Intervento all’iniziativa “Non bastano le sbarre per rinchiudere l’anarchia”, in solidarietà con gli anarchici imprigionati e imputati nel processo Scripta Manent. Genova, 26 settembre 2020

Riceviamo e diffondiamo:

Intervento all’iniziativa “Non bastano le sbarre per rinchiudere l’anarchia”, in solidarietà con gli anarchici imprigionati e imputati nel processo Scripta Manent. Genova, 26 settembre 2020

E’ importante la nostra presenza qui oggi, nonostante in gran parte della città ci siano vari divieti di manifestazione e di assembramento.

Oggi siamo qui per far conoscere la situazione dei nostri compagni prigionieri, i processi repressivi che colpiscono i rivoluzionari e denunciare le mani sporche di sangue della democrazia.

Ci vogliono far credere che si è liberi, che i mali del mondo chissà da dove arrivino, che solo chi comanda, le istituzioni, sono sia la causa incidentale di quei mali sia la cura.

Esistono i responsabili, però. Esistono le élite di potere, le classi privilegiate, i padroni e chi comanda e poi un mare di esclusi e sfruttati. Parte della verità che sta in questo mondo la si vede ogni volta che gli Stati sono messi alle corde in questa contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori.

Vediamo l’esempio degli Stati Uniti d’America che si fanno baluardo della libertà, giudicano la repressione di altri Stati e Governi mentre in casa propria uccidono a sangue freddo e reprimono le rivolte, gli scioperi e le proteste contro la violenza della polizia. Lo stesso vale ovunque, anche per l’Italia: manifestazioni radicali che provano minimamente a violare regole e accordi con la polizia vengono caricate dall’antisommossa, volano denunce. Gli scioperi fuori dagli accordi tra sindacati e padroni – soprattutto dei sindacati zerbini degli industriali CGIL, CISL e UIL – vengono repressi dalla polizia coi manganelli. Partono le minacce e i licenziamenti ai lavoratori. Ricordiamo anche il G8 del lontano 2001 in questa città: un morto sparato dai carabinieri, le torture nelle caserme e i pestaggi. E oggi ancora i morti nelle carceri nelle rivolte durante la quarantena, quelli uccisi di botte nelle caserme col silenzio dei benpensanti.

Le elezioni sono appena finite. Hanno fatto la festicciola elettorale, i brindisi per festeggiare, poi ci hanno nuovamente imposto i divieti. Nonostante la classe politica sia un minestrone, oltreché riscaldato, ormai andato pure a male, ci si convince ancora che il voto alle elezioni sia almeno l’unico «potere decisionale» che ci rimane. Ci si convince che è naturale il ricatto del lavoro come unica prospettiva di vita: lavora, consuma e crepa, per non parlare del silenzio che copre la situazione dei lavoratori agricoli schiavizzati nelle baraccopoli del sud Italia.

Penso che una rappresentazione adeguata del potere e del privilegio l’abbia dato Onofrio Del Grillo, Marchese interpretato da Alberto Sordi dicendo ai popolani: «perché io so io, e voi non siete un cazzo…». Eccolo il potere decisionale, la farsa partecipativa, le classi privilegiate, politiche, religiose ed economiche che comandano e i militari che le difendono. E’ vero, voi non siete un cazzo.

Giusto ieri c’è stata una «mobilitazione» studentesca. Le rivendicazioni «tuonavano» come il battito di una farfallina: connessioni wi-fi più potenti, banchi di scuola Covid-19 free, scuola funzionale all’avanguardia, ecc. Sembrano tutti giovani ministre, burocrati. Cittadinismo allo stato puro. La scuola sta facendo il suo lavoro di educazione civica, istituzionale, di formazione della classe dirigente, nemmeno un po’ di ribellione all’ordine: «sardine» da mettere in scatola in pasto agli squali del capitale, «Gretini» sempre più cretini.

Non c’è però solo il riformismo, il voto o la co-partecipazione in un falso confronto potere-sfruttati. Esiste la lotta radicale attraverso le pratiche rivoluzionarie. Alla secolare violenza dello Stato e della borghesia storicamente si è risposto con la lotta violenta, le pratiche e le azioni. Come quelle di cui sono accusati i compagni e le compagne in carcere, che sono patrimonio della lotta anarchica, ovvero una lotta di liberazione.

La solidarietà, il sostegno, il supporto ai compagni e alle compagne prigioniere ci mette nella condizione di essere coscienti, e avere le idee chiare sulle necessità pratiche della lotta contro lo Stato e il capitalismo. Allo stesso tempo e modo così si contrasta la paura della repressione, della galera; si sviluppano gli anticorpi contro la dissociazione, la delazione, e le prese di distanza dirette o indirette che siano.

