La Grande Transizione (sul governo Draghi)

La Grande Transizione (sul governo Draghi)

Il governo Draghi non rappresenta soltanto l’ultima pièce nel teatro del camaleontismo politico (tutti insieme: sovranisti e liberali, destra e sinistra, garantisti e forcaioli, baroni dell’alta finanza e pretesi contestatori dei “poteri forti”…). Anzi, lo spettacolo, insieme grottesco e ributtante, dell’operazione in corso, condotta in nome dell’unità nazionale e della salvezza pubblica, è lì proprio per nascondere la logica e la portata di questo passaggio. Così come è decisamente riduttivo parlare di un futuro “lacrime e sangue” progettato per conto del capitale finanziario internazionale. Non siamo di fronte soltanto a una ristrutturazione degli assetti economici e politici, ma a ciò che nel linguaggio informatico dei tecnocrati si chiama formattazione. Per capirlo vanno osservati sia i ministeri “tecnici” di punta sia il quadro europeo nel quale si colloca la ricetta Draghi.

Possiamo sorvolare assai velocemente sui quindici ministri “politici” (sui Brunetta, sulle Gelmini, sui Di Maio ecc.). Le operazioni politiche che saltano più agli occhi sono: la conferma dei ministri della Sanità e dell’Interno, da un lato, e il cambio al Lavoro e alla Giustizia, dall’altro. Le conferme indicano che il modo in cui il governo ha attuato le direttive dell’OMS è piaciuto ai piani alti; lo stesso vale per la gestione dell’ordine pubblico, cioè la repressione di strada contro chiunque abbia anche solo provato a disturbare il confinamento sociale e quella selettiva contro i sovversivi. Alla Giustizia ora ci vuole invece una professionista (una Presidentessa della Corte Costituzionale) per rifare il trucco a un ministero responsabile di una vera e propria strage nelle carceri. Al Lavoro arriva il PD Orlando, perché la formattazione deve essere cogestita assieme ai sindacati confederali (i quali hanno subito fatto l’inchino al Banchiere). Il nuovo, come si dice, è altrove. E si chiama Transizione.

Al ministero per la Transizione Digitale troviamo Vittorio Colao (già a capo della task force creata dal Conte II per la “gestione dell’epidemia”). All’ex amministratore delegato della Vodafone sarà affidata non solo una parte consistente dei soldi del Recovery Fund, ma soprattutto l’incarico di spenderli secondo le direttive europee. Digitalizzazione, automazione, intelligenza artificiale sono le parole d’ordine. Il Banchiere lo ha già detto tanti mesi fa al Financial Times (solo i farabutti e gli allocchi fanno finta di aspettare il discorso ufficiale di Draghi per conoscere l’indirizzo concreto del suo governo): per rilanciare l’economia c’è bisogno di un potente intervento dello Stato – è il “debito buono” –, ma questo deve seguire direttive precise (per evitare il “debito cattivo”). Per colmare il divario tecnologico con gli Stati Uniti e con la Cina, c’è bisogno di ricerche all’avanguardia, di un’Università che produca innovazione hi tech e spirito imprenditoriale, e di una adeguata infrastruttura (5G e smart cities). Senza queste ultime la Macchina digitale non gira a pieno regime, e le grandi imprese dell’industria automobilistica non possono reggere la concorrenza internazionale: le auto a guida autonoma hanno bisogno di città-intelligenti disseminate di sensori. Oltre alle imprese, la digitalizzazione riguarderà tutti i servizi pubblici, Sanità compresa. Per non parlare della “guerra” dichiarata da Colao al denaro contante, ulteriore elemento di cattura da parte dei Big Data. Questa Transizione non assomiglia nemmeno lontanamente a una forma riveduta e corretta del vecchio keynesismo. Sarà una mannaia verso migliaia di “imprese zombie” e verso gran parte del tessuto produttivo orientato al consumo interno, condannato dallo spietato darwinismo del capitale. Basta vedere con che disinvoltura vengono bloccati gli impianti di risalita e il mercato del turismo. Non saremo certo noi a lamentarci per i danni provocati dai decreti governativi all’industria dello sci e al suo devastante impatto ecologico. Il discorso è un altro. A marzo, le grandi fabbriche del Nord sono state parzialmente chiuse ben due settimane dopo che l’Italia era già stata dichiarata “zona rossa”, e soltanto in seguito a un’ondata di scioperi operai. Subito dopo, migliaia di impianti produttivi hanno riaperto in deroga con delle semplici autocertificazioni. Per non parlare dei settori “strategici” – siderurgia e armamenti –, che non hanno mai smesso di funzionare. La distribuzione dei fondi europei seguirà, aggravandola, la stessa logica.

