Alcune valutazioni sulle piazze “no green pass”

Alcune valutazioni sulle piazze “no green pass”

Nell’ultimo mese la necessità di confrontarsi con compagni e compagne di altri paesi si è intensificata; lo scambio con persone con le stesse idee anche oltre confine si rivela fondamentale per avere una percezione più ampia di quello che sta accadendo. Anche se da questi confronti non possiamo avere una panoramica esatta, sicuramente aiutano a non guardare solo il proprio piccolo intorno. Spesso sono valutazioni prettamente individuali o di piccoli collettivi.

Una delle percezioni che spesso emerge è quella di non riuscire a tenere un discorso autonomo rispetto a chi in piazza ha concezioni reazionarie o prettamente “complottiste” della società; la paura di cadere nel calderone “negazionista” ha spesso bloccato i compagni dall’intervenire nelle piazze, oppure ha spinto ad arginare la presenza fascista con discorsi solamente antifascisti. Questo, in poche parole, è quello che ci han detto le compagne di alcune città del Nord Europa. Un’altra argomentazione è data dalla difficoltà di intervenire con dei discorsi propri vista la complessità dei problemi che ci pone la realtà circostante, della impreparazione rispetto a temi troppo vasti. La frase “è difficile” riecheggia spesso nelle bocche. In questo sito abbiamo già espresso il fatto che negli anni gli anarchici si sono espressi in modo radicale e articolato su temi effettivamente complessi come OGM, vaccini, nucleare, scienze varie e dannose, ma anche su giustizia, autogestione, salute, concetti che non sono da meno data l’ampiezza della ricadute sulla vita umana e i rapporti tra individui; se non ci siamo mai tirati indietro nella critica delle nuove nocività del capitale che passo passo ci venivano poste davanti a noi e a tutta l’umanità, non ci siamo forse mai posti a sufficienza il problema di immaginare una società senza carceri, tribunali e altre strutture autoritarie. Abbiamo sempre tirato fuori le nostre migliori capacità per riuscire a sgretolare le argomentazioni dei padroni, dei tecnici, dei politici e dei preti. Il coraggio non c’è mai mancato nel prendere posizioni scomode, minoritarie, che hanno centrato diverse volte quello che in questa fase storica dell’umanità si sta toccando con mano. Spesso le nostre valutazioni non erano errate bensì fondate. Sarebbe bello dire purtroppo, ma la realtà ci sbatte in faccia la verità della situazione.

Quindi le frasi “è difficile”, “è troppo complesso” non sono auspicabili, anzi sono frasi passive e non attive nel far sì che l’analisi sia propulsiva e non frenante. Noi dobbiamo da una parte cercare di avere un’idea il più chiara possibile di quello che sta accadendo, in modo tale da rintuzzare le argomentazioni deleterie dei nemici degli oppressi ed oppresse, e questo può avvenire se decidiamo di metterci di buzzo buono per far sì che le nostre idee emergano con forza, che abbiano una spinta propedeutica utile affinché sempre più sfruttati prendano coscienza della gravità della situazione e delle future scelte che dovremo in molti attuare per resistere alle nuove imposizioni sommate a quelle preesistenti ad ogni latitudine di questo pianeta.

Per chi scrive la presenza dei compagni e compagne nelle piazze è importante per vari motivi. Il primo è anche solo quello di ascoltare cosa pensa la gente, cosa la smuove e come argomenta la sua ostilità ad una nuova imposizione. A Trento, venerdì scorso, l’intervento di un compagno in cui si è espressa la necessità di resistere alla forza dello Stato con la forza nostra – anche violenta – ha ricevuto non solo un grosso applauso, che lascia il tempo che trova, ma anche una inaspettata vicinanza da parte di molte persone che singolarmente sono andate da lui a confrontarsi proprio su questi punti così solitamente poco recepiti nel Trentino pacificato. La differenza tra la violenza di Stato e quella di chi vuole resistere, è per una volta chiarita da quello che effettivamente le persone stanno subendo sulla propria pelle. Esporsi? Sì, per chi scrive è il momento di esporsi, di dire le cose come stanno perché forse qualcuno di incazzato in queste piazze c’è, anzi di sicuro c’è. Ed è qui che le nostre “classiche argomentazioni” possono rompere la composizione interclassista di queste piazze; porre il problema della solidarietà vuol dire anche prendere per il bavero chi è un arricchito ma è contro il “green pass”. Sarà, l’arricchito, come per un esempio un dirigente sanitario con la villa e conto in banca, disponibile a mettere dei soldi in una cassa di mutuo appoggio in solidarietà ai sanitari sospesi, che per la maggior parte sono OSS ed infermieri che di soldi in banca ne hanno ben pochi? Esternare queste questioni di classe può aiutarci a far sì che nelle piazze emergano nodi che in molti non si pongono e che noi dobbiamo sforzarci di far emergere, così facendo forse potremo avanzare nella solidarietà tra oppressi che va al di là delle singole esigenze, rompere la retorica dell’individualismo borghese con quello anarchico1.

