie farmaceutiche, dopo aver perso la prima battuta e aver tardivamente fiutato l’affare, si apprestano a recuperare il tempo perduto, a produrre vaccino su larghissima scala, a prepararsi con diligenza al prossimo appuntamento con il colera. Con grande soddisfazione di tutti: degli industriali farmaceutici, per i lucrosi profitti che ne ricaveranno; della classe dirigente, per le benemerenze derivanti dall’efficiente arma di difesa che verrà offerta ai cittadini; di questi ultimi, per aver finalmente ottenuto quello che si vuole a tutti i costi far considerare l’unico mezzo per un’efficace prevenzione.
Se le cose dovessero andare realmente così, non occorre essere buoni profeti per prevedere che dopo una prima vaccinazione, la cui efficacia è – come è noto – del 50 per cento e dura soltanto alcuni mesi, ne occorrerà una seconda e poi una terza, una quarta e così via, all’infinito. Perché è evidente che, fintanto che non verranno rimosse le ‘vere’ cause dell’insediamento del colera in Italia, l’infezione seguiterà a stagnare e noi tutti dovremo adattarci a convivere con essa, vaccinandoci continuamente, quanto con scarso vantaggio, in perpetua rincorsa con il vibrione colerico”.
La ormai rituale metamorfosi da “salvatore” a sfruttatore è così compiuta.»
[Ettore Tibaldi, L’epidemia di Stato, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1973, pp. 29-30.]
Il contesto
Estate 1973: un’epidemia di colera colpisce Napoli, in particolare, e alcuni comuni pugliesi. Il bilancio sarà di 23 morti accertati, quasi trecento contagi.
Non era passato neanche un secolo dalla devastante epidemia del 1884, quando in Italia il colera uccise 14 mila persone, di cui circa la metà a Napoli, e molti ricordavano ancora cos’era poi successo nel 1910 (in città c’erano stati ben 111 decessi). Di conseguenza, nel capoluogo partenopeo si scatenò il panico e non mancarono le proteste per l’intervento tardivo delle autorità sanitarie. I cittadini non presero d’assalto solo le farmacie e gli ambulatori, alla disperata ricerca di un rimedio. I limoni assursero a elisir naturale contro il batterio. Non se ne trovavano più.
Il bacillo si chiama Ogawa ma fu definito da molti Gava per alludere alle responsabilità della Democrazia Cristiana, il cui governo aveva ridotto la città in condizioni spaventose anche dal punto di vista igienico-sanitario. Così si diffuse il colera, come fu giustamente rilevato da un comitato di lotta sorto in quei giorni: «Da dove è venuto il colera? Sovraffollamento, mancanza di acqua corrente, fogne scoperte [i tristemente famosi “lagni”], immondizie abbandonate nelle strade dei quartieri proletari: questo è il pane quotidiano per i microbi del colera e per quelli del tifo e dell’epatite virale».
Le risposte delle Autorità alla diffusione del morbo suonano oggi sinistramente familiari: disinfezione delle strade (testimoniata anche da diverse foto dell’epoca), chiusura degli stabilimenti balneari, sospensione dell’attività scolastica «fino al 21 settembre», divieto di vendita dei frutti di mare. Al che, i più ironici dissero: «È tutta colpa del mitile ignoto…».
Anche allora si ricorse a un’imponente campagna vaccinale. In prima fila i militari americani della NATO.
Su Ettore Tibaldi
Ettore Tibaldi (1943-2008), zoologo e studioso di questioni ambientali, nel 1973, oltre a pubblicare L’epidemia di Stato, collabora alla redazione di Mortedison, un progetto per un intervento contro la nocività, realizzato e gestito dall’Assemblea Autonoma di Porto Marghera, durante lo sciopero del 27 febbraio 1973, insieme col pittore Giovanni Rubino. Successivamente, pubblica Anti-ecologia (con prefazione di Dario Paccino, Edizioni Il Formichiere, Milano, 1975) e Il disastro nucleare (Collettivo Editoriale Librirossi, Milano, 1977). Nel 1977, insieme con Laura Balbo, rende pubblico il piano di evacuazione interprovinciale, in caso di incidente nella centrale elettronucleare di Caorso (Piacenza), piano coperto dal segreto militare («CONTROinformazione», suppl. al n. 7-8, settembre 1977). In quegli stessi anni, partecipa alla fondazione di alcune riviste come i «Quaderni di Osservazioni scientifiche per la scuola dell’obbligo» (Emme edizioni, Milano), «Sapere» (nuova serie), diretta da Giulio A. Maccacaro, e «Rosso Vivo. Contro lo sporco mondo del padrone», diretta da Dario Paccino.
a cura di LUT (Libreria Utopica Temporanea, Napoli) e Calusca City Lights (Milano)