Centrare il punto

Centrare il punto

Quando si dice “centrare il punto”. Questo viene da pensare vedendo le immagini dei cortei (e degli scontri) della serata di venerdì 23 ottobre a Napoli, quando migliaia di persone si sono riversate nelle strade e nelle piazze del capoluogo partenopeo violando la prima notte di coprifuoco. Ciò che colpisce, oltre alla rabbia e alla determinazione (non capita spesso di vedere l’antisommossa in fuga, in questo Paese), è la lucidità delle rivendicazioni. Non complottismi e paranoie sulla “dittatura sanitaria”, sull’epidemia inesistente o creata ad arte da lobby più o meno fantomatiche, su piani di controllo orditi da chi sa chi, ma un semplice ragionamento che coglie la contraddizione materiale della situazione: “tu ci chiudi, tu ci paghi”, come recitava uno degli striscioni (mentre altri esprimevano, con parole diverse, lo stesso senso). Tutta la società è in questo momento stretta in una morsa, tra la paura di morire di virus e la paura di morire di fame. L’epidemia di Covid19 ci sta mostrando come “l’economia”, lungi dal consistere in astratti indici di borsa e flussi immateriali di informazioni, non può andare avanti senza i corpi degli esseri umani (all’opera nelle fabbriche, nei magazzini, negli uffici, nei ristoranti, e ammassati sui mezzi pubblici per raggiungere i loro posti di lavoro). Temendo disastrosi effetti economici (ma soprattutto i loro contraccolpi sociali), l’attuale governo esita a proclamare un nuovo lockdown totale e ripiega su misure vessatorie e inutili, accanendosi in particolare sulla dimensione dello svago e della vita notturna. Ma tra l’ideale repressivo di una società completamente disciplinata (tutti in casa dopo le ore 18, o le 20, o le 23, al termine della “normale” giornata lavorativa) e la sua attuazione, si frappone l’ostacolo che lo svago stesso è una risorsa economica, e lo è ancor più nel Paese “della pizza e dei mandolini”. Il risultato è l’ennesimo corto circuito, e la richiesta allo Stato di una coerenza impossibile tra ciò che esso è e ciò che pretende di essere. Nel discorso che fa su se stesso, infatti, lo Stato si presenta come il tutore del “bene” di tutti: la sua principale funzione sarebbe garantire gli “individui associati” da se stessi, laddove il capriccio individuale potrebbe compromettere il benessere collettivo (nella specificità attuale, trasmettendo il contagio). Ma che valore può avere questa pretesa, se si mette una larga fetta di persone nell’impossibilità di mantenersi “guadagnandosi” la sopravvivenza, ovvero lavorando? Lo Stato potrebbe dimostrare un minimo di coerenza solo mantenendo una gran parte della popolazione fino al termine dell’epidemia (e siamo ben lontani da intravederne la fine). Ma questo, oltre a mettere a dura prova le “finanze pubbliche”, è sostanzialmente incompatibile con il capitalismo, che si fonda proprio su quella privazione dei mezzi di sussistenza che lo Stato preserva e riproduce. Dove andrebbe a finire la competitività? A ben vedere, questa contraddizione non è che la “punta dell’iceberg” di un sistema che si sta avvitando su se stesso. Se guardiamo a tutto ciò che l’umanità ha patito nella sua storia, il livello di sconquasso provocato dal coronavirus appare semplicemente stupefacente. Com’è possibile che un sistema mondiale se ne vada a ramengo per una malattia la cui mortalità si attesta tra lo 0,2 e lo 0,6 per cento dei malati (cioè i contagiati con sintomi)? Senza voler banalizzare niente, men che meno il dolore (che ha peraltro un’evidente distribuzione di classe), bisogna pur prendere atto che un milione di morti in un mondo di 7 miliardi e mezzo di esseri umani è niente a paragone di analoghe tragedie della storia (la cosiddetta “influenza spagnola” ne fece almeno 50) o dell’attuale mortalità per cancro e malattie cardiovascolari. Perché allora