L’altra Transizione è quella “ecologica”, strettamente collegata alla digitalizzazione. Solo degli esseri umani che hanno perso qualsiasi contatto con il mondo possono credere che data center, satelliti, smart cities, 5G, automazione, informatica quantistica e intelligenza artificiale siano immateriali. La loro costruzione e il loro funzionamento si basano sull’accaparramento di terre e metalli rari, nonché sulla gestione degli scarti. Dietro tutto questo ci sono il giogo neo-coloniale, la guerra, l’inquinamento di aria e suolo, la trasformazione di intere regioni dell’Africa e dell’Asia in discariche radioattive a cielo aperto. Il cosiddetto Green New Deal non sostituisce ma si aggiunge alla depredazione delle risorse in atto per alimentare un sistema sociale sempre più energivoro. D’altronde, il legame tra digitalizzazione e guerra è ben rappresentato dal “tecnico” incaricato da Draghi a condurre la Transizione: Roberto Cingolani, dirigente dell’Istituto Italiano di Tecnologia e pezzo da novanta di Leonardo. L’industria 4.0 presuppone l’esercito 4.0, e viceversa. Alle linee produttive automatizzate corrispondono le operazioni belliche da remoto: l’equipaggiamento tecnologico e il sapere scientifico per farle funzionare sono interdipendenti e intercambiabili. Da questo punto di vista, il programma di Draghi ripropone in piccolo quello di Biden. Allo stesso tempo, un’Europa più digitale – dove andranno a collocarsi le “eccellenze” tecno-industriali italiane – è l’altra faccia dell’impero militare europeo (stretto tra fedeltà atlantica e ricerca di margini di autonomia geopolitica).

Che i 5Stelle abbiano parlato di un loro successo “ambientalista” per la creazione del “ministero per la transizione ecologica” è forse la commedia più immonda dentro questa tragica farsa. Ma chi, in settori di “movimento”, aveva invitato a votare il partito di Grillo per creare contraddizioni nella compagine governativa e ricavarne spazi di legittimazione istituzionale, dovrebbe avere oggi il buon gusto di tacere.

Potremmo dire, citando il poeta, che la politica istituzionale è da sempre «un tristo sacco che merda fa di quel trangugia». Lasciamo altri dolersi per la fine della democrazia rappresentativa (la grande ammucchiata attorno a Draghi assomiglia davvero al rigor mortis di un cadavere). Ma la Transizione avrà un impatto ben più radicale. Non solo in termini di attacco alle condizioni di vita di milioni di sfruttati, bensì nell’accelerazione verso il governo “cibernetico”: verso l’efficienza imparziale delle macchine e dei loro calcoli costi-benefici, da cui discendono le inevitabili ricette economiche, politiche e sociali. Draghi, salutato come deus ex machina, è in realtà egli stesso un epifenomeno, una intelligente rotella della Macchina.

Se la storia lontana e recente ci insegna che grandi moti di rivolta possono innescarsi anche da cause banali; se la sfrontata operazione Draghi potrebbe essere la classica pietra d’inciampo; se la fine di qualsiasi parvenza di opposizione istituzionale è per noi un elemento salutare; nessuna prospettiva di cambiamento radicale può fare a meno di cogliere logica e portata della Grande Transizione. Il nesso digitalizzazione-militarismo non comparirà per sovrammercato nello sviluppo di lotte sui salari, sulle pensioni, sugli affitti. Richiede i tempi e i modi e le parole dell’iniziativa autonoma.