Lo stesso pubblico ministero dell’accusa nel processo «Scripta Manent», in cui sono accusati/e una ventina di compagne e compagni, insiste in maniera ossessiva sulla criminalizzazione degli inquisiti, sul dichiararli isolati e soprattutto cerca di ottenere la de-solidarizzione dalle pratiche di cui sono accusati, base fondamentale da cui parte il lavoro istituzionale per il recupero politico e sociale delle esperienze di lotta al potere costituito.

Purtroppo in aula di tribunale alle ultime udienze c’erano poche persone presenti: è normale quando lo Stato democratico emette sessanta ordinanze di fogli di via da Torino contro altrettanti compagni e compagne perché si è portata solidarietà presenziando in quell’aula bunker. Eccola la libertà dell’Italia Repubblicana nel 2020.

Ma non stiamo qui per lamentarci o per fare piagnistei.

L’obiettivo della procura e del P. M. è anche distinguere gli anarchici e il movimento anarchico, oltre che in schemi e fazioni campate in aria, in «buoni» e «cattivi». Nemmeno il mondo è diviso in buoni e cattivi, non viviamo in una fiaba magica.

Questa differenziazione in «buoni» e «cattivi», è giusto ammetterlo, viene sviluppata storicamente anche grazie all’aiuto purtroppo delle dissociazioni, delle dichiarazioni processuali che prendono le distanze da pratiche violente, o da altri imputati addirittura, nei processi di lotta politica e sociale.

Si può dibattere su determinate pratiche e mezzi della lotta, ma queste non possono essere ridotte ad una questione di opinionismo, sempre consapevoli del fatto che il potere codifica ed utilizza in senso repressivo le condotte collaborative per affossare chi non le adotta. Se un arrestato in una manifestazione in strada che si è scontrata con la polizia si dissocia, prende le distanze o chiede scusa bene non fa. Se lo fa un compagno accusato di azioni dirette e attacchi, ancora peggio.

I movimenti rivoluzionari hanno sempre affrontato certe problematiche: basta essere chiari, affrontare le cose con determinazione, coi principi ben saldi e con sincerità. Prendiamo l’esempio dei compagni e delle compagne in prigione che con lucidità, dignità e determinazione rivendicano di riconoscere e condividere le pratiche rivoluzionarie necessarie, non solo quelle di cui sono accusati, e per questo pagano il prezzo dell’accanimento giudiziario.

I compagni e le compagne prigioniere non sono «personaggi», ma nella cattiva sorte che li ha fatti finire in carcere resta determinante la loro coerenza all’idea. I compagni in carcere, con i loro contributi scritti per giornali anarchici e le assemblee, ci forniscono un esercizio critico che non può farci altro che bene. Siamo perciò vicini in tutte le maniere ai nostri compagni colpiti dalle attività repressive del Governo italiano, nelle ormai continue operazioni poliziesche dell’antiterrorismo.

Non c’è nessuna classifica di importanza, o di priorità, per quanto riguarda le operazioni repressive. Quello che voglio dire però è che del processo «Scripta Manent» non bisogna sottovalutarne la portata storica. Non è questione del tipo di azioni di cui sono accusati i compagni e le compagne, ne di simpatia: si stanno processando venti anni di storia dell’anarchismo d’azione. Ciò significa idee, teorie, metodologie d’azione, pratiche e solidarietà rivoluzionaria e continuità della lotta anarchica.

Coscienti di questo, sappiamo chi è lo Stato. Abbiamo visto il trattamento speciale e persecutorio che fanno ai rivoluzionari, in passato e oggi: la legge Gozzini, i regimi speciali di detenzione come il 41 bis e l’Alta Sorveglianza, assassinii, torture, censura, sezioni di isolamento, divieto di presenziare al proprio processo se non in video conferenza; sono tutte procedure atte a tenere i compagni sepolti vivi in carcere il più a lungo tempo possibile e toglierli di mezzo, che non si sappia mai che qualcuno ha alzato la testa, che qualcuna reagisce, che qualcuno osa attaccare senza compromessi un mondo di autoritarismo, guerre, sfruttamento e reclusione.

