Il Libano ribolle, al di là delle divisioni confessionali!

Guardando a ciò che sta accadendo oggi nelle strade e nelle piazze di molte città del Libano, ci sembra utile pubblicare questo testo circolato qualche mese fa. Quello che muove le proteste e le rivolte contro il governo di Hariri non può che confermare ciò che già ad ottobre aveva saturato l’aria e fatto esplodere la rabbia dei più poveri. Le condizioni di vita ormai insostenibili sono divenute ancora più precarie con le misure adottate dall’emergenza Covid, e mentre la risposta autoritaria è sempre più repressiva c’è chi vuole alzare la testa.

Di seguito il testo.

Il Libano ribolle, al di là delle divisioni confessionali!

Ma guardate anche le piazze dell’Algeria… e tutto il resto.

Da una settimana le strade di Beirut, Tripoli, Tiro, Sidone, Sayda, Nabatiyeh sono teatro di grandi manifestazioni di massa che hanno riportato in campo con forza gli slogan politici delle sollevazioni del 2011-2012: “il popolo vuole la caduta del regime” (Ash’ab iurid isquat al-nizam),rivoluzione” (thaura). La grande novità è che in queste manifestazioni di molte decine di migliaia di giovani non c’è traccia di divisioni per gruppi e simboli confessionali. La protesta dilaga in tutto il paese, e vede insieme, mescolati tra loro, sunniti, sciiti e cristiani. Il suo bersaglio è il governo Hariri di cui si chiede perentoriamente le dimissioni. E con il governo di unità nazionale, c’è nel mirino l’intera classe dirigente e le istituzioni finanziarie, a iniziare dalla Banca centrale del paese – davanti alla quale proprio ieri si è svolto un raduno di protesta.

La stampa italiana ha raccontato che la scintilla è stata l’introduzione di una tassa sul servizio di messaggistica di whatsapp (finora quasi gratuito). In realtà il clima era già saturo di sostanze esplosive: il timore di una forte svalutazione della lira e l’incremento del prezzo del pane, la rabbia per i continui disservizi nell’erogazione di acqua e luce, l’indignazione per gli scandali delle cricche dei favoriti di stato. Il Libano è da qualche anno sull’orlo del default. Ha un debito pubblico al 150% del pil (terzo al mondo, dietro solo a Giappone e Grecia), una disoccupazione dilagante (il tasso ufficiale è al 35%), livelli di polarizzazione della ricchezza, di clientelismo e di corruzione insostenibili. Sofferenze materiali e odiose umiliazioni quotidiane, carenza di servizi elementari a fronte di uno sfacciato accaparramento privato delle risorse statali: questo l’amaro impasto che la massa della popolazione si rifiuta di ingurgitare ancora. Ecco perché non c’è più riguardo per nessuno. Scrive Michele Giorgio, in genere testimone attendibile: “A Sidone e Tripoli i sunniti bruciano i ritratti di colui che fino a qualche tempo fa era il loro ‘imperatore’, il premier Saad Hariri. Nel sud invece chiedono che lo speaker del parlamento (da ben 27 anni) Nabih Berri, leader di Amal, si faccia da parte. E si sono sentiti slogan [nelle città abitate in prevalenza da sciiti] anche contro il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che si è espresso a favore del governo pur rimarcando l’importanza delle ragioni delle proteste”.

La grande forza di queste proteste è misurabile dall’improvvisa conversione-ad-u di Hariri che per calmare la piazza ha annunciato il dimezzamento dello stipendio dei ministri (in carica e del passato); un’imposta sulle banche di 400 milioni di dollari più la loro rinuncia agli interessi sul debito di stato per un importo pari a 3,4 miliardi di dollari come contributi al risanamento delle finanze pubbliche; la riorganizzazione dell’Azienda nazionale dell’elettricità accusata d’inefficienza, oltre l’annullamento della tassa su whatsapp. Insomma: imposte dirette sui più ricchi, anziché nuove imposte indirette sui consumi della generalità della popolazione, particolarmente pesanti per gli strati poveri. Al momento, però, non sembra avere disinnescato il movimento di lotta che intreccia dimostrazioni di strada, blocchi stradali e scioperi, e nutre una radicale sfiducia nel governo e nei rappresentanti delle istituzioni. A colpire gli strati popolari profondi è una crisi che, tra stagnazione, inflazione e disoccupazione, sta coinvolgendo anche larghe quote delle classi medie, che si sentono impoverite e insicure. Come in tutto il mondo arabo, la distanza tra l’élite economico-finanziaria e politica al potere e le classi lavoratrici continua a farsi perfino più estrema e oltraggiosa di quella esistente allo scoppio della grande Intifada araba dei primi anni del decennio con epicentro in Egitto. Gli stati-patrimoniali o semi-patrimoniali si dimostrano incapaci di auto-riforma. Questo vale anche per lo stato libanese, che è un mix di stato patrimoniale (la famiglia Hariri dispone di ingentissime ricchezze) e stato confessionale (secondo l’infame costituzione imposta dal colonialismo francese nel 1926).

