Milano: Un racconto sul 26 ottobre in Piazzale Loreto

Riceviamo e diffondiamo:

Con ritardo tentiamo un racconto di quello che si è visto lunedì 26 ottobre in piazzale Loreto a Milano con il fine di abbozzare una valutazione a grandi linee su ciò che è stata quella giornata, sui motivi, sulla composizione e sulle conseguenze più immediate.

La chiamata è girata sui social e tramite messaggi nelle liste, attraverso diversi manifesti che invitavano a scendere in piazza con parole d’ordine generiche e che traevano ispirazione da quello che era accaduto qualche giorno prima a Napoli. A un occhio più attento era evidente come dietro ci fosse l’area della destra estrema: l’utilizzo di parole quali “ i milanesi”, la proliferazione di bandiere tricolori sui flyer di pubblicizzazione, la mancanza di rivendicazioni chiare che potessero indicare qualche precisa categoria lavorativa – settori che pure si erano già mossi nei giorni precedenti con presenze sotto la Regione – non ultimo i canali di diffusione utilizzati collegati all’ambiente degli ultras cittadini, riconducono direttamente a un humus reazionario e populista.

La scelta di una piazza come quella di Loreto, che si presenta di fatto come una grande rotatoria per automobili, ha reso difficile un iniziale concentramento visibile a tutti quelli che volevano parteciparvi. Si notavano vari capannelli agli angoli della piazza che attendevano che qualcuno prendesse l’iniziativa. L’arrivo di un nutrito gruppo organizzato che si è messo in strada su corso Buenos Aires ha dato il via al corteo, convogliando i tanti gruppetti sparsi in giro. Oltre all’assenza di striscioni e volantini, appariva chiara la mancanza di un discorso di qualsiasi tipo. Le uniche parole d’ordine scandite durante tutto il percorso sono state il grido “libertà” e dei generici insulti rivolti al capo del governo.  A questo punto è necessario entrare nello specifico di quello che è stato il ruolo dei fascisti nel contenere e gestire la manifestazione.

Fin da subito si sono contraddistinti come unica realtà organizzata che aveva bene in mente ciò che sarebbe dovuto essere quel corteo. La presenza di esponenti delle due maggiori curve cittadine, che a Milano sono in mano all’estrema destra, si è fatta subito notare attraverso l’uso massiccio di torce e petardi. Per il resto il ruolo fascista in piazza è stato quello di servizio d’ordine intorno al corteo e agli angoli dei principali incroci stradali, riconoscibile ed equipaggiato. Servizio d’ordine che ha ben funzionato nell’evitare che in Buenos Aires le vetrine venissero prese d’assalto dai manifestanti.
Fin dall’inizio l’aria è parsa subito frizzante, con ragazzi che hanno cominciato a rovesciare cassonetti e a prendersela con l’arredo urbano. Appena qualcuno ha tentato di colpire una vetrina, il servizio d’ordine si è palesato e ha subito chiarito che tali azioni non sarebbero state tollerate. Le spiegazioni date sul perché non si dovessero attaccare le vetrine, tendevano a comparare le ragioni dei manifestanti a quelli dei proprietari delle boutique che costellano i marciapiedi di corso Buenos Aires.
Se la destra estrema cittadina chiamata in piazza dalle curve ha avuto il ruolo di contenitore e controllore visibile, d’altra parte il corteo è stato animato da giovani e giovanissimi provenienti dalle periferie e dall’hinterland milanese, molti dei quali figli di immigrati nati in Italia. L’ipotesi sul perché sia stata tollerata non solo questa presenza, ma anche quella dei compagni risiede probabilmente nella volontà di chi ha fatto quella chiamata di mostrare e mostrarsi come piazza a livello nazionale – dopo Napoli e Roma dove Forza Nuova è addirittura scesa in strada senza sotterfugi con i propri militanti e i propri simboli. Il discrimine che hanno posto è stato più che sul chi potesse partecipare alla manifestazione, sul come si dovesse farlo.

Il corteo si è mosso seguendo tendenzialmente i diktat della sicurezza interna fino al palazzo della Regione, senza venire a contatto con la polizia che si teneva a distanza, salvo sporadici attacchi a volanti, che si trovavano isolate, da parte di chi attraversava le strade in maniera non organizzata.
Un dubbio sorge spontaneo e, anche se difficilmente si potrà trovare riscontro, va comunque menzionato per avere un quadro il più aderente possibile alla realtà. La sensazione è che il corteo fosse stato informalmente autorizzato fin sotto il palazzo della Regione e che le curve organizzate abbiano garantito alla controparte che non sarebbero stati superati certi limiti, assumendosi il ruolo di tutori dell’ordine.

È da anni che un corteo selvaggio non riusciva a prendersi corso Buenos Aires senza scontrarsi frontalmente con la polizia.

Una volta arrivati sotto la Regione si sono trovate a tutela del palazzo le camionette della celere che sono state bersagliate da lanci di bottiglie, petardi e sparute molotov. La polizia ha risposto con un fitto lancio di lacrimogeni e con qualche corsetta di alleggerimento, senza mai venire comunque in contatto con i manifestanti. Qui da segnalare il fatto che la componente dell’estrema destra è subito scomparsa, ad avvalorare la tesi dell’accordo tra curve e Questura. Il corteo si è quindi disperso in tanti gruppetti che hanno continuato a girovagare per la città inseguiti dai lacrimogeni della polizia, senza sapere bene dove andare, illuminando una mancanza di conoscenza pratica su come stare in strada e tutelarsi assieme.

La serata si è poi pian piano spenta. La polizia, rotto il fronte del corteo, ne ha approfittato per effettuare numerosi fermi, per lo più di ragazzi minorenni e stranieri che saranno rilasciati solo la mattina successiva con denunce per resistenza e corteo non autorizzato.

