Siamo in guerra: Dopo la strage, si ritorna a fatturare
SIAMO IN GUERRA: DOPO LA STRAGE, SI TORNA A FATTURARE
“Pubblichiamo la seconda puntata della nostra cronaca su Confindustria e le sue pressioni durante la pandemia. Qui la prima parte”
Fase due. Facciamo partire la ripresa, è l’ora di ripartire, il paese non può permettersi di perdere altro tempo: questo è ciò che sentiamo ripetere dall’inizio di aprile, quando i dati ufficiali relativi alla diffusione dell’epidemia di SARS-CoV-2 hanno iniziato a mostrare un rallentamento dei contagi [1].
Come nel periodo immediatamente precedente, la costante resta sempre la stessa: il ruolo spudorato, infame e affarista di Confindustria [2]. Quest’ultima, dopo aver parzialmente ammesso alcuni errori di valutazione nelle province focolaio dell’epidemia (senza tuttavia assumersi veramente le responsabilità di quegli errori), ha ripreso il solito refrain: produzione a tutti i costi e “ripartenza” immediata, anche dei settori “non essenziali”.
L’urgenza di ripartire è ovviamente tutta politica. Un’indicazione sulla possibile “riapertura” la fornisce, ad esempio, il pediatra e ricercatore Ernesto Burgio, tra i pochi che, senza facili ottimismi, ha affrontato con franchezza la natura dell’epidemia. Dopo aver notato che “essendo un virus respiratorio, il 90% dei contagi avvengono tra persone che hanno un rapporto diretto, che hanno un’esposizione ravvicinata, in ambienti chiusi. Cioè: famiglia, luoghi di lavoro e purtroppo ospedali. È molto difficile che ci si contagi per strada“, l’esperto ha infatti dichiarato: “Credo che dovremo sperare di poter avere una parziale riapertura di alcune parti del circuito economico-finanziario intorno a metà maggio, sempre che si confermi la quasi-scomparsa dei casi”. Non prima, però, di aver valutato attentamente altre priorità: “la riflessione e gli investimenti dovranno essere indirizzati a ristrutturare quel sistema sanitario nazionale che è stato letteralmente devastato negli ultimi 15-20 anni di politiche liberiste e di privatizzazioni”. E chiosando: “Se non riusciremo a farlo rapidamente è evidente che una possibile/probabile seconda fase sia peggio della prima. Quindi sì alla ripresa dell’economia, ma rafforzando il sistema sanitario, e aiutando i cittadini ad avere una diversa consapevolezza: a essere informati, formati e protetti” [3].
Come ha notato ancora Silvio Paone, dottore di ricerca in Malattie Infettive, Microbiologia e Sanità Pubblica, “tutti i dati ci indicano che una riapertura frettolosa potrebbe avere conseguenze terribili su una situazione che proprio in questi giorni inizia a ridimensionarsi ma che resta comunque drammatica ed allarmante.” [4]
In realtà, ciò che è mancata è stata – piuttosto – proprio la “fase 1”. Il governo ha infatti disposto la chiusura delle aziende non essenziali, ma – tra un elenco estremamente ampio di attività considerate strategiche, le deroghe e le “furbizie” (parola, questa, amatissima dalla stampa mainstream delle ultime settimane) – sono numerosissime le imprese ancora funzionanti: 71 mila sono soltanto quelle in deroga [5], localizzate per il 65% nelle regioni più colpite dall’epidemia (Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna) [6].
È questo il risultato delle famose autocertificazioni, quelle che contano veramente: mentre è tutto un j’accuse e una polemica sulle dichiarazioni individuali per poter uscire di casa (le cui versioni sono, ormai, infinite e incomprensibili), nessuno pare essere in grado di porre il tema della pericolosità insita nelle autocertificazioni inviate dagli industriali alle prefetture di tutta Italia, documenti che permettono di proseguire con la propria produzione senza ulteriori formalità.
Secondo i calcoli effettuati dall’ISTAT, il decreto dell’11 marzo imponeva la chiusura o l’obbligo di lavoro da casa per circa metà delle aziende italiane e, tuttavia, solo un terzo della produzione italiana si è effettivamente fermata. Considerando il numero degli occupati (tra cui anche gli impiegati pubblici), le persone che ancora lavorano in Italia sono pari circa ai due terzi del totale complessivo: più o meno 15,5 milioni di lavoratori (compresi però anche quelli in smart working) [7].
La CGIL Lombardia, ad esempio, stima che sui 1,61 milioni di lavoratori attivi in Lombardia prima del 25 marzo soltanto 30mila persone si siano fermate, dopo l’emanazione del dpcm disponente la chiusura della produzione non essenziale. [8]
Tante sono le segnalazioni sul proseguimento di numerose attività lavorative, anche nelle aree più colpite dall’epidemia. Off Topic News, ad esempio, ha testimoniato come a Milano “il sindaco Sala ha annunciato la ripresa dei lavori in 55 cantieri […]sotto la pressione di costruttori e immobiliari”. Più in generale, la testata ha sottolineato “la pressione congiunta di Confcommercio a Milano e delle Confindustrie di Lombardia, Veneto, Piemonte ed Emilia-Romagna […] le zone del paese che rappresentano il 45% del PIL nazionale e i 2/3 dell’export italiano, dove più estesi sono il tessuto manifatturiero e i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di persone e dove maggiore è stata anche la mortalità.” [9]
Un altro esempio paradigmatico è quello di Piacenza, dove più di 1200 aziende hanno richiesto la deroga per proseguire la propria attività [10]. Diversi infermieri piacentini si sono ribellati a questa situazione, lanciando un appello: “Noi operatori sanitari di Piacenza abbiamo fatto l’impossibile per tutelare la salute di tutti i cittadini, tutti e tutte, nessuno escluso, anche di coloro che si sono messi a rischio, in barba a decreti e provvedimenti. […] Sembrava la fine di una strage senza precedenti. Ora queste autorizzazioni ci fanno temere un pericoloso colpo di coda: non siamo ancora in fase di ripresa, stiamo ancora risolvendo la fase di picco! Davvero vogliamo vanificare gli sforzi? Davvero vogliamo correre il rischio di dover affrontare una nuova fase di emergenza con ripercussioni ancora peggiori sul sistema sanitario e sull’economia? State a casa, fermate le attività ancora per qualche giorno. Invertite la rotta o saremo noi infermieri a fermarci” [11].