La lotta senza mediazioni istituzionali ci mette faccia a faccia col nemico e nello scontro radicale contro l’autorità, la democrazia e lo Stato mostrano il loro vero volto. L’alternativa è la rassegnazione, una vita da schiavi volontari e consumatori qui nei Paesi cosiddetti ricchi. Al giorno d’oggi, e da parecchi anni ormai di presunta pace sociale con l’esercito nelle strade, ci propinano il polpettone avvelenato delle innovazioni tecnologiche, ecologiche e green, e le politiche di sviluppo pseudo rivoluzionarie per «il futuro che sarà».

Ma non c’è niente di rivoluzionario in tutto ciò, soprattutto per noi anarchici, se il prezzo da pagare per quelle maledette risorse minerarie ed energetiche necessarie è la guerra, l’inquinamento, lo sfruttamento e il saccheggio, per arricchire i capitalisti, i manager, le mafie e lo Stato.

Si va sullo spazio, c’è lo smartphone rivoluzionario, lo spazzolino elettrico rivoluzionario, la connessione a internet definita «la rivoluzione» e quant’altro. E’ tutto fumo negli occhi del consumismo.

La rivoluzione è un atto violento e il rivoluzionario lo Stato lo mette in galera, non sul mercato.

L’anarchismo non ha testi sacri, né favolette bibliche o elettorali da raccontare, ma etica e principi. L’anarchia è sì idea di altruismo, ma non di sacrificio gratuito; se non c’è il mutuo sostegno e supporto tra sfruttati e chi si ribella, quei principi vengono a mancare. La solidarietà internazionale è nell’azione rivoluzionaria degli sfruttati, contro i padroni e gli sfruttatoti, non è quindi il solo assistenzialismo da preti laici o da terzomondisti di sinistra.

I principi dell’anarchismo sono stati scritti col sangue e il sudore degli oppressi, le sue pratiche attraverso l’azione, per una vita degna di essere vissuta. Facile al giorno d’oggi giustificarsi, adeguarsi allo stato di cose e moderarsi.

Ci chiediamo forse perché nessuno fa niente davanti alle ingiustizie sociali. Questo dovremmo sempre chiederlo a noi stessi e a noi stesse. Ma qualcuno che reagisce e agisce c’è ancora. Lo sanno i disoccupati, i lavoratori, gli sfruttati e i prigionieri, è nelle gesta di chi contrattacca. Qualche sorriso complice ci sarà sempre, la complicità diretta, il passo successivo.

Allora andiamo avanti per la nostra strada nonostante sia piena di ostacoli.

Cosa mi sento di dire a quei lavoratori o disoccupati, a quella parte di classe sociale di sfruttati che lecca il culo ai padroni o che votano i reazionari e i razzisti? Hanno scelto.

A chi è indifferente o disfattista invece dico che se l’indifferenza è per non ammettere una «resa incondizionata» senza aver neppure combattuto una battaglia, se è per non dire che si è complici, arresi, codardi o servili, ognuno ne risponderà.

Se tutto quello che vi far star male, vi abbruttisce e fa soffrire e uccide gran parte dell’umanità vi va bene, allora continuate pure a scavarvi la fossa e a farvi seppellire dallo Stato. La rivolta e la rivoluzione sociale vi passeranno sopra a compattare bene la terra. La storia vi dimenticherà e se vi ricorderà non sarà certo come donne e uomini liberi, ma come concime della servitù volontaria.

Non basterà l’indifferenza a farci desistere, ne il disfattismo. Non basterà la repressione dello Stato a farci arrendere. Non basteranno le sbarre a rinchiudere l’anarchia.

Genova, 26 settembre 2020.


Qui di seguito il volantino distribuito durante l’iniziativa a Genova:

Non bastano le sbarre per rinchiudere l’anarchia

Si avvia a conclusione, a Torino, il processo d’appello per l’operazione «Scripta Manent». Era il 6 settembre 2016, quando vennero arrestati/e otto anarchici/e con l’accusa di aver costituito o partecipato ad una «associazione sovversiva con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico», accusa di cui nel processo sono imputati circa una ventina di anarchici/e. In particolare le accuse sono di aver realizzato dal 2005 diverse azioni dirette e armate contro le forze dell’ordine (questori, caserme dei carabinieri ed allievi carabinieri, RIS), uomini di Stato (sindaci, ministro degli interni), giornalisti, ditte coinvolte nella ristrutturazione dei CIE ed un direttore di un centro di reclusione per migranti, rivendicate FAI e FAI-FRI (Federazione Anarchica Informale – Fronte Rivoluzionario Internazionale). Inoltre, di aver scritto e redatto pubblicazioni anarchiche, tra cui una storica pubblicazione del movimento, “Croce Nera Anarchica”.

