Schermo su schermo. Riflessioni sui colloqui in videochiamata
Schermo su schermo
una riflessione sui colloqui in videochiamata
Raccogliamo qui alcuni nostri spunti di riflessione sull’imposizione dei colloqui in videochiamata che si è generalizzata negli ultimi mesi, a conseguenza dell’epidemia di Covid19, all’interno dei circuiti penitenziari di vari Paesi europei. Spunti di riflessione che, condivisi con chi leggerà questo nostro testo fuori o dentro le mura di un carcere, speriamo possano allargare le considerazioni rispetto alla portata di insieme che le nuove tecnologie hanno nella gestione dell’esistente e quindi anche nei suoi aspetti di controllo e repressione. Sia chiaro, tanto per cominciare, che su quest’argomento non abbiamo alcuna pretesa di stabilire comportamenti e scelte a cui attenersi in maniera assoluta: come scrive un nostro compagno dalla reclusione, “non si può giudicare da fuori, non è proprio possibile, e la nostra aspirazione ad un mondo senza galere deve tener conto di come si vive dentro”, ma al tempo stesso ci pare utile ed opportuno provare ad interpretare anche questo specifico passaggio tecnologico secondo una più ampia, e magari meno immediata, prospettiva.
Nel corso della cosiddetta “prima emergenza Covid”, abbiamo assistito nella società in generale all’applicazione di una serie di dispositivi le cui finalità sanitarie sono apparse decisamente secondarie (per usare un eufemismo) rispetto alla loro portata in termini di sperimentazione su vastissima scala di strategie di contenimento e segregazione della popolazione. Sperimentazione che, come dice la parola stessa e come sempre si verifica nei fatti, serve appunto perché, passata la fase emergenziale, elementi e condizioni di cui si sono appurati i vantaggi permangano in tutto o in parte come “normalità” da mantenere o come “possibilità” da riproporre, visto che già ci si è abituati all’idea, in caso di nuove emergenze, reali o vendute come tali.
Per non dilungarci troppo, lasceremo da parte le caratteristiche che questa sperimentazione ha assunto nel regime di detenzione domiciliare di massa imposto qua fuori, non senza però almeno menzionare – perché pertinente all’argomento di queste nostre riflessioni – la potente stampella che la tecnologia digitale ha offerto alle autorità (con non trascurabili profitti economici) per tenere la gente chiusa in casa: nelle strade militari, forze dell’ordine, multe, code e controlli; in casa l’anestetizzante surrogato on line, telefonico o televisivo di una vita reale temporaneamente vietata.
Come detto, in questo testo, ci siamo concentrati sul contesto carcerario, a volte specchio – negli estremi della reclusione – di quanto avviene fuori, a volte avamposto dove testare quanto poi si sviluppa sul sociale in ambito di controllo e repressione.
Mentre le guardie continuavano ad entrare ed uscire esponendo al contagio chi rimaneva, e le notizie su quanto accadeva fuori venivano veicolate dalla televisione attraverso un linguaggio di guerra, l’accesso al personale esterno non di custodia, ai volontari e agli autorizzati ai colloqui veniva prima limitato secondo le norme del distanziamento sociale (plexiglas, mascherine, ecc.) e rapidamente sospeso del tutto. In risposta, a inizio marzo, in molte carceri dello Stato italiano sono scoppiate proteste, rivolte e evasioni riuscite o tentate, con il prezzo altissimo di morti, pestaggi di massa, trasferimenti e intimidazioni su cui rapidamente è stato fatto scendere il silenzio ma di cui sarà bene non dimenticarsi mai nelle lotte che verranno.
Della concessione di telefonate e videochiamate “extra” per sostituire straordinariamente i colloqui di persona e, non dimentichiamocelo, per arginare le sacrosante proteste e rivolte di tanti reclusi/e si è scritto e detto abbondantemente (non parliamo poi delle cosiddette “scarcerazioni facili” su cui si è scatenata la canea politico-mediatica sulla pelle di donne e uomini lasciati ad ammalarsi nel patologico sovraffollamento degli istituti penitenziari). E possiamo riscontrare anche dalle corrispondenze che intratteniamo con persone recluse in varie prigioni non solo dello Stato italiano che generalmente, non senza eccezioni, la possibilità di comunicare “in remoto” è stata accolta piuttosto favorevolmente anche, ma non solo, come “male minore” rispetto al non comunicare affatto. Ancora dal nostro compa recluso: “chi ha i familiari lontano è contento che vi siano le videochiamate, anche se tutti abbiamo fatto la domanda di avvicinamento per colloqui… la videochiamata è un modo per vedere e per farti vedere dai familiari, ma sono certo che la stragrande maggioranza dei detenuti presserà per i colloqui ‘normali’…”.
È innegabile che nell’immediato, in una situazione critica, il surrogato tecnologico di un colloquio guardandosi negli occhi, di un abbraccio può alleviare la sofferenza del distacco e della mancanza. Ma sappiamo anche quanto studio e impegno il sistema carcerario dedichi a spersonalizzare il recluso/a, a rendere difficili se non impossibili i suoi legami con l’esterno, ad avversare espressioni e momenti di umanità che riescono, a fatica e anche con sofferenza, a sopravvivere all’istituzione totale.
