Dietro l’angolo pt.8: Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione

Tratto da https://macerie.org/index.php/2020/06/03/dietro-langolo-pt-8-un-lato-oscuro-ancora-su-guerra-civile-e-insurrezione/

Dietro l’angolo pt.8: Un lato oscuro. Ancora su guerra civile e insurrezione

QUALCHE IPOTESI SU COVID-19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO.

Nel corso dell’attuale epidemia di Covid-19, e soprattutto nel suo portato di misure di contenimento sanitarie e sociali sono apparse blande seppur allusive manifestazioni di una questione inquietante. Una questione complessa che, a memoria, è emersa all’interno della teoria e analisi anarchiche con tremenda urgenza durante uno degli avvenimenti che più hanno ecceduto gli schemi logici con cui sino ad allora si affrontavano gli scenari bellici: il massacro jugoslavo. Ci sembra che il libretto Guerra civile di Alfredo M. Bonanno1 sia un contributo inaggirabile per l’elaborazione rivoluzionaria, non solo per l’originalissima prospettiva analitica, ma soprattutto per le questioni etiche che tale tema pone, non lì esplicitamente affrontate e per questo tutte da svolgere.

Le righe che seguono riprenderanno la tematica non solo per affrontare questo imperativo, ma anche perché non ci sembra peregrino riproporre e riprendere l’analisi di questo complesso teorico (e pratico) proprio in un momento che, come allora, ci costringe a fare i conti con una eccezionalità che ha stravolto, stravolge e stravolgerà il modo di vivere a cui tutti, con più o meno agio, eravamo abituati.

Lungo il corso del testo apparirà euristicamente quella che probabilmente è una definizione minimale e scolastica di guerra civile come conflitto anomico, diffuso e infra-nazionale, caratterizzato da violenza indiscriminata potenzialmente senza limiti.

Una premessa doverosa: faremo di certo torto all’intelligenza di tante lettrici e lettori, ma vorremmo sottolineare a priori come per chi scrive lo scenario di ‘guerra civile’, per quanto a noi sconosciuto, disgusti profondamente.

Tuttavia, ad essere onesti, non pare sufficiente contrapporvi il concetto di ‘guerra sociale’, ovvero non sia sufficiente indirizzare programmaticamente i nostri sforzi pratici e analitici verso momenti di lotta in cui si contrappongono chiaramente (interessi di) sfruttati e sfruttatori. Non è sufficiente sostenere la necessità della guerra sociale contro la mostruosità della guerra civile. Siamo certi che questo in nessun modo potrebbe metterci al riparo, facendoci imboccare i retti binari della rivoluzione emancipatrice.

Non è difficile sostenere che le dinamiche insurrezionali, necessarie per aprire possibilità di liberazione collettiva, non hanno mai uno svolgimento lineare, animate come sono da tensioni variegate e contraddittorie, di cui spesso è difficile dare un significato etico univoco. La ‘guerra civile’ ci pare non certo il contesto auspicabile in cui agire (lo ripetiamo ancora una volta), ma di certo uno tra i probabili esiti di certe rotture o svolte improvvise nella quotidianità alle nostre latitudini.

Per concludere. Il tema ‘guerra civile’ ha peso e sembra ancora una volta inaggirabile perché ha tutte le carte in regola per essere l’impensato dell’insurrezione, il suo lato oscuro. Da una parte, abbiamo a che fare con un campo teorico e pratico in cui ci si è mossi – perlomeno dal punto di vista teorico – in lungo e in largo, con indubbia originalità e elaborazioni concettuali tuttora preziose e valide. Dall’altra, abbiamo una certezza: chiunque pensi e agisca con la pretesa di scatenare o partecipare a lotte con sbocchi insurrezionali non può non avere ben chiaro che il loro probabile svolgimento avrà di certo a che fare con quella che può essere definita ‘guerra civile’.

La presente pandemia di Covid-19 ha causato e causerà imponenti fratture nella quotidianità di praticamente tutti gli abitanti del pianeta. In questo luogo non verrà affrontata la cosiddetta narrazione dominante sul Covid-19, piuttosto la pandemia verrà considerata da un unico e pur complesso lato: come un momento di rottura, di profonda crisi del sistema capitalistico nazionale e trans-nazionale.