Oltre 5000 sono le aziende bresciane che dall’otto aprile hanno comunicato alla Prefettura di Brescia la riapertura a suon di deroghe e cavilli, appellandosi al fatto che le proprie produzioni sono “indispensabili” al sostegno della filiera giudicata essenziale [12].
Le richieste di deroga cadono a piogga, e – valendo il silenzio assenso – non c’è neanche modo di controllarle tutte: “[Al 5 aprile] la prefettura era riuscita ad analizzarne circa 500 – commentava Francesco Bertoli, segretario della Camera del Lavoro – ma intanto le altre sono comunque ripartite, sempre che si fossero fermate”. E il problema non è solo rappresentato dalle grandi aziende, ma anche dalle medie e dalle piccole, “quelle in cui non sempre c’è il sindacato a controllare” [13].
Nell’area del Sebino sono stati proclamati 11 giorni di sciopero alla Lucchini, grande gruppo dell’acciaio con stabilimenti a Cividate, Camuno e Lovere, ossia a cavallo delle province di Brescia e Bergamo, zone ormai devastate dal Covid19. Secondo i sindacati, lo sciopero si è reso necessario per “contrastare l’atteggiamento cieco della Lucchini Rs, che intende riaprire la produzione” e con la quale “non è stato possibile concordare nulla, in ottica di prevenzione e tutela della salute dei lavoratori” [14].
In Veneto, “tirate le somme, su 550mila imprese grandi e piccole, solo il 20% non ha subito il lockdown ma la necessità di resistere al mercato ha fatto scattare l’offensiva”. L’offensiva degli industriali, in pratica, è chiaramente ideologica: non chiudono come fanno credere, ma – nella logica vittimistica del “chiagni e fotti” – si mettono nella posizione di accaparrarsi rendite e profitti spremendo al massimo le risorse (forza lavoro e aiuti di stato) che la situazione gli consente.
La stampa del 9 aprile continua: “E sui tavoli dei prefetti sono arrivate 15 mila domande, con Padova e Treviso a guidare la carica, rispettivamente con 3300 e 2000 richieste di ripresa delle attività” [15].
Gli industriali da settimane sbraitano sulla grossolanità dei criteri adottati per determinare la chiusura delle fabbriche, sulla rigidità del codice ATECO, sull’essenzialità di ogni cazzo di componente prodotta (che guarda caso, nella narrazione industriale, serve sempre per un macchinario ospedaliero, un respiratore, un servizio strategico). L’industria italiana, improvvisamente, si scopre improntata all’altruismo: ogni fabbrica, azienda, ufficio produce almeno un componente essenziale alla salute pubblica, è parte di una filiera necessaria a tutelare la collettività, è operativa – insomma – per il nostro bene.
Tra le richieste arrivate alle prefetture, per fare qualche esempio, c’è anche quella di un’azienda che produce passeggini nel bresciano. Il motivo riportato nella richiesta di deroga? L’azienda vende sul sito Amazon, che essendo nel settore della logistica può tenere aperto [16]. In pratica, per gli industriali italiani è da tenere aperta ogni attività, semplicemente perché i propri prodotti vengono scambiati sul mercato. Amazon come passpartout, dunque, a rimarcare l’ontologica connotazione regressiva della maxi-piattaforma dell’e-commerce. La faccia degli industriali come il culo, a raccontare una volta di più le storie di impresa di questo paese.
Per non parlare dell’industria bellica, neanche lontanamente messa in discussione dalle misure di lockdown. Così a Taranto, dov’è ormeggiata per manutenzione la portaerei Cavour, alla fine di marzo ancora si lavora, perché si deve rispettare la tabella di marcia decisa da Fincantieri e Ministero della Difesa. In realtà, i lavori sono ormai conclusi: “stiamo lucidando maniglie”, testimonia un operaio in appalto [17]. Nel bel mezzo di una pandemia, padroni e generali si mostrano sorprendentemente simili: la guerra, in fondo, non è nient’altro che produzione di morte.
Mentre si invoca lo sforzo della popolazione – con il corredo dei “restate a casa”, delle delazioni, degli episodi insulsi – i dati sul trasporto pesante stanno là a dimostrare qualcos’altro. Con sorpresa della sola redazione di Repubblica, il traffico pesante (in parte legato alla distribuzione alimentare, ma anche connesso a produzione industriale e altre attività) è diminuito nel mese di marzo solo del 25% [18].
Off Topic News argomenta: “I dati sugli spostamenti monitorati dalla piattaforma Covid-19&Mobility conferma che la maggioranza dei movimenti delle persone è dovuto a motivi lavorativi o di sopravvivenza (fare la spesa, andare in farmacia), come dimostra il picco delle persone a casa nei fine settimana (77% il 28-29/03) e una media infrasettimanale del 65%” [19].
E tante altre sono le industrie, le aziende, gli stabilmenti che scalpitano per ripartire. Tra queste, anche la Fincantieri di Monfalcone, che conta migliaia di lavoratori/trici, pronta a riaprire i battenti già il 6 aprile [20].
Il ruolo di Confindustria si conferma, senza alcuna sorpresa, il medesimo dall’inizio dell’epidemia: garantirsi i profitti con il mantenimento delle filiere, variando il registro retorico a seconda delle occasioni (qua minimizza, là invoca la responsabilità, poco oltre si smarca con un “non è il momento delle polemiche” per, infine, rilanciare l’insopportabile discorso sull’utilità della propria linea produttiva) [21].
