“Smart working”, “lavoro agile”? Chiamatelo pure lavoro a domicilio, lavoro sempre più atomizzato

Smart working”, “lavoro agile”? Chiamatelo pure lavoro a domicilio, lavoro sempre più atomizzato

– di effesse

Un compagno dell’area napoletana ci ha segnalato una lettera dell’a.d. di FCA Mike Manley ai dipendenti del gruppo che contiene un ringraziamento per il lavoro fatto a domicilio durante il lockdown. Aggiungendo questo suo commento: “l’a.d. di FCA sembra avere l’intenzione di applicarlo anche nel dopo Covid-19. Ciò vuol dire un’ulteriore accelerazione dell’atomizzazione della condizione lavorativa, e ricorda tanto la vecchia produzione di merci a domicilio fatta ovunque, nelle case, nei garage, negli scantinati, soprattutto nel meridione. La modernità ultimo grido del capitalismo, in termini di condizioni di vita e di lavoro, assomiglia tanto a qualcosa di già conosciuto, e conosciuto da molto tempo.” Infatti… tornano in campo forme di sfruttamento del lavoro tipiche del primo capitalismo (peraltro mai scomparse del tutto anche nei paesi più ricchi). Solo: invece del telaio in legno o della macchina da cucire, c’è il computer.

La questione si è accesa in Italia solo negli ultimissimi tempi, ma fuori dall’Italia si discute da qualche decennio sugli effetti del processo di digitalizzazione dell’economia sul lavoro. È una discussione nella quale si sono sprecate le lodi per le imprese di nuova generazione (Uber, Amazon, AirBnB) che sarebbero in grado di eliminare le “antiche” e autocratiche forme di organizzazione del lavoro tipiche dell’era industriale, arricchendo e riqualificando i compiti assegnati ai lavoratori. La magìa non finirebbe qui, perché con l’economia digitale la stessa nozione giuridica di subordinazione scomparirebbe (con le annesse protezioni giuridiche, s’intende) a favore dell’auto-imprenditorialità e dell’auto-attivazione. Meraviglia! L’obsoleta fabbrica fordista con le sue storture vetero-industriali lascia il posto a un’organizzazione del lavoro in tutto nuova, basata sulla conoscenza e la ricerca scientifica, e un lavoro sempre più intellettualizzato e ricco di significato sostituirebbe il lavoro ripetitivo e povero, “a prova di stupido”, di un tempo.

Un cambiamento epocale del genere pretende nuovi nomi: sharing economy, gig economy, on-demand economy, platform economy. Ma cosa c’è dietro questi nomi dal sapore esotico, tecnologico, accattivante? C’è un dato di fatto molto poco accattivante: nei paesi europei/occidentali ritornano ad estendersi prepotentemente condizioni e forme di organizzazione della produzione tipiche di fasi proto-capitalistiche. Non si tratta solo della precarizzazione strutturale del lavoro salariato, che è una costante del modo di produzione capitalistico, il cui livello varia in relazione allo scontro di classe. Si tratta del crescente utilizzo di forme di “collaborazione” falsamente autonome usate per mascherare rapporti di lavoro subordinato. In questo modo, molte delle imprese tecnologicamente più avanzate, che si presentano come semplici gestori di piattaforme digitali, adottano forme di controllo e comando sempre più invasive nei confronti dei loro “collaboratori”, salvo non assumersi nessun onere sociale in caso di infortunio, malattia o incidente sul lavoro.

La sfida che queste aziende stanno lanciando al movimento operaio su scala planetaria è quella di arrivare a destrutturare completamente le residue tutele giuridiche conquistate in prevalenza nella seconda metà del Novecento, evitando di generare condizioni favorevoli alla ripresa del conflitto di classe. Non a caso fino ad oggi è stata la scarsa concentrazione fisica della forza-lavoro, resa possibile dall’utilizzo in rete delle tecnologie ICT, l’ostacolo maggiore nei tentativi di auto-organizzazione dei ciclo-fattorini di Deliveroo, Just Eat, Glovo o degli autisti di Uber. Una situazione in parte diversa si è realizzata, invece, nel caso di Amazon dove negli ultimi anni sono cresciute sia le mobilitazioni dei suoi facchini e dei suoi drivers in tutto il mondo, che la sindacalizzazione.