Come tale, come improvviso e imprevisto avvenimento critico chiama in causa, seppur da un’angolazione inedita, la teoria e la pratica rivoluzionaria: molteplici strutture del potere, a più livelli, vengono intaccate e messe parzialmente o totalmente fuori uso. Una crisi del genere, a nostro parere ha più differenze che analogie con le crisi economiche che, anche di recente, minano il funzionamento del sistema capitalistico avanzato: le sue ripercussioni sono molto più immediate sulla vita delle persone e probabilmente questa ha ricevuto molta meno attenzione in termini di previsioni e relative contromosse economiche e politiche.

Una spaccatura di tale portata ridisegnerà, tra le altre mille cose, gli equilibri nello scontro tra sfruttati e sfruttatori. Se da una parte le misure antiepidemiche si innestano organicamente su efficienti per quanto inedite modalità di produzione, distribuzione e consumo (e della loro difesa), dall’altra costringono e costringeranno altissimi numeri di sfruttati in spazi angusti di vivibilità e di accesso ai beni primari.

Non risulta quindi peregrino un tentativo ulteriore di analisi della guerra civile, nelle sue intensità più variabili, nelle sue forme oscure che paiono potersi ripresentare ed acuire perfino in latitudini che si reputavano al sicuro da bubboni di brutalità e di scontro anomico.

Qualche anno fa, un brillante articolo2 pubblicato da un mensile anarchico, si inseriva nel minuscolo dibattito sull’analisi del concetto di ‘guerra civile’, apportando preziose critiche ad un precedente scritto sul tema3.

Schematicamente lo scritto sosteneva che:

  • la guerra civile, perlomeno nella presente epoca, non si manifesta come un conflitto capace di eccedere ogni limite; un tale conflitto, pur iscritto nel profondo di ogni organismo sociale, non è mai scollegato dal contesto principale in cui avviene, anche nei casi di crisi irreparabile;

  • non è possibile immaginare il retrocedere di uno Stato-nazione con i suoi apparati sullo stesso piano di azione di emergenti formazioni organizzate, eventualmente partecipanti al conflitto;

  • lo Stato è infatti ‘ciò che, in ultima istanza, decide delle sorti della guerra civile’, ovvero ha una funzione che nel corso della sua durata (ma che perdura anche nel caso di sua dissoluzione) si articola come sapere di Stato = capacità di dare forma ad un conflitto e potere di Stato = capacità di esercitare il monopolio della forza;

  • questo significa che lo Stato esiste, quando è in salute, come agente di sospensione della guerra civile, non del suo annullamento: sulla minaccia sempre presente di esplosione di suoi focolai costruisce il suo consenso;

  • ma questo significa infine che la guerra civile gode di un’esistenza strisciante, sotterranea all’interno delle società organizzate in Stato e che perciò segue e si sviluppa su assi e traiettorie isomorfe ai rapporti di forza consolidatisi in esso;

Terremo a mente questi punti per sviluppare il presente elaborato, il cui punto di osservazione è il suolo italico, nello specifico un contesto urbano semimetropolitano.

Ancor prima dello sconvolgimento della quotidianità cittadina via decreto, a fare data dal 9 di marzo, le caratteristiche proprie della epidemia hanno dispiegato una dinamica antica, la caccia all’untore, che, come proveremo ad argomentare non può fare a meno di richiamare la figura più arcaica e fondamentale del capro espiatorio.

Già dagli inizi di febbraio possiamo reperire notizie grottesche e realissime di fobia isterica, spesso incarnata in attacchi fisici, verso persone fisiognomicamente asiatiche, e cinesi nello specifico. Presunti veicoli del virus, i e le cinesi, i negozi e i ristoranti da essi gestiti son stati individuati da ampie porzioni di popolazione come ‘il’ problema, come luoghi e corpi di cui sospettare, da tenere a distanza, da evitare quando non da attaccare.