Esattamente come fuori agisce il sistema autoritario, di cui il carcere è la più concreta espressione: distanzia le persone fisicamente, non permettere che si confrontino e interagiscano nella realtà, spezza i legami comunitari e potrà controllare gli individui, ed eventualmente reprimerli, senza una risposta collettiva.
In questo campo, le tecnologie di comunicazione digitale, dentro e fuori le galere, permettono al Potere un “salto epocale” verso un’esistenza sempre meno reale e sempre più dipendente da strumenti che solo una struttura politica ed economica che fagocita risorse ed energie, sfruttando popolazioni e territori può fornire. Perché, andando al sodo, proprio questa è la leva ingannevole su cui questo mondo tecno-consumista si fa forza: ti da qualcosa che magari nell’immediato ti può servire, far piacere o dare una certa comodità, ma se tu dovessi mettere sul piatto questi vantaggi con la nocività che comporta la sua produzione e con le conseguenze che causa il suo utilizzo, allora ti renderesti conto che il conto non torna. Fino a prendere coscienza che quella tecnologia che sui binari degli interessi del Potere ti offre ciò che prima era impensabile, di fatto riduce le capacità reali, umane di vivere e resistere. E ti viene poi difficile, passo dopo passo, riuscire a farne a meno o a sottrarsi dalla sua imposizione.
Tornando nello specifico all’ambito carcerario, non è certo degli ultimi tempi l’introduzione della comunicazione “in remoto”: i collegamenti per processi all’estero sono previsti per normativa da decenni, i colloqui via skype per reclusi in altro Paese rispetto allo Stato di provenienza dovrebbero essere accessibili come prassi consolidata, senza parlare dei processi in videoconferenza che, con una brusca accelerazione negli anni più recenti, hanno sdoganato definitivamente quella che era la consuetudine per i reclusi in regime di 41bis verso la sua applicazione in processi di varia natura e con imputati in differenti regimi di detenzione (addirittura è stato proposto per imputati colpiti dal solo “divieto di dimora” dalla città sede del processo).
Quello che per loro funziona diventa norma le cui ricadute si generalizzano: capita che il nuovo possa essere inizialmente presentato come opzione da scegliere o a seconda di casi specifici (processi per determinati reati, per la videoconferenza, o difficoltà e impossibilità di raggiungere il carcere dove è reclusa la persona cara, per i colloqui “in remoto”), ma si sa benissimo quanto breve sia, tanto fuori quanto in galera, il passo dall’opzione all’imposizione senza alternativa.
In questo caso ne è prova il fatto che, dalla riapertura dei colloqui “di persona” – ricordiamolo, sempre con norme di distanziamento che qua fuori negli scorsi mesi sono state accantonate – non mancano le pressioni perché le videochiamate rimangano la modalità prioritaria per la comunicazione tra reclusi/e e famigliari o aventi autorizzazione per il colloquio. Pressioni sostenute non solo da parte dell’amministrazione penitenziaria, ma anche da parte di reclusi/e o persone e organismi sensibili alle condizioni di prigionia, che perdono di vista a nostro avviso le conseguenze che la normalizzazione di tale procedura comporterà.
Insomma tra processi in videoconferenza e videochiamate, potrebbe non essere lontana la disgrazia per cui se si finisce in carcere non si potrà più vedere di persona, dal primo all’ultimo giorno della propria reclusione, una persona cara da fuori o facce amiche durante un’udienza in tribunale. E se è innegabile che i trasferimenti in occasione dei processi costano fatica, e soprattutto gli spostamenti dei famigliari per visitare un recluso magari in un carcere lontanissimo dalle loro case non sono certo – anche economicamente – passeggiate, proviamo a pensare cosa significherebbe dovervi a lungo rinunciare in cambio di un’immagine che scorre sullo schermo di un telefono.
Forse, nel tentativo di dare una risposta parziale, realisticamente percorribile, alla questione “videochiamata o colloquio in presenza”, potremmo fermarci sulla garanzia che ciascun recluso/a possa scegliere liberamente quale modalità adottare, ma ciò chiaramente non risolverebbe le criticità di fondo che fino ad ora abbiamo provato ad evidenziare rispetto al sistema tecnologico necessario allo straripante potere della comunicazione digitale. E del resto sarebbe assurdo pretendere che la sola popolazione reclusa sia chiamata a rinunce e prese di posizione che qua fuori, in una società ampiamente conquistata da queste nuove tecnologie, stentano a diffondersi ed esprimersi in comportamenti personali e collettivi conseguenti. Per cominciare, tanto dentro quanto fuori dalle galere, è da coltivare una lucidità critica rispetto alla natura e all’utilizzo della comunicazione digitale, alle nocività ambientali e sociali che questa comporta, agli obiettivi a corto e a lungo periodo che facilita ai poteri politici ed economici che la amministrano e nei fatti la impongono: solo a partire da una simile predisposizione potremo pensare forse di trovare modi e comportamenti per impedire che le nostre vite rimangano per sempre imbrigliate nelle reti di un assolutismo tecnologico senza via di scampo.
Mille modi un solo orizzonte: libertà!
Cassa AntiRepressione delle Alpi occidentali