Perfino le tardive ammissioni di aver sottovalutato l’epidemia, come evidentemente ha fatto la comunità affaristica italiana, non trovano d’accordo tutti. Bonometti (Presidente di Confindustria Lombardia), per esempio, ancora dichiara: “Il vero errore è stato quello di lasciare che la gente andasse in giro, andasse nei bar, nei ristoranti, nelle discoteche”, rigettando così qualunque responsabilità dei padroni delle attività produttive.
Alla domanda su come si possa spiegare, allora, la strage avvenuta in Lombardia e nella bergamasca, la risposta di Bonometti è la seguente: “Ci sono diverse ragioni: innanzitutto qui c’è una presenza massiccia di animali e quindi c’è stata una movimentazione degli animali che ha favorito il contagio, parlo degli allevamenti, e questa potrebbe essere una causa”. Gli animali. Anche di fronte all’ecatombe di morti, mantengono quell’aria tra il cialtrone e l’arrogante, tipica del padroncino arricchito: un’intera categoria sfigurata in volto da fatture e bilanci, che vagheggia, intimidisce, prova a colpire, con il culo comodamente appoggiato al sedile di una Porsche. E che si permette di prendere in giro chi rischia la propria salute per andare in fabbrica.
“In che senso, mi scusi? Gli animali non sono considerati veicolo di contagio di questo virus”.
“Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione, anche se un’altra causa è che si tratta di zone densamente popolate da industrie e quindi la movimentazione delle merci e della gente ha certamente favorito. Non all’interno delle fabbriche, però, perché le fabbriche sono considerate per noi i luoghi più sicuri” [22]
Non all’interno della fabbriche: di questo, noi – costretti tra qualche metro quadro in affitto, un’autocertificazione e il lavoro – dobbiamo stare certi.
La cartina al tornasole di questa insopportabile retorica è rappresentata dai numeri dei controlli promossi dalle forze di polizia: ben tre milioni di accertamenti condotti nel solo mese di aprile, di cui più di 120mila tramutati in sanzioni amministrative [23]; controlli condotti nelle strade deserte, alle poche persone che si avventurano a fare la spesa o una passeggiata, che sono costrette ad andare al lavoro o che cercano un po’ di aria attraverso “normalissime evasioni” [24]. Per quanto riguarda gli accertamenti promossi nelle aziende, risulta invece impossibile trovare un’indicazione numerica complessiva, il che la dice lunga sull’importanza che le istituzioni stanno dando all’argomento.
Sulla stampa, intanto, viene pubblicata la scoperta dell’acqua calda: secondo l’Inail Piemonte, “sono circa 500 i casi di infezione sul lavoro da coronavirus denunciati in Piemonte e quasi 300 riguardano la provincia di Torino; tutti i casi accertati faranno scattare la piena tutela dell’Inail, come per gli altri infortuni o malattie, già a partire dal periodo di quarantena” [25]. È una notizia tutto sommato ovvia: nell’Italia delle misure di distanziamento fisico in vigore da settimane, gli unici luoghi del contagio sono le abitazioni (dove in quarantena sono “isolati” i positivi a SARS-CoV-2 con sintomi lievi o asintomatici), gli esercizi commerciali ancora aperti e le attività produttive in funzione.
Il 9 aprile, sempre sulla Stampa, Paolo Scudieri, presidente del gruppo Adler (componentistica dell’auto) e di Anfia (associazione di Confindustria che riunisce le imprese del settore automotive) dichiara fermamente: “Noi diciamo che la fabbrica è il luogo più sicuro dal punto di vita della salute” [26].
La dichiarazione è pura propaganda: a prescindere dal Covid19, l’Italia conta normalmente tre morti sul lavoro al giorno [27] e nei primi due mesi del 2020 le denunce di infortunio pervenute all’Inail sono state oltre 95 mila [28].
D’altronde, prima del Covid19, l’86% delle aziende controllate nell’anno 2019 dall’ispettorato del lavoro non rispettavano le norme su salute e sicurezza dei lavoratori [29]: perché dovrebbero iniziare a farlo ora? Per senso di responsabilità?
Mentre piove una montagna di liquidità sulle imprese – con gli oltre 400 miliardi stanziati dal governo come garanzia, senza alcuna contropartita se non generiche dichiarazioni di intenti sul rispetto delle misure di sicurezza – continua la baraonda di documenti, lettere e dichiarazioni degli industriali.
L’oggetto del contendere è ormai quello della famigerata “fase 2”, con le Confindustrie del Nord in prima linea nello sproloquiare in proposito.
In un documento dell’8 aprile intitolato “Agenda per la riapertura delle imprese e la difesa dei luoghi di lavoro contro il Covid-19” [30], tra le altre cose dichiarano:
– “In questo gravissimo contesto, la salute è certamente il bene primario, e ogni contributo affinché si possano alleviare e contrastare le conseguenze dell’epidemia è cruciale. […] Dobbiamo tuttavia essere consapevoli che all’emergenza sanitaria seguirà una profonda crisi economica: dobbiamo quindi essere in grado di affrontarla affinché non si trasformi in depressione e per farlo abbiamo bisogno innanzitutto di riaprire in sicurezza le imprese”.