Il rapido evolvere della situazione, le successive e sempre più stringenti misure di contenimento hanno fatto scivolare la psicosi verso il Celeste Impero in secondo o terzo piano (non volendo entrare nel grottesco dibattito sulle presunte colpe ab origine di diffusione epidemica, come se il virus fosse un gattino scappato sui tetti del vicinato).

Dopo la Cina altre figure hanno rapidamente occupato la casella funzionale del capro espiatorio, in una sequela di ruoli sempre più improbabili e, fattore non di secondaria importanza, vaghi, cioè non immediatamente riconoscibili – senza più gli occhi a mandorla, o meglio, non solo –.

A questo punto del discorso è utile presupporre la funzione fondamentale e fondativa che il capro espiatorio svolge all’interno delle comunità, macro o micro che siano. Seppur sia stato molto importante il ruolo dello Stato nell’individuazione del colpevole dello spargimento del virus – chi non sta a casa, chi corre, i furbetti, chi non rispetta il distanziamento sociale –, ci pare tuttavia che in frangenti di crisi generale, di difficile comprensione, di incertezza, il colpevole, la funzione di colpevole svolga una cruciale importanza sia su un livello individuale sia su uno collettivo.

Non si può non collocare il concetto di capro espiatorio all’interno di una costellazione di altri concetti: danno, colpa, violenza, sacrificio/sanzione, obliterazione/soluzione del danno.

Per trivializzare: di fronte ad un danno se ne cerca la causa, che è immediatamente colpa; attraverso la violenza (con le sue forme più raffinate e accettabili fino alle più brutali) si persegue la soluzione del danno, la sua riparazione; tale processo ha come passaggio obbligato, come punto d’equilibrio, il capro espiatorio, la sanzione del colpevole (tale o presunto).

A ben vedere, da questo schema non eccedono neanche modelli alternativi di capro espiatorio: si pensi semplicemente al – sacrosanto e più preciso – modello teorico e pratico proposto dalla ‘nostra’ parte, laddove il ‘colpevole’ è individuato tra le file del nemico di classe.

Non è questo il luogo per provare a sondare la validità di questo schema, né tantomeno immaginare soluzioni alternative. Ci accontenteremo di dimostrare che proprio perché, volenti o nolenti, ci si trova a muoverci in un contesto di questo tipo, le conseguenze saranno più buie e drammatiche di quanto ci si possa aspettare.

Ricapitoliamo quanto esposto finora:

  • lo Stato versa in un momento di crisi di cui esso stesso non conosce la fine né gli effetti che avrà nella vita del corpo sociale (ovvero non conosce a priori gli effetti che le misure post-crisi potranno dispiegare nella società);

  • ogni comunità non si può sottrarre alla dinamica del capro espiatorio di fronte a quelli che vengono interpretati come danni o torti, ed è pronta, al di là dei limiti democratici, progressisti, umanitari, razionali, ad agire in modo violento verso il colpevole supposto;

  • la guerra civile non è uno scenario che sostituisce il presente stato di cose in determinati momenti di anomia, ma esiste in maniera strisciante, in qualche modo controllata, nel ventre della cosa pubblica; e che i suoi rapporti di forza dormienti seguano le linee tracciate dalla strategia gestionale di controllo e repressione statali;

  • la presente pandemia di Covid-19 avrà ripercussioni imponderabili non solo sulle economie globali, ma immediati riverberi sull’esistenza di gran parte della popolazione: dal punto di vista occupazionale, dei consumi, dei costumi;

Tutto ciò può fare legittimamente presagire una serie di turbolenze sociali.

Da qualche parte sono già iniziate. Da qualche altra esistono strutturalmente.

Se si guarda con attenzione ai periodi di crisi in cui non appaiono fasi di sovversione diffusa sufficientemente incisive, non si può che notare l’acuirsi della ferocia con cui i poveri organizzano la propria sopravvivenza. Non ci si riferisce qui a un’antropologia negativa del tipo homo hominis lupus:non dobbiamo pensare ad una natura umana – concetto molto problematico – cattiva, quanto piuttosto a dinamiche dalle coordinate precise, spesso pianificate e ampiamente previste da analisti e governanti.

