Non se, ma quando
Non se, ma quando
Ad appena un mese dall’operazione Ritrovo una nuova operazione sbirresca, detta Bialystock, ha colpito sette compagni e compagne anarchiche. Due di loro si trovano ai domiciliari, tre nelle patrie galere, e due, sempre in carcere, attendono di essere trasferiti in territorio italiano, poiché al momento dell’arresto si trovavano all’estero. A questi compagni e compagne va la nostra piena solidarietà e vicinanza.
Vorremmo anche, con questo scritto, provare ad articolare qualche più ampia riflessione.
Non se, ma quando: è quel che verrebbe da pensare nell’analizzare, globalmente, le operazioni antiterrorismo condotte dallo Stato italiano negli ultimi anni a danno di chi si richiama all’ideale anarchico. Non è un ripiegamento vittimista, né un’invocazione iettatoria, semplicemente prendiamo atto del fatto che sempre più spesso il tentativo del potere è quello di incarcerare e reprimere le individualità anarchiche… in quanto tali.
Questa conclusione è banale solo in parte. Nelle costruzioni giudiziarie, infatti, sono sempre meno i fatti specifici ad essere contestati, e sempre più spesso si ricorre abbondantemente al reato di istigazione. Testi, scritte sui muri, volantinaggi, diffusione di idee ed inviti alla solidarietà attiva con gli individui incarcerati sono ritenuti ormai l’armatura del terrorismo e dell’eversione, complice anche l’esistenza di una norma quale l’articolo 270 sexies – il quale definisce come terroristica qualsiasi condotta che possa intimidire lo Stato o una sua estensione (aziende, organizzazioni ritenute strategiche), portandolo ad astenersi dal compiere un qualsiasi atto o progetto. La vaghezza di questa formulazione va a braccetto con gli intenti sempre più esplicitamente preventivi dell’apparato giudiziario, come a dire: ‘sono anarchici, prima o poi colpiranno, tanto vale portarsi avanti col lavoro e bloccarli subito’. O, come nel caso dell’operazione Ritrovo, la prevenzione viene sostanziata dalla dimensione contestuale e risponde al timore che in un momento di crisi sempre più acuta (quale quella che viviamo dal principio della pandemia da covid-19) la presenza delle anarchiche e degli anarchici nelle strade, nei luoghi di sfruttamento, sotto le mura delle galere possa costituire un rischio per il mantenimento dell’ordine costituito.
Così arriviamo a ragionare sul quando: quand’è che lo Stato riconfigura l’estensione dei propri mezzi repressivi? In quale momento storico viviamo? Quali sono i rischi per la stabilità delle istituzioni, e quali le possibilità per chi, nelle istituzioni, vede solo il dispiegamento di una violenza schiacciante, insopportabile?
La pandemia ha esacerbato una serie di processi già in atto da tempo, come l’impoverimento e la marginalizzazione ai quali alcuni strati della società erano già soggetti, ed ha reso evidente in modo doloroso chi fossero gli ultimi e le ultime. Molte analisi sono state condivise durante gli ultimi mesi e sappiamo bene ormai in quali punti nodali si sono concentrate le peggiori conseguenze della pandemia e della sua gestione, personificata nello stato d’emergenza sanitario. Non ci sorprende allora che in vari angoli del globo la paura sia diventata insofferenza, e poi rabbia, e poi rivolta. Non ci sembra assolutamente improbabile che negli Stati Uniti, ad esempio, la gestione della pandemia abbia esasperato le profonde disuguaglianze sociali e materiali e ulteriormente minato le condizioni di vita degli afroamericani e in generale di chi non sia bianco, e che questa rabbia sia esplosa assieme a quella causata dalle terribili morti di George Floyd, Maurice Gordon e Rayshard Brook, uccisi dalla violenza poliziesca e razzista. Nei giorni in cui gli Stati Uniti letteralmente bruciano, il presidente Trump inveisce sempre più violentemente contro dimostranti antifa e anarchici, definendoli, tanto per cambiare, terroristi.
In Italia dall’inizio della pandemia, un’ondata di fuoco ha devastato molte carceri, e quattordici persone detenute sono rimaste uccise durante quelle rivolte. E sono proprio i rapporti fra carcerati e individui a piede libero ad essere chiamati in causa dalle ultime operazioni antiterrorismo: a compagne e compagni di Bologna veniva contestata la presenza solidale fuori dalla Dozza e dal carcere di Modena, presenza considerata sobillatrice; le compagne ed i compagni colpiti nell’operazione Bialystock vengono accusati per la solidarietà portata avanti in seguito all’operazione Panico, in particolare verso Paska, ora nuovamente inquisito, per via delle “proteste coordinate dentro e fuori” che avrebbero portato al suo trasferimento dal carcere di La Spezia, dopo i pestaggi là subìti.
Ci troviamo, evidentemente, in un momento storico in cui la solidarietà tra sfruttate, inquisiti, dannati, diseredate sembra essere più pericolosa che mai, perlomeno agli occhi del potere.
Sarà allora un’arma che raccoglieremo volentieri: dentro e fuori dal carcere, ma anche sui luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle scuole, nelle rsa, nelle case in cui ci hanno rinchiuse, spesso intrise di abusi e violenza patriarcale, per le strade… tutto deve cambiare, e questo ci sembra un buon momento.
Solidarietà incondizionata alle compagne ed ai compagni colpiti dall’operazione Bialystock
Fra, Flavia, Nico, Robbi, Claudio, Dani, Paska liberi! Tutti e tutte libere!
Anarchiche e anarchici di Trento e Rovereto