– “Prolungare il lockdown significa continuare a non produrre, perdere clienti e relazioni internazionali, non fatturare con l’effetto che molte imprese finiranno per non essere in grado di pagare gli stipendi del prossimo mese.“
– “Chiediamo quindi di definire una roadmap per una riapertura ordinata e in piena sicurezza del cuore del sistema economico del Paese. È ora necessario concretizzare la “Fase 2”.“
– “Occorre uscire dalla logica dei codici ATECO, delle deroghe e delle filiere essenziali a partire dall’industria manifatturiera e dai cantieri. È una logica non più sostenibile e non corretta rispetto agli obiettivi di sanità pubblica e di sostenibilità economica. Il criterio guida è la sicurezza.“
– “In sintesi, occorre ripartire rapidamente per dare al Paese, alle imprese e ai lavoratori un’agenda chiara ed un quadro certo in cui operare.“
Già dal 6 aprile, Confindustria Udine e Alto Adriatico, Confartigianato e altre categorie economiche, chiedono a gran voce di ripartire [31].
Il governo, nelle ipotesi sulla fase 2, non a caso ha già impostato la road map su questo schema: prima le imprese, poi le persone [32].
Il 9 aprile, sulla carta stampata, escono le prime indiscrezioni sulla discussione in corso tra governo, Confindustria ed esperti. Questi ultimi dicono apertamente: “per noi le condizioni per ripartire non ci sono. E tanto meno per mandare la gente a spasso. Ma se proprio si deve, limitiamo la ripartenza a qualche comparto industriale più essenziale e seguendo le misure di sicurezza che vi suggeriamo”. A cui Conte risponde: “Non posso fare quello che voi dite, l’economia deve ripartire o il Paese rischia di fallire” [33].
Confindustria Udine, a trazione Danieli, evidentemente non si fida delle rassicurazioni. Non trovando niente di meglio, lancia una petizione per proporre Mario Draghi come presidente del consiglio [34]. Ad ognuno i suoi bisogni.
Nelle province di Udine e Pordenone, le aziende che non hanno mai chiuso sono 1677, mentre scalda i motori la Danieli di Buttrio (UD), pronta a ripartire il 14 aprile [35].
Non soddisfatta, la presidentessa di Confindustria Udine si permette persino di dichiarare: “si rischia una strage” [36]. Una strage, spesso silenziosa, è già in corso, ma i timori degli industriali si indirizzano esclusivamente a ricavi e fatturati. Non è necessario alcun giudizio morale – un padrone non è cattivo, è solo un padrone – basta solo la constatazione che la strage, quella vera, è invece l’effetto di quanto vanno evocando: i profitti, le filiere, le commesse.
Il virus nel frattempo dilaga. In provincia di Udine – da Paluzza a Mortegliano – si cade come in guerra, nelle RSA e nelle case di riposo [37].
Ma la parola d’ordine per gli industriali, qualora non fosse ancora chiaro, è una sola: riapertura!
Il campo viene preparato minuziosamente con dichiarazioni ad hoc e una lunga campagna pubblica sulla necessità di ripartire, sciorinata dagli inizi di aprile in modo martellante, scomposto e ricattatorio.
Il 3 aprile, tra le altre cose, viene siglato un accordo tra Confindustria e il Commissario straordinario Domenico Arcuri, per rispondere all’emergenza Covid-19 sostenendo la continuità produttiva delle imprese e garantendo la tutela della salute dei lavoratori [38]. L’oggetto principale del concordato è rappresentato dalla fornitura delle famose mascherine, dispositivi – come notano i WuMing – diventati una sorta di talismano, simbolo di efficienza nell’affrontare le necessità del momento, cioè quelle degli industriali [39].
All’approssimarsi della scadenza del decreto sulle misure di contenimento del Covid-19 – prevista per il 13 aprile – cresce così il dibattito tra governo, imprese, parti sociali ed esperti. Il 9 aprile, la segretaria della Fiom dichiara in merito: “Le pressioni di Confindustria e degli industriali sono cieche – afferma -: più dura l’epidemia, più a lungo l’economia non si riprenderà. Deve essere la comunità scientifica a dirci quando sarà il momento di riaprire”. Per la sindacalista “le regioni del Nord sono proprio i territori in cui il disastro sanitario sta impattando di più anche perché non sono state fatte le chiusure delle imprese nell’immediato, e Bergamo ne è la dimostrazione” [40].
Per gli industriali, la famigerata “fase 2” non sarà poi molto dissimile dalla situazione già in atto: il momento della ripartenza è in realtà un fantasma mediatico da agitare a seconda delle convenienze.
Nel frattempo arrivano anche le decisioni del governo in seguito al confronto con le parti sociali, le cui indiscrezioni parlano di una proroga fino al 3 maggio delle misure restrittive. “Tranne marginali aggiustamenti riguardanti attività connesse ai servizi essenziali, ha spiegato Giuseppe Conte, il resto rimane chiuso fino a nuove decisioni del governo” [41].
“Il resto” è proprio questo: le poche attività industriali rimaste davvero chiuse, i grandi gruppi operanti nel terziario tagliati fuori dalle misure di contenimento, ma soprattutto la selva di artigiani, piccoli produttori, partite-iva e micro-imprese.
Quest’ultimi, spesso equiparabili alla moltitudine di dipendenti precari per salario e condizioni di vita, sono gli unici non-salariati che stanno pagando di tasca propria l’emergenza sanitaria e la necessità (reale) di limitare il più possibile la diffusione dell’epidemia: i soli “indipendenti” che lavorano per tirare a campare e non per accumulare profitti o maxi-bonus, fra i pochi ad aver effettivamente chiuso i battenti delle proprie attività, non disponendo così di un reddito e dovendo sperare di rientrare nelle categorie beneficiarie del fantomatico bonus di 600 euro.
Ai padroni delle grandi industrie, tuttavia, la situazione attuale non basta, e così continuano a rimestare la merda che scaricano su sanità, bilanci e salute collettiva.
Tocca questa volta a Giuseppe Pasini, presidente di Confindustria Brescia (provincia epicentro della strage, seconda in Italia per numero di contagiati assoluti, quinta per contagi sulla popolazione) e proprietario del gruppo siderurgico Feralpi (1,3 miliardi di fatturato, 1500 dipendenti, fermo dal 16 marzo).