Sull’attuale crisi libanese pesano in negativo anche fattori di ordine internazionale. Anzitutto, la politica di Trump di totale sostegno all’espansionismo coloniale di Netanyahu, che si manifesta anche nel tentativo di sottrarre a Beirut lo sfruttamento di petrolio e gas scoperto al largo delle coste libanesi, e assegnato dal governo Hariri a Total, Enel e alla società russa Novatek – per non dire degli ininterrotti sconfinamenti militari di Tel Aviv (1.417 nel solo 2018). E poi i rapporti sempre più complicati con l’Arabia saudita, in aspra contesa con l’Iran nel fare del Libano un proprio campo di influenza; il che significa una riduzione degli “aiuti” e delle “donazioni” dalle monarchie del Golfo, a misura che i loro referenti libanesi, a cominciare proprio dal premier, paiono sempre più in difficoltà a gestire il paese. Per il governo in carica districarsi tra le crescenti tensioni internazionali e di area pone un set di ulteriori complicazioni politico-diplomatiche-militari, a cui si sommano quelle derivanti dai severi controlli della Banca mondiale sulle “condizioni macro-finanziarie” del paese, a nome e per conto dei creditori internazionali che detengono il 33% del suo debito.

L’irruzione sulla scena sociale di un grande movimento di masse oppresse e impoverite non disposte a farsi dividere per le vecchie, rancide, vie confessionali e settarie, impone rapide risposte dalla borghesia libanese. La retromarcia tattica di Hariri è una. L’apertura al dialogo di Nasrallah è un’altra. Ma già s’affaccia un’altra manovra diversiva particolarmente insidiosa: quella che punta l’indice sui rifugiati siriani. Il Libano ha 4.5 milioni di abitanti autoctoni, a cui si sono aggiunti un milione e mezzo di “sfollati” siriani, relegati, soprattutto nel nord del paese, in enormi tendopoli, baracche e tuguri. Secondo l’Unhcr il 72% di loro non ha permesso di soggiorno, il 76% vive al di sotto della soglia di povertà, l’88% non ha abbastanza cibo giornaliero, mentre solo il 12% di quelli tra 17 e 19 anni ha terminato la scuola elementare. La loro condizione di deprivazione è tale che molti dei bambini sono costretti a lavorare nei campi per racimolare qualche lira, specie ora che i sussidi statali stanno venendo meno. Quale facile diversivo indicare in loro la “vera causa” del generale impoverimento: “costano” e/o fanno “concorrenza sleale” ai libanesi per il poco lavoro che c’è! E ora che “la guerra in Siria è finita”, la parola d’ordine è : tutti a casa… se ci fosse ancora una casa. Ed ecco, sotto la pressione di esponenti dei più diversi partiti, moltiplicarsi i controlli e le retate dei soldati e della polizia nei campi profughi, per non dire degli incendi dolosi avvenuti negli insediamenti informali. Per cercare di sfuggire a simili rappresaglie, un crescente numero di siriani e di palestinesi (in Libano ce ne sono almeno 250.000 da molti decenni) comincia ad avventurarsi sulla via di Cipro, che dista 260 km dalle coste libanesi. E così si iniziano a contare i morti in mare su questa nuova rotta dei trafficanti internazionali.

Davanti ad un così imponente moto di protesta i rappresentanti più cinici del capitale globale non si sono certo ritirati in buon ordine lasciando campo libero alle rivendicazioni proletarie e popolari. Nel dibattito in corso sul come uscire da questa drammatica congiuntura si sono infilati anche loro, che ne sono tra i massimi responsabili. La loro ricetta è: nuove e più incisive riforme, nuove e più radicali privatizzazioni (nella sua mezza marcia indietro, anche Hariri ne ha prospettate alcune), per rendere più “dinamica” un’economia la cui crescita è bloccata all’1%. Il ricettario liberista fin qui applicato è stato timido; serve l’ultra-liberismo, solo quello potrà risolvere. Quindi fuori dai piedi i politici incapaci, largo a tecnici e tecnocrati – “laici”, aggiunge qualcuno, cioè fanatici fedeli del dio-denaro.