Dopo quella giornata la sensazione che potesse accadere ancora qualcosa è cresciuta e si sono susseguite numerose chiamate che tentavano di ricalcare e richiamare la serata del 26, utilizzando gli stessi slogan generici e facendo leva più su un immaginario di protesta che su dei contenuti specifici. Ci pare però che difficilmente sarà ripetibile quanto successo quel giorno, risultato di diverse condizioni specifiche del momento, non ultimo il comportamento “tollerante” delle forze di polizia che ha deciso di avere un atteggiamento completamente opposto già il sabato successivo quando, ad una chiamata simile sempre in piazzale Loreto, la Questura ha risposto posizionando 10 camionette, fermando chiunque si avvicinasse, chiedendo i documenti, non permettendo dunque che ci fosse un concentramento e occupando preventivamente lo spazio urbano.

Tentiamo ora di abbozzare qualche ragionamento che potrà sicuramente essere smentito, non potendo un singolo evento essere l’unico elemento per far teoria.

La presenza dei fascisti come primo tratto caratterizzante non solo della piazza milanese, ma anche di molte altre piazze a livello nazionale dovrebbe, come minimo, farci pensare. È innegabile che esista una migliore aderenza dei discorsi portati avanti dall’estrema destra e gli interessi di categorie lavorative che richiedono allo Stato un ritorno alla normalità, che si sostanzia soprattutto di tranquillità economica e possibilità di fatturare.

Nonostante a Milano il 26 ottobre non fossero presenti questi soggetti, dovremmo come compagni e compagne interrogarci se esistano dei punti di contatto, e quali siano, tra un nostro possibile discorso rivoluzionario sulla situazione che stiamo vivendo e queste persone, espressione di una piccola borghesia che va via via impoverendosi e che tenta, con i suoi appelli allo Stato, di resistere all’immiserimento economico. Oltre al problema della penetrazione dei discorsi fascisti nel cuore del malcontento sociale contingente, esiste per noi anche una non rimandabile questione di spazio di azione, non solo dei nostri discorsi, ma anche delle nostre pratiche. In diverse città italiane i compagni e le compagne si sono trovati a dover fronteggiare “militarmente” la presenza fascista in piazza arrivando in alcuni casi a fare delle vere e proprie risse.

L’altro dato che ci va di sottolineare è appunto la presenza di giovanissimi provenienti dai quartieri più popolari di Milano, invogliati a scendere in piazza forse dalle immagini della protesta napoletana e dall’immaginario creato dalle rivolte che a livello globale hanno investito diversi Paesi negli ultimi anni.

Questa componente, che non ha parole d’ordine proprie, né rivendicazioni, non ha mostrato di avere troppa praticità nello stare in strada e affrontare la polizia insieme, la quale può nascere solo da situazioni che purtroppo, a Milano, non sono state frequenti.

Per quanto riguarda la mancanza di rivendicazioni, si può presumere che per ragazzi molto giovani, tanti dei quali figli di immigrati, con problemi economici in famiglia e con davanti un futuro che definire catastrofico pare un eufemismo, sia difficile immaginare qualcosa da richiedere a uno Stato che li ha sempre considerati invisibili, quando non li ha definiti delinquenti.

Inoltre, lo straniamento si amplifica per coloro i quali, ancora minorenni, non è stata risolta la questione sulla legittimità di restare, dato che la legge prevede che il figlio di immigrati nato in Italia al compimento del diciottesimo anno debba conquistarsi, tramite la buona condotta sociale, la cittadinanza o, quando va male, un temporaneo permesso di soggiorno.

Possiamo solo immaginare il disagio di chi, cresciuto in un determinato paese occidentale, venga continuamente considerato straniero e su cui continua a pendere il ricatto della reclusione nei Cpr e una possibile espulsione verso un dove decisamente ignoto.

Sarebbe interessante per noi trovare dei punti di contatto con questi ragazzi che ci sembrano più dalla nostra parte della barricata piuttosto che il proprietario di discoteca che chiede allo Stato di poter lavorare.

La scommessa sul futuro ci pare essere quella dell’incontro tra segmenti della società che potrebbero dare vita a rotture più o meno durature, che mettano in crisi definitivamente la narrazione dell’essere tutti sulla stessa barca e che pongano, in un momento eccezionale di pandemia, la questione della classe. I segmenti che possono dar vita a queste fratture sono quelli non recuperabili dal capitalismo, quei ragazzi che vivono di economia interstiziale, chi non ha i giusti documenti e chi è in generale espulso da questo sistema sociale. C’è poi chi viene tenuto sulla soglia tra inclusione ed esclusione, come ad esempio i rider o i lavoratori della logistica, utili al capitale e alla metropoli per essere sfruttati a cui non viene totalmente negato a livello ideale un orizzonte di partecipazione.

Ultimo dato che, a malincuore, ci tocca sottolineare è che, a confronto con le altre piazze a livello italiano, la risposta di Milano sia stata tiepidina. Lo dicono prima di tutto i numeri dei partecipanti che si attestano sui 300, decisamente pochi per una metropoli.

Lo ribadisce poi il flop delle chiamate successive, tutte più o meno anonime, che non sono riuscite a visibilizzarsi, né a incidere, anche per il lavoro preventivo fatto dalla polizia.

Al momento il 26 ottobre sembra essere stato un evento eccezionale, verificatosi forse sulla spinta di immagini e notizie provenienti da altre città, ma sicuramente espressione di un malcontento reale percepito.
Il futuro di crisi e miseria che ci attende fa presumere che non sia finita qui. Il lungo e selvaggio sciopero dei rider degli scorsi giorni ce lo dimostra.

Sta come sempre a noi essere capaci di cogliere le rotture che si presenteranno.

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