– “Francamente non me lo aspettavo [la proroga fino al 3 maggio]. Tutta Confindustria è perplessa, si figuri chi vive e lavora a Brescia, nell’area più a rischio, dove ci sono stati tanti contagiati e decessi”.
La perplessità, frammista all’odio, in realtà è di chi legge. L’intervistatore, non a caso, incalza:
– “Non dovreste essere proprio voi i più sensibili alla salute?”
– “Certamente è la priorità, ma bisogna chiarire che aprire in sicurezza non compromette nulla”.
E poco oltre, di nuovo, il mantra della sicurezza aziendale.
– “Nelle nostre aziende le persone sarebbero più sicure che fuori. Impedire il lavoro senza controllare che la gente vada a fare le passeggiate o le scampagnate, come abbiamo visto questa settimana, non ha senso”.
Tre milioni di controlli contro quanto?
Pasini continua fra codici ATECO, chiusura delle aziende bresciane per la perdita delle commesse all’estero e una lieve ammissione che negli ultimi giorni le aziende stanno effettivamente riaprendo, ritornando poi all’affarismo di sempre: “A Brescia [la nostra azienda è chiusa] totalmente dal 16 marzo, con 850 dipendenti in cassa integrazione, mentre la parte tedesca tra Dresda e Lipsia va alla grande: almeno lì si fattura”. Conclude, infine, con un cenno sulla pioggia di liquidità prevista dal governo: “È un pacchetto virtuale sotto scacco della burocrazia, la rovina dell’Italia” [42].
Al 16 aprile, in Italia si contano ufficialmente 22.170 morti per Coronavirus (di cui oltre 11mila nella sola Lombardia), circa 3.000 persone sono ricoverate in terapia intensiva, 169.000 sono state contagiate. Quante fatture per ogni caduto?
Dello stesso registro le dichiarazioni di Maurizio Lupi, uno dei simboli del comitato d’affari lombardo (sanità/comunione&liberazione/confindustria/politicalocale), che al diffondersi delle ultime indiscrezioni posta prontamente sui social: “Leggo che ripartiremo dopo il 3/5, ma pochi giorni fa Conte aveva detto che eravamo pronti per la fase 2. Il Paese non può stare fermo altri 24 giorni. La vita non è solo quella biologica. Abbiamo il dovere di salvare il nostro #MadeInItaly. Con gradualità, ma dobbiamo ripartire” [43].
Nella serata del 10 aprile, Conte ufficializza in conferenza stampa la decisione del governo: prolungamento delle misure in corso fino al 3 maggio, con la sola riapertura di librerie, studi professionali e negozi per bambini. Tutto continua come prima, dunque, ma con le rassicurazioni del caso. “Il secondo segnale di Conte mira a tacitare lo scontento del mondo imprenditoriale. È quell’invito alle imprese di sanificare le proprie strutture: una sorta di «preparatevi e abbiate fiducia» che forse aprirete prima. Accompagnato da una frase evocativa di più orizzonti: «prometto che se anche prima del 3 maggio si verificassero le condizioni, cercheremo di provvedere con ulteriori aperture. Non possiamo aspettare che il virus sparisca. Dobbiamo ripensare le nostre organizzazioni di vita»” [44].
Ovunque, dopo le ultime decisioni del presidente del consiglio, circola il timore che i cittadini “rompano le righe”. Tradotto in un’altra prospettiva, che le persone si accorgano del bluff, chiusi in casa e impossibilitati a muoversi all’aria aperta anche in sicurezza e mantenendo il distanziamento fisico, quando invece imprese e moltissimi altri luoghi di lavoro proseguono le attività provocando proprio quegli assembramenti in luoghi chiusi da cui gli esperti mettono in guardia.
Chi lavora lo sa, e se ne accorge. Per questo, di nuovo, la prospettiva dello sfruttato svela sempre con maggior chiarezza la verità dietro la cortina fumogena che avvolge il paese.
Le dichiarazioni di Conte provocano, però, anche un nuovo giro sulle montagne russe della miseria dell’impresa. Tocca questa volta a Gabriele Buia, presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori. Vale la pena ricordare che i cantieri edili, nel nostro paese, sono tra i luoghi di lavoro più insicuri, costellati da sfruttamento e lavoro nero.
“Riaprono le librerie? Con tutto il rispetto per la cultura, ma i libri non si possono comprare su internet? Sono pazzi. Quale beneficio economico pensano di produrre in questo modo? E la sicurezza come pensano di garantirla?” [45].
È proprio la domanda che ci piacerebbe fargli, sotto interrogatorio però.
Inutile aggiungere, poi, che anche il settore culturale ha lavoratori e lavoratrici che non se la passano bene [46], anche qui è tuttavia evidente che il beneficio economico di cui parlano si misura non in salari, o in ricchezza collettiva, ma in utile netto, che i padroni si intascano sulla pelle di una popolazione mandata al macello.
Ma è al buio di Buia che bisogna tornare. Perché pare sempre più evidente che quanto pronuncia Conte – “dobbiamo ripensare le nostre organizzazioni di vita” – rischia di toccare esclusivamente l’esistenza di individui, sfruttati/e, precari/e e poveri/e, senza tangere minimamente l’organizzazione delle imprese e il loro modo di produrre. Non a caso, il presidente dell’Associazione nazionale dei costruttori insiste proprio su cantieri e investimenti: come se la cura del cemento fosse una verità inconfutabile che non può essere messa in discussione neanche da una crisi pandemica come quella attuale.
“Dobbiamo per forza accelerare tutti i processi e questo rinvio non fa bene al settore perché ormai siamo alla stremo“, dichiarano dal settore delle costruzioni. Aggiungendo, in questa perenne oscillazione tra polemica e richiesta di denaro: “Ci aspettavamo un po’ più di attenzione, perché superata l’emergenza sanitaria la grande sfida sarà sugli investimenti infrastrutturali che saranno i primi a partire” [47].