Insomma il grande movimento di lotta in corso è chiamato a fronteggiare una molteplicità di abili diversivi. Né è da escludere che all’occorrenza vengano rinfocolati i vecchi dissidii religiosi, sempre utili, per le classi sfruttatrici, come strumento di divisione delle classi lavoratrici. O che il governo e lo stato (a capo del quale c’è il generale Aoun, massacratore di palestinesi) possano far ricorso alla repressione violenta. Poco più di un decennio fa le masse oppresse libanesi stupirono il mondo con la forza e l’organizzazione della loro resistenza all’attacco di Israele. Ci aspettiamo che siano in grado di farlo un’altra volta battendosi con determinazione contro i loro oppressori e taglieggiatori interni. E che sappiano farlo collegandosi con le risorgenti lotte di massa nel mondo arabo e medio-orientale, anche per contrastare nel modo più efficace la congerie di potenze straniere che accampano, insieme a Israele, il diritto di ingerirsi nelle vicende libanesi. Quanto a noi, il minimo del nostro dovere di internazionalisti è gridare: viva la lotta degli oppressi e degli sfruttati libanesi, viva la lotta delle giovani donne libanesi che sono in prima fila nelle piazze! E denunciare le manomissioni e gli intrighi che il “nostro” capitalismo e il “nostro” stato non cessano di ordire contro di loro.

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In questi giorni le piazze libanesi non sono le sole piazze arabe ad essere affollate e bollenti. Domani, per il trentaseesimo venerdì consecutivo, ci saranno manifestazioni di massa in Algeria “contro il potere ladro, corrotto, autoritario”. Tutto è cominciato il 22 febbraio scorso. L’esplosione del movimento è avvenuta il successivo 1° marzo. In questo caso l’innesco è stato politico: il rifiuto del quinto mandato da presidente della repubblica per il vecchio e malato Bouteflika. L’immediata, spettacolare irruzione delle proteste di massa in tutto il paese, in particolare ad Algeri dove era vietato manifestare dal 2001, ha subito spostato l’obiettivo della lotta alla liquidazione del regime. E da allora i dimostranti non hanno fatto passi indietro, se è vero che domani si manifesterà ancora contro le elezioni presidenziali indette per il 12 dicembre, oltre che per l’immediata scarcerazione dei detenuti politici. Alle elezioni presidenziali una sezione sempre più vasta del movimento oppone la convocazione di una Costituente, un’altra parte delle “vere” elezioni democratiche.

Si può parlare, per l’Algeria, di una svolta storica: sia per l’imponenza e la durata del movimento di massa (nel 2011-2012 c’erano state anche in Algeria delle dimostrazioni, ma non paragonabili con quelle del Cairo e di Tunisi), sia per il suo carattere unitario senza segni di confessionalismo (un’importante analogia con il Libano), sia per l’irriducibilità delle rivendicazioni democratiche e il rifiuto del “dialogo” offerto prima dall’ex-presidente Bouteflika, poi da settori del blocco di potere – un rifiuto che non è caduto nella trappola di rispondere alla dura repressione statale con scorciatoie militariste, come avvenne nell’ottobre 1988 da parte di alcune forze islamiste.

Le radici interne e internazionali di questa crisi politica sono state ben descritte da Hochine Belalloufi su www.alencontre.org del 10 marzo2. Il blocco di potere cementatosi da un ventennio intorno a Bouteflika è raffigurato come permeato dall’ideologia liberista e però, allo stesso tempo, incapace di portare coerentemente a termine le “riforme” che l’ideologia liberista imporrebbe. Privatizzatore, ma sotto il mantello di una formale proprietà di stato. Aperto agli investimenti esteri, ma “ancora” fermo alla legge che prevede il 51% per il capitale nazionale. Aperto al mercato internazionale, ma con una serie di freni alle importazioni. Nonostante la sua partecipazione alle istituzioni internazionali, diffidente verso l’indebitamento sul fronte estero. Da un lato promotore di un processo di forte concentrazione della ricchezza, dall’altro, però, capace di conservare un certo grado (in via di diminuzione) di gratuità dell’istruzione e della sanità pubbliche. In questo modo, col suo procedere a stop-and-go, ha alimentato sia un’opposizione ultra-liberista di stampo comprador legata a settori degli apparati di potere, sia un malcontento popolare decisamente crescente. E se ne capisce il perché dai dati socio-economici:

«La disoccupazione colpisce l’11,7% della popolazione attiva e tocca il 28,3% tra i giovani (dai 16 ai 24 anni). I laureati non trovano opportunità di lavoro, mentre il 43% dei salariati non è dichiarato alla previdenza sociale [lavora in nero]. Il potere d’acquisto di lavoratori, disoccupati, contadini senza terra, contadini poveri, piccoli artigiani e commercianti … è colpito dal combinato effetto dell’aumento dei prezzi, del deprezzamento del dinaro e della stagnazione di salari e pensioni. La riduzione dell’impegno dello Stato nei confronti dell’istruzione e della salute penalizza gravemente le classi svantaggiate. Il potere rimette così in discussione ciò che resta dello stato sociale.»