tanto allarmismo, che genera delle “cure” peggiori del male? La risposta è probabilmente antropologica, ovvero legata alla trasformazione culturale e sociale degli esseri umani nell’ultimo secolo. I progressi della medicina e più in generale della tecnica hanno conseguito successi notevoli contro le malattie infettive, abbassandone drasticamente la mortalità almeno nella parti più “progredite” del pianeta. Il Covid19 non fa eccezione: se non si tratta di “una semplice influenza”, sono le stesse statistiche a dirci che da esso, nella gran parte dei casi, si può guarire. A far difetto, più che le tecniche in astratto, è la loro disponibilità concreta. Per dare un’idea, negli ultimi trent’anni i posti letto negli ospedali italiani sono passati da 8 a 3,2 ogni mille abitanti, laddove per “letti” non si intendono solo i materassi e le brande, ma la relativa strumentazione (come i macchinari di ventilazione) e il personale medico. Se la morte è sempre uno scandalo, delle morti che potrebbero essere evitate sono un vero e proprio sconcio. Da questo punto di vista, la crisi del Covid è illuminante, e ci dice molto sulle sorti di questa organizzazione sociale. Da un lato abbiamo il progresso delle scienze che, se spesso sanno intervenire brillantemente sui problemi, non ne affrontano e non ne rimuovono mai le cause; dall’altra la logica del profitto, che rende le scienze stesse praticamente inefficienti. Senza ripetere nuovamente il ragionamento sulle cause strutturali dell’epidemia (dagli allevamenti intensivi alla distruzione dell’ecosistema, passando per gli spostamenti just in time del mondo globale), è certo che lo smantellamento degli ambulatori di quartiere ne ha incrementato la propagazione, impedendo un tracciamento efficace e trasformando i pronti soccorsi nei principali focolai di contagio. Figlia del capitale, la medicina più avanzata viene resa inoperante dal capitale stesso. La contraddizione non finisce di avvitarsi: la rincorsa alla cura del Covid sta provocando il rinvio di visite mediche e cure per milioni di pazienti (malati di cancro compresi), destinando molti di essi alla morte. Di fronte a un tale groviglio di problemi, risolverne alcuni senza aggravarne altri è impossibile, e ogni “soluzione” ipotizzabile è inevitabilmente cinica e azzardata. Mentre i complottisti risolvono il problema negandolo (l’epidemia non esiste), il governo lo “affronta” nel solo modo che conosce e sa attuare, ovvero militarizzando ulteriormente la società e strangolando la libertà delle persone. Si tratta, a ben vedere, di due modalità speculari e complementari di rimuovere una questione irrisolvibile, poiché costituita da aspetti che semplicemente non possono ricomporsi. Se da Napoli è partita la scintilla che sta incendiando le piazze di mezza Italia, questo è successo perché da quella rivolta si è sprigionato un’intelligenza semplice e vivace che ha squarciato tanto la stupidità paranoica dei complottisti quanto l’ottusità poliziesca del governo: l’unico modo per cominciare ad affrontare quella contraddizione in processo che è il capitalismo non è tentare di risolverla (rimuovendola o contenendola) ma semmai cercare di aggravarla, affermando chiaro e tondo che “non siamo tutti sulla stessa barca” e che alcuni interessi non possono convivere con altri. Se in questi giorni, nelle piazze di Napoli, c’erano almeno due anime (da un lato i bottegai che volevano delle manifestazioni pacifiche, dall’altra il sottoproletariato che si è scontrato con la polizia), la sana brutalità del “tu ci chiudi, tu ci paghi” ha costituito quella prima rottura che ne ha subito innescate altre. “Trovare le soluzioni sta agli uomini dei palazzi, noi vogliamo vivere”. Una scelta di parte contro la retorica della “responsabilità collettiva” che indica l’unica strada percorribile: quella della lotta di classe.