Finito il sogno illuminista e novecentesco di un’emancipazione comune, quando l’esistenza materiale pone alle strette, il risultato quasi deterministico è quello dell’accaparramento di ciò che è necessario, con mezzi e fini a tratti insostenibili. L’esistenza di molti, al netto del niente in cui si riproduce, si arrabatta già ora tra l’affitto di un posto da dormire su un marciapiede, tra i furgoncini in cui il caporalato organizza il lavoro tra i campi, strappando elemosine dal collo di un’anziana, in una busta di roba all’angolo. Tra le spire di un mercato sommerso, con prezzi esosi, capace di distribuire beni a cui ai più è negato un accesso formale, il cui controllo è spesso appannaggio di soggetti parastatali capillari, autodifesi e abili nella riscossione di crediti.

Fenomeni che individualmente possono essere ascritti a dinamiche di un ultra-sfruttamento ferocissimo e cannibale, ma che, moltiplicate e complicate nei sistemi complessi che sono le città e le metropoli, si traducono in dinamiche che afferiscono a ciò che definiamo guerra civile.

Il conflitto endemico all’interno della classe sociale degli esclusi potrebbe dunque con la crisi economica della pandemia portare all’inasprimento ulteriore delle dinamiche di cui sopra. Guerra che non solo vedrebbe i sovversivi in difficoltà rispetto alla sua intellegibilità, ma che li costringerebbe a far fronte a tensioni che spostano inevitabilmente il punto dalla lotta contro padroni e governanti a quello di doversi guardare le spalle da pericoli moltiplicati e su fronti inediti. Non si descrive qui uno scenario da tetra fantapolitica, ma quello che accade conseguentemente alla trasformazione di ogni pezzo di questa Terra in spazio di mercato dalle risorse limitate e dalla repressione spudorata. Un conflitto acuto e diffuso che rende poco vivibili per tutti le strade dovrebbe essere affrontato con rigore ideale e cautela ferrea. Per non subire o ignorare da una parte le angherie e le violenze di cui è composto, dall’altra per non finire nel derubricarlo come inevitabile “delinquenza”, dimenticando di fatto la questione sociale e abbandonandosi alla guerra tra bande.

Ad ogni modo. siamo convinti che nei momenti di crisi reale e vissuta molti nodi vengano al pettine, a discapito dei diversi piani di retorica, naif, caramellosi, ecumenici che l’inesauribile macchina ideologica che è lo Stato ha per questi frangenti: abbiamo letto del malcontento montato nel settore sanitario e produttivo in generale; possiamo immaginare che le dinamiche di potere, nella loro intollerabilità, emergano con più chiarezza rispetto ai periodi di ‘normalità’.

Non siamo tuttavia sicuri che, all’acuirsi della tensione, ci si ricordi delle responsabilità precise.

Che tipo di scontro potrà mai esplicarsi in società che non solo non esprimono da decenni capacità di analisi e organizzazione di classe ma soprattutto che non hanno più dinamiche interne capaci di dimostrarne chiaramente la struttura di classe? Chi sono oggi gli sfruttatori? Chi è oggi, o meglio ancora, domani, il nemico?

Temiamo che per distribuire e sanzionare le colpe sia sempre più facile imboccare le strade già battute: gli altri in generali, poveri, stranieri, marginali, furbetti di turno, non allineati, avversari corporativi e via elencando.

Qualche anno fa un compagno scriveval’insurrezione fa splendere il sole a mezzanotte perché in essa gli individui sentono, avvertono, evocano e vedono la potenza che hanno sempre avuto: quella di negare la propria condizione.

Non sappiamo se ci saranno insurrezioni. Sappiamo che ci saranno malcontento, rabbia, paura, incertezza, e sappiamo che queste cose sono il combustibile delle insurrezioni.

Un ulteriore punto sarebbe capire cosa significhi negare la propria condizione: a noi piacerebbe che si negasse la condizione di sfruttati, subalterni, oppressi. Che ci si batta per negare la propria condizione e quella degli altri in cui ci si possa riconoscere.