La crisi colpisce a fondo il sistema economico, e può provocare effetti imprevedibili, disoccupazione di massa e nuova precarietà, come anche ristrutturazioni imponenti e accelerazioni repentine nella composizione del capitale e nell’organizzazione complessiva dei comparti produttivi e logistici. Come scrivono dalla Grecia, paese che ha già sperimentato sulla propria pelle gli effetti di una ristrutturazione violenta ad opera della cosiddetta “Troika”:
“Senza ignorare l’importanza della Salute pubblica, che è attualmente messa a dura prova da parte di un virus incontrollato, riteniamo che il nucleo della gestione pandemica non sia tanto di ripristinare la sicurezza sanitaria, quanto di affrontare le sue conseguenze devastanti sull’economia. Lo scoppio della pandemia non si è verificato in un tempo storico neutrale, ma durante cambiamenti epocali, avviati, almeno nell’ultimo decennio, dallo scoppio della crisi capitalista globale. È un dato di fatto, quindi, che la gestione della crisi sanitaria sia incorporata nella più ampia gestione della crisi del sistema e dei deadlock che si sono creati. […] Pertanto, l’arresto della produzione, la riduzione o l’annientamento dei profitti e l’accumulo di debiti per un certo numero di settori strategici (turismo, energia, commercio), creeranno un radicale riarrangiamento del mercato con chiusure aziendali e licenziamenti di massa” [48].
La corsa al riarmamento di quella che da più parti viene definita “economia di guerra” è quindi il nocciolo duro delle pressioni dei capitali e del settore imprenditoriale: nella dinamica del capitale – che più che un blocco monolitico, è l’esito dinamico della composizione di articolazioni e interessi – si tratta di mettersi in una posizione di forza, acquisire vantaggi strategici che permettano di guadagnare terreno nella rincorsa allo sfruttamento di risorse e forza lavoro.
Perché anche di forza lavoro bisognerà parlare e, sulla base dei nuovi fabbisogni dell’organizzazione capitalista, valutarne le conseguenze sull’economia complessiva. “Di quanta forza lavoro ha attualmente bisogno il capitalismo, e di quanta ne avrà bisogno domani? Quali dimensioni è destinata a raggiungere la schiera degli inutili al mondo? La necessità di serrare le vite di tanti uomini e donne alle catene del lavoro salariato con la prigione, il marchio a fuoco e con la forca, quali corrispondenze conserva con l’oggi? E ancora, quali porzioni di territorio restano da colonizzare per dar sfogo, isolare e valorizzare, come in passato, chi è di troppo?” [49].
Tra gli annunci di Conte, ce n’è uno interessante sotto questo profilo: la costituzione di una task force di esperti, guidata dal manager Vittorio Colao, che avrà il compito di “dedicarsi alla ricostruzione del Paese dopo il coronavirus, producendo proposte capaci di modificare la «qualità della vita», «ripensare modelli di vita sociale» e della organizzazione del lavoro” [50].
Il comitato d’affari lavora dunque su più fronti, in una guerra permanente che ha dichiarato ad intere popolazioni. Il suo interesse diverge ormai radicalmente dallo stesso obiettivo della sopravvivenza, in un processo che, a guardarlo fino in fondo, appare del tutto irreversibile. Lavoro e salute, oggi, non sono conciliabili. L’impresa, e l’organizzazione stessa della produzione, sono sempre più incompatibili con una gestione collettiva della crisi epidemica. La frattura sociale si estende, non c’è più tempo né modo per una sua ricomposizione, neanche di facciata. Tuttavia, il capitalismo non è per questo in crisi, ma nutre la propria accumulazione sulla crisi, è la crisi stessa. E in ogni crisi, nessun esito è scontato. Resta da sciogliere perciò il nodo fondamentale: chi riorganizzerà gli ambiti della vita e del lavoro? Saranno un’altra volta quelli del diktat a fatturare? E in che modo? Con la violenza di nuovi morti e nuove oppressioni? Permetteremo questo?
Finito di redigere in data 17/04
Ieri Confindustria ha trovato il tempo di eleggere il suo nuovo Presidente nazionale: si tratta di Carlo Bonomi, precedentemente a capo di Assolombarda, l’associazione di categoria dell’area di Milano, Monza, Brianza e Lodi. Supportato da Bonometti, presidente di Confidustria Lombardia (citato nel nostro testo per l’ottusità delle sue dichiarazioni), appartiene all’ala stragista del conglomerato padronale. Mentre riceveva le entusiastiche congratulazioni di Attilio Fontana (Presidente della Regione Lombardia), tra le sue prime dichiarazioni da neo-Presidente si segnalano: “occorre far riaprire le produzioni” e “non pensavo di sentire più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Sentire certe affermazioni da parte del sindacato mi ha colpito profondamente. Credo che dobbiamo rispondere con assoluta fermezza”. La sua elezione è una dichiarazione precisa: significa “ci rivendichiamo tutto”. Il modello Lombardia, che è poi il modello Italia, non può far altro che combattere la sua guerra fino in fondo, non facendo altro che confermare quanto abbiamo scritto: per usare le loro sporche parole, occorrerà senz’altro assoluta fermezza. [51]
[1] Sui dati ufficiali e quelli reali dell’epidemia ci sarebbe molto da discutere. Proprio in quei giorni sono uscite le prime statistiche dell’ISTAT sulla mortalità generale ( http://www.salute.gov.it/portale/caldo/sismg/SISMG_sintesi_2020w11.pdf), uno dei pochi dati affidabili perché ottenuti attraverso campionamenti omogenei: come previsto, si è trattato di un massacro avvenuto silenziosamente tra le mura di casa, delle RSA e delle case di riposo. Sui comuni di cui abbiamo a disposizione i dati, l’ISTAT ha fatto un raffronto tra le prime tre settimane di marzo e le media dello stesso periodo negli ultimi cinque anni. Risultato: decessi raddoppiati nel nord Italia, in provincia di Bergamo quadruplicati (a Bergamo, solo la metà di questo incremento di mortalità è riconducibile “ufficialmente” a Covid19; oltre 2000 morti non sono stati testati…) – tra i morti in eccesso c’è da fare poi la distinzione tra diretti da Covid19 senza tampone e indiretti (cioè dovuti, per esempio, al collasso del sistema sanitario, ecc.)