Non è tutto. La “Quarta Rivoluzione Industriale” o Industria 4.0 dovrebbe produrre i suoi effetti anche nel campo della produzione di merci. Nei piani manageriali questa nuova fase di sviluppo tecnologico dovrebbe riuscire a promuovere una migliore integrazione verticale del ciclo produttivo nei singoli stabilimenti industriali, e una maggiore integrazione orizzontale dei singoli anelli delle filiere di produzione trans-nazionali. La fabbrica “trasparente”, preconizzata da Taylor e Ohno, sarebbe oggi resa possibile dall’Internet of Things, l’interconnessione in rete dei macchinari fisici, e dai Big Data, le mega-banche dati. Tutto ciò, nelle speranze dei capitalisti e dei loro funzionari politici, dovrebbe rialzare i margini di profitto tornando a combinare forme di estrazione assolute e relative del plus-valore. Classico: quando una crisi di redditività minaccia i profitti, la prima controtendenza è lo sforzo per rialzare il saggio di sfruttamento della forza-lavoro. Questo è avvenuto con il taylorismo ed il fordismo nei primi decenni del Novecento, e sta avvenendo di nuovo, ma con risultati assai più modesti, nei primi decenni del Duemila.

Con l’esplosione della pandemia mondiale da Covid-19 che ha mostrato lo stretto rapporto tra crisi sanitaria ed economica, molte imprese si sono ritrovate nella condizione di dover adottare in fretta e furia forme di lavoro a domicilio (ribattezzato per l’occasione smart working, in italiano “lavoro agile”) per evitare il blocco completo della produzione e delle attività. Sembrava una pratica emergenziale, ma ci sono spinte padronali sempre più decise perché diventi lo strumento normale per procedere a una ulteriore scomposizione e atomizzazione della forza-lavoro. Chiunque abbia dovuto sperimentare, anche per breve tempo, questa forma di lavoro “intelligente”, lamenta abitualmente due disagi: un aumento dello stress individuale e una crescita delle ore di lavoro che si è costretti ad erogare. In questa condizione di falsa autonomia, infatti, tempo di vita e tempo di lavoro si fondono a tal punto che diventa impossibile anche solo distinguere i due ambiti della vita.

L’estraneazione da sé tipica del lavoro salariato arriva a coprire anche quelle poche ore giornaliere che prima si potevano dedicare ad attività diverse dalla produzione o da forme di consumo indotto di merci e servizi.

Dopotutto c’è una notevole somiglianza tra lo “smart working” e l’antico lavoro dei tessitori medievali di panno di lana formalmente autonomi, ma in sostanza coordinati e controllati dai mercanti fiamminghi con il putting-out system. All’alba del ventunesimo secolo e in piena rivoluzione digitale, torna quindi ad operare la logica del putting-out system e della manifattura a domicilio, salvo che per una trasformazione degli strumenti di produzione: dal telaio in legno si è passati al personal computer!

È proprio di questo che si complimenta l’a.d. di FCA Manley, chiamato a raccogliere l’eredità dell’indimenticabile Marchionne, il manager che fece dell’attacco ai lavoratori e all’organizzazione sindacale in fabbrica il punto centrale delle sue politiche aziendali. Nella recente lettera di complimenti indirizzata ai dipendenti Manley ha riconosciuto che “durante la crisi, i nostri ingegneri hanno trasformato stanze degli ospiti, seminterrati e garage in officine e laboratori per i test, impiegando brillantemente le proprie competenze e inventiva per continuare a lavorare sui programmi di prodotto”.

Questo mostra che il management di FCA è riuscito, almeno per quanto riguarda gli strati tecnici superiori, a produrre una completa identificazione con gli obiettivi aziendali tanto che, per usare il lessico dello Human Resource Management, i “comportamenti di cittadinanza organizzativa” si sono estesi fino ad arrivare nelle stanze degli ospiti, nei seminterrati e nei garage dei rispettivi domicili dei dipendenti.

C’è poi la riconoscenza verso gli ingegneri ICT che “letteralmente da un giorno all’altro, hanno consentito a tutti i dipendenti di lavorare tranquillamente da remoto e di portare avanti le attività. Invece di concentrare l’attenzione esclusivamente sulla continuità operativa, hanno dato il via alla trasformazione digitale dell’azienda, fornendo supporto per le vendite da remoto in tutte le regioni, offrendo soluzioni digitali e a domicilio per i concessionari e realizzando in poche settimane un processo che normalmente richiede mesi, se non anni. Tutte queste esperienze risulteranno preziose per il futuro, specialmente in un’epoca in cui il nuovo modello operativo digitale è destinato a diventare la normalità”.