Invece è probabile che nel presente stato di cose e soprattutto nell’immediato futuro, l’esigenza prioritaria di ogni sfruttato sarà quella di riappropriarsi di quanto appena perso, a discapito soprattutto dei più prossimi, di tutti quelli che versano in frangenti simili. Probabilmente con modalità e strumenti inimmaginabili, propri di una crisi inaudita.

Non potremo però girarci per non vedere. In primo luogo perché, come sfruttati, la questione ci riguarderà da molto vicino. In secondo luogo perché se è vero che le insurrezioni non sono mai pure, sono impure in entrambi i sensi. Mai solo rivoluzione, mai solo reazione.

Anche nei contesti di più difficile lettura e intervento, ci sono sempre stati momenti di rottura che, pur frammisti ed intrecciati ad altri di segno opposto, hanno alluso o costituito passaggi di emancipazione.

Postilla di fine maggio ’20

Questo testo è stato redatto intorno alla metà di marzo, nell’ottica della collazione di testi in uscita sul blog Macerie e storie di Torino. Ad una rilettura due o tre punti che sarebbero inevitabilmente suonato come superati dagli eventi son stati aggiustati, altri li abbiamo lasciati volutamente come erano. Indubbiamente molti punti trattati, nonostante le aggiunte continue, hanno necessità di approfondimento ulteriore.

Il bacino di esempi e fatti di cronaca da pandemia, allo stesso tempo agrodolci, grotteschi, inaccettabili e catartici, che potrebbero supportare quanto scritto sopra è vastissimo.

Se dovessimo circoscrivere qui dei campi di forze – si badi, non dei soggetti – particolarmente fecondi per innescare o alimentare dinamiche da guerra civile, potremmo eleggere:

  • gli effetti selettivi e distributivi della previdenza sociale, riscopertasi fondamentale ai tempi del Covid-19, che, con i suoi bizantinismi creerà diverse categorie di persone dipendenti dal sostegno al reddito. Come ogni differenziazione anche questa sarà facilmente radice di cannibalismo sociale e scontro indiscriminato;

  • quel magma eterogeneo e confuso, distillato di differenti tensioni che si potrebbero definire complottiste, populiste, sovraniste, corporativiste, che ha dimostrato insofferenza palese alle varie misure di ministri e governatori soprattutto sui social network (un esempio locale, il cosiddetto Movimento dei Forconi a Torino); ad ora un popolo da tastiera, ma uno spettro significativo di cosa ribolla nello stomaco di quello che fino a ieri l’altro si chiamava proletariato;

  • la meta-distinzione tra salute e malattia, tra chi può e deve essere sano e chi invece rimane o può rimanere o deve nella casella del malato, del non salvabile, del sacrificabile; un taglio che si va ad aggiungere tra le innumerevoli linee di esclusione, inclusione e inclusione forzata che attraversano le società contemporanee, e i cui effetti, soprattutto in quelle sotto capitalismo avanzato, potrebbero scompaginarne le strutture;

  • non ultimo le vecchissime e nuovissime identità regionali, se non etniche, riemerse in un contesto dove la diffusione a macchia di leopardo del virus ha reso diversamente efficaci (o gradite) le misure del Governo centrale, emesse su una dimensione nazionale; per ora lo scontro è soprattutto politico istituzionale, ma scriviamo che ancora gli spostamenti tra Regioni sono vietati.

1 A. M. Bonanno, Guerra civile, Edizioni Anarchismo, Catania, 1995.

2 Invece n° 22, Combattere la guerra civile, marzo 2013.

3 Invece n° 18, Campo di battaglia, novembre 2012.

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.

L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.

Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.

Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Se vi siete persi le altre puntate di Dietro l’angolo potete leggerle cliccando qui sotto.

Tra salti e accellerazioni. A mo’ d’introduzione.

Cablaggi di Stato

Nord sud ovest est

Taglio netto

Il mondo inabitabile

Macchine, sensi e realtà

Lockdown, quarantene e zone rosse