Per converso le politiche di privatizzazione dei beni pubblici – pur se attuate a metà e a singhiozzo – beneficiano i capitalisti algerini e stranieri, i proprietari terrieri, gl’importatori, i grossi commercianti e le alte professioni liberali, incrementandone gli appetiti. E lo stesso avviene con le pressioni dei capitali e degli apparati politico-militari imperialisti. La porta mezza aperta fa entrare in Algeria di tutto, dalle influenze saudite ormai debordanti in tutto il nord dell’Africa, fino alle prime manovre militari congiunte con gli Stati Uniti (Phoenix Express nel 2018, Flintock 2019), destabilizzanti per un paese che si vuole “non allineato” e che è tradizionalmente legato alla Russia. Sicché

«possiamo concludere che il regime algerino non è né monarchico, né autenticamente repubblicano. Non è né una dittatura, né una democrazia. Né una teocrazia, né un regime laico. Non è a favore dell’imperialismo, ma non è più anti-imperialista. Non è ultra-liberista, ma non è anti-liberista. La sua incapacità a risolvere le contraddizioni della società algerina e di quelle che l’attraversano rinnova in permanenza le condizioni della crisi. Questo immobilismo è rivelatore della sua incapacità di riformarsi [c. n.]. Siamo pertanto condannati – conclude Belalouffi – a rivivere crisi politiche più o meno violente, che rischiano di trasformarsi in una crisi dello stato favorevole alla rivoluzioni, ma pure alle avventure imperialiste.»

Se questa situazione peculiare all’Algeria e tuttavia con tratti in comune a più di un paese arabo, apre oggettivamente spazi alla rimessa in moto del processo rivoluzionario, lo stato algerino fa coscienziosamente tutto quello che può per ostacolare un simile sviluppo. Ed ecco la repressione dei dissidenti e degli attivisti sindacali più combattivi, la compressione estrema del diritto di sciopero, la conversione del Codice del lavoro in un “codice del capitale”, il divieto di manifestare, i fermi e gli arresti arbitrari dei militanti, etc. L’irruzione improvvisa e massiccia del movimento di protesta dei venerdì è il risultato di questo apparente stallo che, un passo dopo l’altro, sta facendo pendere la bilancia sempre più verso le aggressive pretese della componente compradora della borghesia algerina e i programmi dei capitali globali interessati ad affondare le loro grinfie sulle risorse naturali e le carni algerine – in testa a tutti Eni e Total, così come i servizi segreti italiani e francesi furono in prima linea nel guidare la mattanza dei militanti islamisti algerini dopo il 1988.

Questa rivolta popolare, finora altrettanto calda che calma, ha una connotazione sociale largamente proletaria perché è fatta di lavoratori (fu immediata l’adesione al movimento degli operai del complesso siderurgico di Sidi Amar nella città di Annaba organizzati con l’UGTA), disoccupati, pensionati, studenti (in larga misura anch’essi figli delle classi lavoratrici delle città e delle campagne). Ma ha anche un’ampia partecipazione di ceti intermedi, composta soprattutto da donne, non così impoveriti come quelli libanesi o egiziani, desiderosi di godere dei diritti democratici negati a loro e, più ancora, agli strati proletari della popolazione. Come ha notato da subito l’anziano esponente della sinistra dell’FLN Mohammed Harbi, i dimostranti, nell’esprimere il rifiuto non negoziabile del regime, affermano il bisogno fin qui totalmente mortificato di “libertà, uguaglianza e fraternità” che potrà trovare vera soddisfazione solo portando fino in fondo questa sollevazione contro i suoi nemici interni (già usciti allo scoperto) ed esterni (tenutisi finora al riparo).