Qui una prima lettura: https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/04/01/coronavirus-diretta-istat-nel-nord-italia-i-decessi-sono-piu-che-raddoppiati-nei-primi-21-giorni-di-marzo-a-bergamo-mortalita-337-conte-firmato-dpcm-restrizioni-prorogate-fino-al-13-apr/5756205/
Qui una mappa con gli incrementi che possiamo calcolare: https://twitter.com/matheusagaso/status/1245399244565090305/photo/2
Qui una mappa che rappresenta visivamente la situazione di Bergamo: https://twitter.com/RossanoGuerri/status/1245473070841769987/photo/1
Qui una spiegazione di perché le previsioni ufficiali non sono affidabili: https://www.ilpost.it/francescocosta/2020/04/12/i-dati-ufficiali-non-avevano-senso-prima-e-non-hanno-senso-adesso/
[2] Per una ricostruzione dettagliata del ruolo di Confindustria nella gestione dell’epidemia, si può vedere il testo “Siamo in guerra: storia di una strage” https://web.archive.org/web/20200323235136/https://www.facebook.com/notes/collettivo-tilt-resistenze-autonome-precarie/siamo-in-guerra-storia-di-una-strage/626425264586539/
Ernesto Burgio, diverse settimane prima, aveva approfondito in una trasmissione radiofonica alcuni aspetti relativi all’epidemia di SARS-CoV-2: https://www.ondarossa.info/redazionali/2020/03/coronavirus-origini-effetti-e
[4] https://www.facebook.com/DatiAnalisiCoronavirus/posts/127320662221451?__tn__=-R , dove si può leggere un buon approfondimento che mette in relazione le pressioni degli industriali con le misure di contenimento dell’epidemia.
[5] La Repubblica (edizione cartacea del 08/04/2020), pdf disponibile su rassegna stampa di Confartigianato (pag. 28): https://www.confartigianato.it/wp-content/uploads/2020/04/202004080739483096.pdf
Fino a 110 mila comunicazione di deroga alla prefettura su scala nazionale, secondo altre fonti: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/15/la-ripartenza-la-fretta-e-lautogol/
[6] https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-per-80-mila-aziende-fase-2-gia-iniziata-aperture-in-deroga-664724.html e https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia
[7] https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia
Secondo l’ISTAT, “oltre la metà dei lavoratori dell’industria e dei servizi privati va al lavoro anche in tempo di lockdown. Si tratta del 55,7%. Milano, con il 67,1 per cento, è perfino oltre la media nazionale.”
http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/04/15/la-ripartenza-la-fretta-e-lautogol/
[10] https://www.telecolor.net/2020/04/piacenza-1-300-aziende-chiedono-la-deroga-per-lavorare/
[11] La presa di posizione degli infermieri: https://www.piacenzasera.it/2020/04/lappello-degli-infermieri-alla-prefettura-stop-alle-attivita-o-saremo-noi-a-fermarci/336986/#.Xozp8iSJq_o.twitter
[12] https://www.radiondadurto.org/2020/04/09/covid-19-in-quali-condizioni-hanno-riaperto-e-a-quali-voglio-riaprire-le-aziende-a-brescia/, dove si possono ascoltare anche prese di posizione di sindacalisti e lavoratori nell’area del bresciano.
[13] https://www.rassegna.it/articoli/la-fretta-delle-aziende-e-i-dubbi-della-scienza
[15] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile
[16] https://www.ilpost.it/2020/04/08/lavoro-coronavirus-italia
[17] https://www.rassegna.it/articoli/sulla-nave-militare-al-lavoro-come-se-nulla-fosse
[19] https://t.me/offtopic_lab
[20] https://twitter.com/FaberCova/status/1245641870518046728/photo/1
[21] Una buona ricotruzione delle pressioni degli industriali nel cuore dell’epidemia (leggi: strage) lombarda, si può trovare anche in questa puntata del programma Report: https://www.raiplay.it/video/2020/03/Report—La-zona-grigia-d2723d6e-ca03-426f-9223-6945f1bebe50.html
[23] Dati ufficiali dei servizi di controllo della Polizia: https://www.interno.gov.it/it/coronavirus-i-dati-dei-servizi-controllo
[24] Raccolta di racconti di “evasioni” fatta dal collettivo Alpinismo Molotov: http://www.alpinismomolotov.org/wordpress/2020/03/19/quarantena-molotov-normalissime-evasioni-prima-puntata/
[26] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile
https://cadutisullavoro.blogspot.com/
[33] La Stampa, edizione cartacea del 9 aprile
[34] https://www.draghiperitalia.it/
[35] https://twitter.com/ConfindustriaUd/status/1247780224076378112/photo/1.
[37] Qui un thread che raccoglie alcune notizie a riguardo: Il 10 aprile, sull’onda di altra inchieste simili in giro per il paese, il procuratore capo di Trieste ha reso noto di aver aperto un’inchiesta sulla gestione delle case di riposo nel corso dell’emergenza COVID19, senza tuttavia aggiungere altro (https://twitter.com/TgrRaiFVG/status/1248617697379676161)
[39] https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/obbligo-mascherina/
I Wu Ming, in particolare, mettono in luce l’utilità alla retorica imprenditoriale della proliferazione dell’obbligo di indossare le mascherine nei luoghi pubblici: “In questo modo la narrazione mediatico-governativa riuscirà a sopravvivere nella fase 2, a rigenerarsi contraddittoriamente, allentando la presa sulla libertà di movimento per salvare le attività produttive e al contempo omologando e militarizzando ulteriormente la vita sociale.”
