Un’altra storia

Riceviamo e diffondiamo:

Un’altra storia

Esiste una storia della lotta contro il MUOS che non è mai stata raccontata. Una storia fatta di persone che qualche anno fa a Niscemi hanno respirato e cospirato insieme per scagliarsi contro la costruzione del M.U.O.S., un moderno sistema di telecomunicazioni satellitari della marina militare statunitense utilizzato per coordinare in modo capillare tutti i sistemi militari statunitensi dislocati nel globo. E’ una storia che racconta un periodo in cui la possibilità di intersecare la rabbia di ogni singolo individuo per canalizzarla verso forme di lotta e di conflitto concreti sembrava reale. Ma è anche una storia che ricorda, una volta ancora, che se non c’è una visione condivisa sulla critica all’esistente e sui diversi modi per minare gli ingranaggi che lo mantengono in vita, e se non c’è una condivisione sulla necessità e l’urgenza di orizzontalità e di autodeterminazione di ogni singola individualità all’interno di un gruppo di persone, non è possibile percorrere la stessa strada fianco a fianco. Il fine non giustifica i mezzi, se i mezzi non sono condivisi; e i mezzi sono anch’essi parte del fine. Quando una lotta introietta impietosamente le stesse dinamiche di potere “esterne” – che poi tanto esterne non sono – creando una divisione tra “buoni” e “cattivi” (dove i cattivi sono ovviamente le individualità più radicali, più libere e più avvezze ad ogni dinamica di esercizio del potere), è chiaro che non solo i metodi non sono condivisi, ma non lo è neppure il fine in sé. Quando un movimento di lotta tende a romanzare alcune azioni simboliche e autoreferenziali e chi le compie e nel contempo cerca di sotterrare quelle più radicali, dissociandosi e lasciando solo chi si trova a dover affrontare le conseguenze della repressione, hai la certezza assoluta che nulla possa più essere condiviso con certi individui e con certe dinamiche di movimento.

Questa storia mai raccontata però esiste, e crediamo che debba essere condivisa perché vive nel cuore, nella testa e sulla pelle di compagne e compagni che tuttora affrontano procedimenti penali pesanti in termini di anni di carcere richiesti dall’accusa. Questa storia – per niente spiacenti di deludere chi ci sperava – non verrà lasciata a marcire nell’oblio, così come chi fa parte di questa storia non verrà lasciato solo. Per questo motivo abbiamo deciso – se pur con qualche anno di ritardo – di far riemergere dagli abissi ciò che per anni è stato tenuto nascosto con malcelato disprezzo dai sedicenti portavoce del movimento no muos (i sinistri pompieri siciliani storici che si arrogano il ruolo di domare la rabbia sociale sin dai tempi della lotta di Comiso dei primi anni ‘80 per intenderci, nonché i loro aspiranti eredi alle prime armi, che in questo testo chiameremo sinteticamente il Movimento) che hanno trasformato l’ennesima lotta nell’ennesimo esercizio di potere e nell’ennesima propaganda politica autoreferenziale. Gli stessi capi popolo siciliani che da oltre 40 anni si ritengono i detentori della verità e dell’opportunità rivoluzionaria, che a parole si spendono a favore di un non ben precisato futuro alternativo, ma che nella pratica si spendono, in ogni frangente di conflitto, ad agire appunto da pompieri e da gendarmi con lo scopo di estinguere ogni anelito alla rivolta per poi decantare ai quattro venti la riuscita di questo o quel corteo; dove “riuscita” significa partecipazione folcloristica per la autorappresentazione di un movimento che nella pratica si configura solamente come il vecchio che non passa, come una dimostrazione simbolica di dissenso che non rompe con i meccanismi di controllo e gestione dell’esistente, lasciando perennemente in sospeso il come e il quando affrontare in maniera concreta e radicale il nodo del rovesciamento degli schemi d’oppressione.