Non abbiamo informazioni sufficientemente sicure sul processo di auto-organizzazione di queste manifestazioni ed in particolare sulla auto-organizzazione degli operai e dei proletari nelle città, nei quartieri, nei villaggi. Sarebbe estremamente ingenuo pensare, tuttavia, ad un processo totalmente spontaneo. Negli anni di dominio di Bouteflika e dei suoi affiliati non sono stati inesistenti le manifestazioni, le proteste, gli scioperi. E, come si sa, le lotte lasciano comunque sedimenti che riappaiono più vivi di quel che riescano a immaginare i borghesi più sprovveduti e i compagni più disfattisti. Ma appare anche evidente che per ora flirta con il movimento, dall’interno o dall’esterno, pure una parte dell’opposizione neo-liberista estrema al governo-regime, che della libertà invocata e pretesa dai manifestanti ha un’accezione concreta antagonista alla gran parte di loro. Perfino alcuni tra gli alti quadri militari e amministrativi marginalizzati dai circoli di potere (tra essi il più noto è Ali Ghediri) nutrono la speranza di poter rappresentare una “rottura nella continuità” in grado di neutralizzare la forza d’impatto della mobilitazione popolare.

Per intanto una novità positiva di grande rilievo è la perdita di credito dell’islamismo politico che trenta anni fa riuscì a catalizzare lo scontento popolare. Il ruolo degli ex-affiliati al FIS così come quello dei salafiti appare oggi marginale, e la polarizzazione tra islamisti e anti-islamisti fa ormai parte del passato. Questo è un fenomeno trasversale a più paesi, dal Libano all’Egitto, dall’Iraq (dove di recente ci sono state dure contestazioni di massa degli sfruttati delle aree “sciite” ad un governo di cui fa parte anche Moktada-al-Sadr, loro punto di riferimento) al Marocco, dal Sudan alla Tunisia e alla Giordania, tutti paesi nei quali, in un grado o nell’altro, si è fatta l’esperienza dell’islamismo politico al governo o nell’area di governo, e dell’abissale distanza tra le sue promesse di “giustizia sociale” e le sue realizzazioni (in Iran ne sanno più di qualcosa). Non siamo ancora al tramonto di questo fenomeno politico, ma la sua acme è dietro le nostre spalle.

In parallelo, non c’è bisogno di sottolineare il nesso, emerge un crescente protagonismo delle donne, che non è limitato alle donne delle classi medie, e ha molto a che vedere con la necessità crescente delle donne di cercare lavoro fuori casa per sottrarsi alla povertà e con il rifiuto di massa di rapporti tra i generi segnati dal patriarcalismo (di recente, in reazione ad un ennesimo femminicidio, è nato un movimento di donne in Palestina).

In questi mesi in Algeria è avvenuta una rottura sociale, non solo politica, profonda. Nulla resterà come prima, anche se il futuro del movimento è tuttora avvolto in una nebulosa. La accanita resistenza dei circoli di potere, tuttavia, obbliga il movimento a radicalizzarsi se non vuole andare a casa sconfitto – e non pare che ne abbia voglia. Ed ecco che nel trentacinquesimo venerdì le strade di Algeri hanno risuonato di potenti slogan ritmati: “Potere assassino”/”No al regime militare” (dedicati ai militari al potere, e in specie al minaccioso capo di stato maggiore dell’esercito Ahmed Gaid Salah), “I traditori hanno venduto il paese”/”Indipendenza” (per protesta contro il nuovo progetto di legge sugli idrocarburi che allarga le maglie per i capitali stranieri – slogan che certo non piaceranno agli ultra-liberisti), “Liberate gli ostaggi” (riferito non ai soli militanti berberi, ma a tutti gli arrestati di questi mesi di mobilitazione), “Quest’anno non ci saranno elezioni”… La lotta continua, e pare lentamente radicalizzarsi. Di sicuro non potranno prenderne la testa le vecchie formazioni della sinistra algerina (FFS, PT, PST) che appaiono già ora, e non a caso, in ritardo. Altrettanto sicuro è che la prosecuzione della lotta di questa gioventù proletarizzata dovrà dotarsi di nuovi organismi e nuovi programmi di battaglia. E saprà farlo.

Certo, in questi stessi giorni così pieni di lotte e di nuove speranze in diversi paesi del mondo arabo, l’accordo tra Stati Uniti, Russia e Turchia ha liquidato il sogno dei curdi del Rojava, costringendoli – con un brutale diktat – ad abbandonare immediatamente le proprie terre. È una bruciante sconfitta, tale ancor più perché le potenze vincitrici stanno facendo l’impossibile per scavare un fossato invalicabile di odio tra le popolazioni oppresse curde e gli oppressi del mondo arabo. Anche le sconfitte, però, possono insegnare tanto. La storia della rivoluzione sociale in Medio Oriente non finisce qui.

Marghera, 24 ottobre

Il Cuneo rosso

2 Cfr. Hochine Belalloufi, Algérie-Débat: “Rétablir le peuple dans son rôle d’unique souverain par l’élection d’une assemblée constituante”. Mise en perspective, 10 marzo.