Quest’ultima frase conferma quanto abbiamo finora sostenuto. Il ritorno su larga scala del lavoro a domicilio rischia di non essere esclusivamente una soluzione emergenziale, estemporanea, adottata dal capitale per un periodo di tempo più o meno limitato. Perché si sta facendo strada la prospettiva di svolgere in maniera stabile in modalità da remoto alcune fasi del processo di produzione. Per rendere possibile questa trasformazione, potrebbero tornare utili l’esperienza e le tecnologie già utilizzate nel settore delle consegne a domicilio (di cibo e altri prodotti), se riadattate e ripensate sulla base di nuove esigenze. I problemi centrali rimangono sempre quelli del comando gerarchico della forza-lavoro e dell’incremento della produttività del lavoro. Ma se queste difficoltà dovessero trovare delle risposte adeguate, l’estensione di forme di de-concentrazione della forza-lavoro in produzione potrebbe diventare realtà.

Bisogna attrezzarsi a questa eventualità, e sostenere intanto attivamente le resistenze e le lotte contro questo processo di atomizzazione della forza-lavoro. In ogni caso, proceda più o meno celermente questa tendenza, è essenziale puntare molto sulla dimensione territoriale e trans-categoriale dell’azione sindacale. L’esperienza storica prova che l’antagonismo capitale-lavoro può essere dislocato in modo differente, è così da secoli, secoli di ciclica trasformazione dei mezzi di produzione e dell’organizzazione del lavoro; ma non può essere rimosso.

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La lettera di M. Manley

Cari Colleghe e Colleghi,

(…)

L’inventiva messa in campo dai nostri team durante la crisi continua ad essere fonte d’ispirazione. FCA ha sempre dimostrato la propria intraprendenza nei periodi difficili e gli ultimi mesi non hanno fatto eccezione. Molti di voi mi hanno scritto per raccontarmi come, insieme ai colleghi, avete adattato i vostri processi operativi alle limitazioni imposte dal lavoro da remoto e dalla distanza tra i membri del team.

Questa settimana voglio parlarvi di come i nostri team di engineering siano riusciti a portare avanti i programmi relativi ai veicoli. Con i laboratori e i siti di R&D chiusi, il Product Development si è fatto carico di organizzare ciò che potrebbe essere definito l’approccio “progettare da casa”. Durante la crisi, i nostri ingegneri hanno trasformato stanze degli ospiti, seminterrati e garage in officine e laboratori per i test, impiegando brillantemente le proprie competenze e inventiva per continuare a lavorare sui programmi di prodotto. Lasciatemi menzionare alcuni esempi.

I membri del team di ingegneria elettrica hanno continuato a sottoporre tutte le connessioni dei veicoli a prove su banco nelle officine satellite create nelle rispettive abitazioni. Il banco di prova per la connettività Firmware Over-The-Air (FOTA) è stato fisicamente trasferito in casa di uno dei nostri ingegneri, che ha proseguito il lavoro di sviluppo del modulo telematico e del gateway di sicurezza.

Analogamente, i membri dei team che si occupano di altri sistemi, come la validazione radio e il collaudo delle luci, hanno provveduto a smontare i banchi prova per hardware e software dai laboratori per riassemblarli nelle proprie abitazioni. Le prove di resistenza all’umidità, i test in camera oscura e i cicli di test qualitativi sono andati avanti a ritmo sostenuto e i risultati sono stati condivisi telematicamente tra i colleghi. Inoltre, abbiamo continuato a eseguire le prove su strada, anche se con un collaudatore solo, che si alternava agli altri membri del team per testare tarature e modifiche in tutta sicurezza.

Desidero esprimere la mia riconoscenza anche ai nostri ingegneri ICT che, letteralmente da un giorno all’altro, hanno consentito a tutti i dipendenti di lavorare tranquillamente da remoto e di portare avanti le attività. Invece di concentrare l’attenzione esclusivamente sulla continuità operativa, hanno dato il via alla trasformazione digitale dell’azienda, fornendo supporto per le vendite da remoto in tutte le regioni, offrendo soluzioni digitali e a domicilio per i concessionari e realizzando in poche settimane un processo che normalmente richiede mesi, se non anni. Tutte queste esperienze risulteranno preziose per il futuro, specialmente in un’epoca in cui il nuovo modello operativo digitale è destinato a diventare la normalità.

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