Ebbene, a questi sinistri individui è sfuggito una volta ancora che in questo momento alcune compagne e alcuni compagni di Torino, Palermo e Niscemi sono sotto processo con l’accusa di aggressione e violenza a pubblico ufficiale e per aver impedito l’arresto di un compagno, con l’aggravante della radunata sediziosa (sic!), reati per i quali l’accusa chiede dai 3 ai 15 anni di pena. E di procedimenti in corso ce ne sono altri, tutti sottaciuti dal Movimento perché non idonei alla narrazione unica ed escludente dei loschi individui di cui sopra, una narrazione volutamente parziale il cui scopo è raccontare esclusivamente azioni simboliche preconfezionate, romanzate e date in pasto ai social, che dipingono la lotta contro il M.U.O.S. come una protesta pacifica e pacificatrice. Per questo motivo il Movimento ha raccontato e ancora racconta il 9 agosto del 2013 come “la prima CLAMOROSA occupazione della base” (un corteo nazionale che si è concluso con “un’invasione pacifica della base”) e non ha mai neppure menzionato la giornata di 4 mesi prima – il 22 aprile dello stesso anno – giorno in cui 6 compagne e compagni hanno tagliato le reti, eludendo la sorveglianza sia dei militari americani che della polizia, e sono entrati nella base occupando e danneggiando 3 delle 46 antenne già presenti all’interno della base prima del MUOS. Eppure quel giorno i graduati della marina statunitense si sono trovati costretti a spegnere le antenne NRTF – e con loro anche le comunicazioni militari; e, forse ancora più significativo, quello è stato il giorno in cui è crollato rovinosamente il mito dell’inviolabilità della base americana di Niscemi e della sua inattaccabilità. La stessa lunga, indimenticabile giornata di lotta in cui sono avvenuti i fatti relativi al processo in corso di cui sopra, e non solo quello. Qualche mese dopo, negli stessi giorni in cui il Movimento no muos rispondeva alla chiamata nazionale del movimento no tav in solidarietà a Chiara, Claudio, Mattia e Nicco accusati di terrorismo marciando per le strade di Niscemi a gran voce, si dissociava da una compagna fermata e denunciata con l’accusa di “attentato alla sicurezza dei trasporti con porto di armi od oggetti atti ad offendere” per via di alcune assi chiodate rinvenute sulla strada sterrata dove i mezzi militari e di polizia passavano per accedere alla base militare.  Sul piano mediatico e di facciata il Movimento imitava l’onda della solidarietà no tav ripetendone a pappagallo persino gli slogan più radicali, mentre nella realtà si dissociava da tutto ciò che non fosse un’azione simbolica, pacifica e pacifista.


In occasione di un paio di processi (questa volta presentabili secondo i sedicenti capetti, e quindi menzionabili) che dovrebbero iniziare a breve, il Movimento ha ripreso a parlare di repressione, se pur online (https://www.facebook.com/events/156549372708914/). Ma nel testo (in seguito cancellato, ma di cui conserviamo gelosamente la stesura iniziale) di questa iniziativa sulla repressione e sugli attuali processi in corso sono stati menzionati – per l’ennesima volta – solo ed esclusivamente i procedimenti adatti alla narrazione della fiaba di una lotta composta esclusivamente da individui che lanciano fiori contro la guerra e i suoi mostri. L’ennesima goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo e che ci ha spinti a scrivere questo breve testo per iniziare a raccontare anche un’altra storia. Una storia fatta di persone che hanno lasciato i fiori alla loro naturale bellezza per prendere dei sassi e scagliarli contro chi pensa di avere il monopolio della violenza e quotidianamente la usa, contro chi devasta e saccheggia il pianeta per poi costruirci basi e antenne militari, e per sabotare le loro smanie di guerra, sfruttamento e controllo. Ed è una storia che abbiamo cominciato a raccontare senza alcun sentimento vittimistico, ma con la rabbia e la determinazione di chi crede che debba rimanere viva nella memoria di compagne e compagni, perché la memoria è – e continui ad essere – un ingranaggio collettivo che aggredisce il presente.

Contro OGNI autorità
Per la libertà

Alcune e alcuni “sporchi, brutti e cattivi” che hanno attraversato contrada Ulmo