Ad aprile 2019, con la sentenza del processo di primo grado, i compagni Alessandro, Alfredo, Anna, Marco e Nicola sono stati condannati a pene tra i 5 e i 20 anni di reclusione, mentre altri 18 sono stati assolti e due tra questi scarcerati. Nel caso di Alfredo e Nicola, anni di prigionia che si vanno ad aggiungere alla precedente condanna per il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Un’azione realizzata a Genova il 7 maggio 2012 e rivendicata fieramente in tribunale dai due compagni durante il processo che è seguito al loro arresto avvenuto nel settembre dello stesso anno.

L’inchiesta «Scripta Manent», diretta dal pubblico ministero Roberto Sparagna, cerca di reinterpretare le diverse visioni teoriche nel movimento anarchico, e in maniera strumentale, schematizzarle a fini repressivi in presunte «aree» e relativi «esponenti», differenziando fra anarchici cattivi e pericolosi ed anarchici buoni, tentando di isolare i compagni con lo scopo di poterli seppellire sotto anni di galera e regimi speciali di detenzione.

Tonnellate di cemento su di loro e soprattutto – sperano servi dello Stato, inquisitori e giudici – sulle pratiche di cui sono accusati. Azioni che hanno saputo portare avanti continuità nella lotta e rompere la pacificazione sociale degli ultimi vent’anni, sostenendo senza mezzi termini un conflitto radicale contro il potere, contro lo Stato, le sue istituzioni, le sue carceri e i suoi carcerieri, contro governanti, potenti e padroni che – oggi come ieri – non hanno certo smesso i propri panni e il proprio lavoro: opprimere, sfruttare, dominare, soggiogare, sottomettere, ammazzare in nome dell’ordine, del profitto, della patria, degli interessi di sempre.

Qualcuno ha pagato il genocidio del nucleare, qualcuno ha pagato le incursioni militari e di guerra nei propri territori depredati per le risorse, qualcuno ha pagato la violenza istituzionale dello Stato e della polizia, qualcuno ha pagato la segregazione nei CIE e nelle carceri.

Le pratiche e le metodologie rivoluzionarie che hanno risposto al genocidio del nucleare, alla guerra e al militarismo, alla depredazione delle risorse dei territori, alla violenza istituzionale dello Stato e della polizia, alla segregazione delle carceri e dei lager detti CIE, per cui sono imputati i compagni a Torino sono anche le nostre. Le difendiamo fermamente perché esse, in quanto bagliori di libertà in un mondo di sottomissione, colpiscono i responsabili della nostra condizione di sfruttati, di oppressi, e danno la possibilità di riflettere criticamente e radicalmente sulla natura dell’oppressione stessa, prefigurando il sogno e l’ideale per il quale lottiamo.

Esattamente allo stesso modo, per le stesse ragioni, sentiamo nostra l’azione di cui è accusato Juan, un attacco contro una sede della Lega Nord a Treviso nell’agosto 2018, il cui processo inizierà a Treviso a novembre di quest’anno. Dedichiamo un pensiero di rabbia e affetto per questo compagno che, fino all’arresto avvenuto a maggio 2019, ha saputo sottrarsi per alcuni anni al controllo asfissiante cui siamo sottoposti nell’attuale ordine sociale, che disertando il percorso imposto dal potere, quindi affermando risolutamente la propria determinazione e autonomia individuale, ha saputo intraprendere sentieri non tracciati di libertà.

Ribadiamo che le diversità, la pluralità, i dibattiti e finanche le polemiche sono, da sempre, tra le grandi ricchezze del movimento anarchico e dell’anarchismo in generale. Riaffermiamo che le pratiche di cui sono accusati i nostri compagni sono una viva e insopprimibile espressione della lotta contro l’autorità, una parte integrante delle esperienze e delle lotte del movimento rivoluzionario. Oggi come ieri, solidarizziamo apertamente con gli imputati dell’operazione «Scripta Manent», con Juan, e anche con Flavia, Francesca, Nico, Roberto, Claudio e Carla, prigionieri/e delle ultime operazioni repressive.

In questa giornata salutiamo anche Beppe e Natascia, in carcere da più di un anno, accusati di aver praticato la solidarietà rivoluzionaria con i prigionieri e gli oppressi. A loro va tutto il nostro sostegno, così come a tutti gli/le anarchici/e e i/le rivoluzionari/e imprigionati/e nelle carceri dello Stato in Italia e nel mondo.

Rompere l’isolamento!

Anarchici, anarchiche e solidali