Sui fatti di Capitol Hill
Non ci uniremo certo anche noi al coro unanime sull’attacco alla democrazia, sulla ferita inferta alla storia americana delle libertà, sulla profanazione del tempio della rappresentanza popolare. Lo diciamo: non ci strappiamo i capelli per i danni causati agli oggetti e al mobilio del Campidoglio. Le nostre preoccupazioni sono diametralmente opposte. Quando una mobilitazione reazionaria – che da anni cova nel ventre marcio di questa società, negli Stati Uniti come in Europa – prende la forma della “sommossa”; quando migliaia di persone attaccano un “simbolo del sistema” urlando “Stati Uniti! Stati Uniti!”, quando sfasciano le attrezzature dei giornalisti perché “dicono menzogne” e “proteggono i comunisti”, nel campo dell’emancipazione – non solo in quello rivoluzionario – devono cominciare le riflessioni serie. Per entrare nel vivo dei problemi, però, bisogna sbarazzarsi con gesto risoluto di un paio di inquinanti mentali.
Nel racconto politico-mediatico, che svela il proprio gioco soprattutto quando qualcosa si rompe, esistono due categorie di esseri umani: da un lato quelli che “rispettano la democrazia”, dall’altro “i facinorosi”, “i violenti”, “i vandali”, “i terroristi”. Nel primo sacco c’è posto per tutti: per l’industriale e per l’operaio, per il suprematista bianco e per l’antirazzista, per il maschilista più becero e per la femminista. Idee, valori, interessi economici, condotte quotidiane: tutto questo esiste ma è inessenziale; a dare sostanza all’appartenenza o meno alla democrazia è il rispetto di certe procedure (e diciamo proprio “procedure”, perché parlare di norme è generico e fuorviante). Allo stesso modo, per venire etichettati come “facinorosi”, “violenti”, terroristi” è inessenziale il piano dei valori, delle idee, degli interessi economici, delle condotte quotidiane; la precondizione per uscire “dal dibattito democratico” ed entrare “nella violenza” è quella di non rispettare certe procedure. Se hai pagato la carta bollata per l’occupazione di suolo pubblico, sul tuo banchetto potrai raccogliere firme per le cose più aberranti – in quel caso la democrazia non corre alcun pericolo, perché la procedura è salva. La procedura non solo non coincide con l’etica (questo va da sé), ma nemmeno con la cosiddetta legalità. Un padrone che lascia coscientemente crollare un ponte per non perdere dei profitti, e provoca una strage, non sarà mai “un violento”, un “facinoroso”, un “terrorista”. Nemmeno l’amministratore delegato di una multinazionale farmaceutica che continua a commercializzare un farmaco pur sapendo che la sua assunzione ha già provocato dei morti. Anche in caso di condanna penale, costoro non usciranno dalla democrazia. Non solo perché la loro violenza colpisce da lontano. Non incorrerebbero nelle maglie di certi aggettivi sostantivanti – i violenti, i facinorosi – neanche se le loro vittime le ammazzassero personalmente. Le procedure della loro classe li proteggono. Quand’è che salta la proceduralità democratica? Quando interviene la piazza, la strada, il moto collettivo, anche se la violenza che in essi si sprigiona è una bazzecola rispetto a ciò che provoca quotidianamente – ma al riparo delle procedure – la violenza strutturale di questa società.
In questo linciaggio preventivo, poco importa che ad invadere e danneggiare il Campidoglio siano dei proletari, dei neri, degli antirazzisti in nome dell’uguaglianza oppure degli ultrà di un miliardario, dei miliziani del Klu Klux Klan, dei delusi delle promesse dell’imperialismo a stelle e strisce. La categoria acchiappa-tutto sarà la stessa. Ecco: senza sottrarsi a quell’apparato di cattura non si può capire né spiegare nulla. Tutt’al più si può deplorare.
L’altra trappola a cui è fondamentale sottrarsi è la denuncia o la lamentela del fatto che i poliziotti davanti al Campidoglio erano pochi e che hanno per lo più lasciato fare. Non è solo un’ingenuità, ma è proprio uno degli argomenti con cui il “sistema” cerca di portare sulla difensiva, nei ranghi democratici, il potente movimento che si è sviluppato dopo l’assassinio di George Floyd. (Questo è l’intento di Biden e dei numerosi addentellati che il partito democratico ha nella società, nella cultura, nei sindacati, nell’associazionismo antirazzista). Non vediamo in quello che è successo a Capitol Hill nessun piano golpista. Innanzitutto, è normale che un comizio lanciato dal presidente degli Stati Uniti – questo era il raduno iniziale – non abbia lo stesso trattamento di un corteo contro le violenze poliziesche. Ma è altrettanto normale – scendendo dal ruolo istituzionale della polizia al sentimento dei singoli agenti che la compongono – che gli sbirri abbiano più simpatia per coloro che hanno sempre difeso ogni loro nefandezza che per gli “anarchici”, gli “antifa”, i “comunisti”. E da qui – dal fatto che la polizia ha provocato quattro vittime tra chi vuole che l’America torni ad essere Grande – può cominciare la riflessione. Quei “martiri” caduti mentre si opponevano alla “Grande Truffa dell’elezione di Biden” conferiscono al sovranismo un volto davvero pericoloso (i cui effetti si faranno sentire anche fuori degli Stati Uniti). Pericoloso non per la democrazia – di cui è stato fino ad ora un suppletivo di legge e ordine –, ma per chiunque voglia farla finita con il capitalismo.
Trump ha ottenuto 74 milioni di voti. Non ci sono, negli Stati Uniti, 74 milioni di suprematisti bianchi militanti, né così tanti ricchi o semi-ricchi. Il che significa: la mobilitazione reazionaria di cui egli è coagulo ed espressione coinvolge milioni di individui che hanno gli stessi interessi immediati di tanti che hanno partecipato alla sollevazione contro il razzismo della polizia e le ingiustizie del capitalismo, ma non gli stessi sentimenti né gli stessi valori. I fatti di Capitol Hill aumenteranno la forza di richiamo “anti-sistema” del trumpismo anche in settori meno (o per nulla) borghesi. La dichiarazione di Trump la sera stessa degli scontri rappresenta forse il punto di tensione massima del sovranismo istituzionale (cioè del progetto politico di mobilitare il popolo a favore dell’imperialismo): “Vi capisco, ma andate a casa”. Gli altri sovranisti (Johnson, Le Pen, Salvini, Meloni…) hanno deplorato le violenze. Non è detto che dalle acque putride di una società sempre più impaurita, rancorosa e impoverita non emerga una forza politica che invece dica: “Non andate a casa”. Scenari, allora sì, di guerra civile.
Il modo in cui si risponderà alle misure governative sul Covid-19 (a partire dalla campagna “militar-vaccinale”) deciderà non poco in che direzione andrà lo scontro. Pensiamoci. Davvero.