Provocare le piazze è un modo per far emergere delle questioni, ma bisogna cercare di farlo con preparazione da una parte – quindi anche con un confronto il più ampio possibile tra compagni e compagne – ed una buona dose di coraggio. Di piazze applaudenti e gonfie di persone negli anni si sono viste, eppure i progetti del TAV, del nucleare, la privatizzazione dell’acqua, della sanità, gli attacchi al mondo del lavoro continuano senza subire contraccolpi o quasi. Dire apertamente che ora quei progetti sono deleteri e causa di situazioni come questa, il fatto che non si è avuta la forza nel tempo di fermare i progetti del capitale, non si è solidarizzato con chi di volta in volta è stato isolato perché aveva ancora attaccato gli uomini e le strutture di questa società malata, è un modo per stimolare riflessioni nelle teste delle persone che fino ad ora hanno fatto candidamente la loro vita senza porsi domande su quello che accadeva, e che solo ora che le proprie libertà individuali sono toccate da vicino si mobilitano. Per esempio a Bologna, il 24 luglio, la piazza urlava “Draghi Draghi vaffanculo”: a chi scrive quello sembrava il “rutto del popolo” che incapace di dire altro dice una ovvietà, se la prende con il presidente di turno, quando invece è tutta la struttura statale con cui bisognerebbe prendersela, ma la piazza non riusciva ad esprimere concetti di organizzazione, resistenza, confronto, la piazza non permetteva (mancava uno strumento audio decente) che si esprimessero ragionamenti articolati, quindi vai con i facili slogan “ignoranti”.

Ma non può essere questa una questione di rimprovero, perché deve essere affiancata da altro, cioè da una consapevolezza che ora è il momento della lotta più di prima, più forte di prima, dobbiamo dare il “benvenuto” nel mondo della repressione che noi come ribelli, anarchici e refrattari conosciamo già da tempo. I padroni e lo Stato stanno ampliando la fetta di popolazione sotto ricatto dopo averla impaurita per anni con le varie emergenze. Ora va diffusa la fiducia tra oppressi ed oppresse, vanno individuati i vecchi e nuovi nemici della libertà, i tecnici che apparecchiano la società avvelenata del futuro, e come altri hanno già detto, la distinzione tra “no vax” e “sì vax” è un gioco molto sporco in cui anche noi quando scriviamo, parliamo, agiamo, dobbiamo evitare di cadere perché può portare a conflitti deleteri ed estremamente pericolosi.

Un altro motivo per scendere in piazza è per rompere il fronte unico di chi è contro il “green pass” per motivi borghesi, per una mentalità da imprenditore che vuole solo farsi i profitti suoi anche se è nella parte bassa della scala degli sfruttatori. Per esempio la piazza del 27 luglio in Piazza del Popolo a Roma, organizzata da #ioapro e affiancata da ex forzanuovisti, era una piazza che molti giustamente hanno disertato; per chi ci è andato è stato interessante sentirne i discorsi di classe nel senso negativo, delle relazioni tra piccola borghesia imprenditoriale (palestre, ristorazione, piscine, bar) e l’estrema destra che si è proclamata apartitica (numerosi gli slogan contro Salvini e anche la Meloni), né di destra né di sinistra diceva, ma che inneggiava al popolo italiano che deve ribellarsi come l’ardito sul Piave con il pugnale tra i denti. Non occorrono commenti.

È il mondo del profitto che va distrutto ed è un mondo di libertà, mutuo appoggio e di equilibrio tra uomo e natura che va totalmente ripensato, il mondo della merce deve finire e se noi non andiamo a sbatterlo in muso alla gente non so chi lo farà al posto nostro. Le piazze “no green pass” non devono, anche qui, portarci ad un fronte unico, ma siamo noi che dovremmo andarci per rompere il piatto della zuppa preriscaldata dei vari riformismi (più cittadinisti-democratici o più “sovranisti”), dei pacieri che non portano a nulla, sconvolgere le coordinate delle piazze di opinione che vanno spinte alla ribellione. Questi tempi ci richiedono altre vie per far sì che la differenza tra legalità e illegalità diventi abissale, e che non c’entra nulla la retorica democratica legalista dello Stato, e di tutta la classe politica, con le esigenze delle persone sfruttate.

Andare in piazza anche per non avere il filtro della comunicazione dei media di regime, parlare con le persone è il modo migliore per avere percezione del clima attorno a noi.

Dopo questi primi giorni di mobilitazioni che hanno semplicemente espresso una contrarietà a parole, cosa successa in varie piazze europee con più o meno determinazione, dobbiamo trovare delle proposte locali, ma non solo, per resistere insieme a chi vuole battersi, con coloro che dicono che questi obblighi non li vogliono e sono pronti a fare cose che fino ad ora non avrebbero mai fatto. È qui che la nostra storia di anarchici può essere di enorme aiuto, per evitare i controlli e sviare la repressione, ma soprattutto per avere proposte concrete di lotta e solidarietà con chi perderà il lavoro e non riuscirà a campare, con chi rifiuterà un controllo sociale ancora più invasivo, con chi pensa che il sistema produttivo tecno-industriale sia effettivamente un problema, e forse anche con chi si rende conto che tutto questo vada rivoluzionato una buona volta e sa che per farlo non bastano le parole. È tempo di scelte: queste possono essere di svariato tipo, le strade sono molte e in Liguria recentemente degli anonimi compagni hanno dato segnali di attacco che scaldano gli animi e suggeriscono una delle vie. Far indietreggiare gli interessi di Stato e capitale, fargli capire che, indipendentemente da come andrà nelle strade, qualcuno ci proverà ancora e ancora a ribellarsi!

Un senso di forte tensione, di urgenza, detta le parole di scrive, come se il tempo stringesse. Questi sono brevi accenni a questioni che tra compagni e compagne sono sicuramente affrontati quotidianamente. Non c’è un’unica via, ma la necessità di capirsi, ritrovarsi, percepire chi si ha attorno e vuole battersi adesso è molto importante. Che lo scambio sia prolifico e che ci porti ad avere proposte idonee alla situazione sia come movimento specifico, per chi ancora ci crede, sia per chi vuole singolarmente mettere i bastoni tra le ruote. Ma è necessario dire la nostra in questo mondo con forza e risolutezza. La percezione è che delle orecchie aperte e mani pronte ci siano, e a volte sì, in certe piazze (non in tutte ovviamente), anche la rabbia è palpabile.

03.08.2021

Stecco

1Su questo punto sarebbe da tornarci sopra visto il testo, per chi scrive pessimo, Anarchia contro virus delle edizioni Zero in Condotta, in cui vien fatta confusione tra individualismo borghese e chi delle restrizioni statali non ne voleva sapere, ma che per questo non era un irresponsabile rispetto alla salute degli altri. Oppure rafforzare le proprie argomentazioni facendo esempi di come alcune collettività come nel Rojava e ad Oaxaca si sono organizzate per affrontare un problema sanitario omettendo che quelli sono territori in cui lo Stato non è presente, tralasciando, cioè, la necessità di lottare contro lo Stato e non accettare le restrizioni “sanitarie” imposte come salvifiche.

Breve nota: Ci è stato segnalato che le argomentazioni del libro non sono espressione della Federazione Anarchica Italiana, in quanto nel Gruppo Pandemico non c’è nessun federato.