[41] Corriere della sera, edizione cartacea del 10 aprile
[42] La Stampa, edizione cartacea del 10 aprile
[43] https://twitter.com/Maurizio_Lupi/status/1248556114880483329
[44] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile
[45] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile
[46] Per un approfondimento su come se la passano librerie e case editrici durante l’emergenza Covid si può leggere https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/sisyphus-coronavirus-editoria/
[47] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile
[49] https://macerie.org/index.php/2020/04/07/dietro-langolo-pt-1/
[50] La Stampa, edizione cartacea dell’11 aprile
[51] https://ilmanifesto.it/trionfa-il-falco-bonomi-e-subito-attacca-governo-e-sindacato/
QUI SOTTO LA PRIMA PARTE DEL TESTO:
SIAMO IN GUERRA: STORIA DI UNA STRAGE
L’epidemia da Coronavirus, tra le tante cose, ci consegna anche la temperatura della questione sociale nel nostro paese. Il contagio biologico è stato solo il terreno – devastante – su cui si è innestata la coltura del virus sociale. Ci dicono che siamo in guerra contro un nemico invisibile: in realtà, ce ne sono diversi che senza alcun pudore si sono messi in mostra.
Perché, mentre partiva la caccia alle streghe del runner solitario, c’era chi era costretto – giorno dopo giorno – ad andare a lavorare. È il caso di chi opera in settori essenziali (sanità, logistica, trasporti, grande distribuzione, servizi di pulizia), ma anche di molti operai e impiegati costretti al lavoro in settori secondari e non indispensabili. Come e chi li ha tutelati? Dopo le zone rosse di Lodi e Vò Euganeo, infatti, il governo ha progressivamente esteso le restrizioni a tutto il paese, senza tuttavia imporre lo stop alle attività produttive, nemmeno nelle province più colpite dall’epidemia, come Bergamo e Brescia. Intanto, arrivava la notizia della morte di due dipendenti di Poste Italiane in provincia di Bergamo, mentre segnali ancora più allarmanti riguardavano gli operatori sanitari: secondo i dati dell’ISS, più del 9% dei casi totali di Covid-19 in Italia era personale medico, trovatosi, fin dall’inizio dell’epidemia, insufficientemente protetto per “mancanza di risorse”.
La tanto sbandierata tutela del lavoro era in realtà uno specchietto per le allodole. La guerra era prima di tutto una guerra di classe, in cui interessi ben precisi – da tempo consolidati dalle dinamiche neoliberali – emergevano nell’attacco deliberato rivolto alle proletarie di questo paese. Termini antichi? Forse, ma almeno in grado di rappresentare l’asprezza dello scontro che si sta consumando. La strage che sta avvenendo ha dei responsabili: per non dimenticarli, teniamo traccia della cronaca di questa guerra. Perché almeno una cosa vera l’hanno detta: siamo in guerra; se da una parte del fronte ci sono i lavoratori e le lavoratrici mandate al macello, dall’altra risiedono interessi ben precisi. È una classe, quella imprenditoriale, che mai come oggi – a nostra memoria – si è mostrata per quello che è: affarista, predatoria e miserabile.
Cerchiamo di ricostruire attraverso la cronaca e le dichiarazioni degli ultimi giorni quali sono state le priorità per una parte di questo paese, mentre un’altra era ormai in isolamento sociale da settimane.
Parliamo di Confindustria. Ipotesi: strage.
Secondo le loro stesse ammissioni ufficiali, “già dai primi segnali di allarme dell’emergenza Coronavirus in Cina, data la portata dell’impatto della situazione sanitaria anche sulle attività economiche, Confindustria ha costituito una Task force interna coinvolgendo i responsabili delle Aree di competenza su tutte le tematiche oggetto di interesse.” Per fare cosa, verrebbe da chiedersi? Fare lobbying e indirizzare le scelte politiche di contrasto al contagio da Coronavirus: “La Task force, punto di raccordo tra Confindustria e gli attori istituzionali, risponde in maniera puntuale ed efficiente alle esigenze del Sistema associativo” [1].
Diverse sono state le prese di posizioni locali, anche nelle province lombarde più colpite dall’epidemia, con focolai ormai fuori controllo [2]. Il 28 febbraio, per esempio, Confindustria Bergamo rassicura i partner esteri con un video che titola: “Business in Bergamo is running” [3]. Il rischio è minimo, dicono, e tutte le precauzioni sono state prese. Non a caso, il 27 febbraio, era uscito un documento congiunto del maxi cartello corporativo formato da Abi, Coldiretti, Confragricoltura, Confapi, Confindustria, Legacoop, Rete Imprese Italia, Cgil, Cisl, Uil: tutti assieme appassionatamente a dichiarare “dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate” [4].
L’imperativo era ed è uno solo: normalizzare. Il business deve correre. Corre veloce, però, anche l’epidemia. Il rischio aumenta: risulta ormai chiaro che i focolai locali in alcune province lombarde siano in crescita esponenziale. “In molti casi, la malattia peggiora così in fretta che anche quando i sintomi diventano molto gravi, spesso non c’è tempo di procedere al trasporto [in ospedale]. Un numero non quantificato di persone, quindi, muore a casa o nelle case di risposo spesso senza finire nei conteggi ufficiali. […] A Bergamo il numero di morti è così alto che l’unico forno crematorio della città non riesce a gestire il numero di corpi che arriva ogni giorno” [5].
Alla spicciolata alcune fabbriche iniziano a chiudere. “Le chiusure sono state imposte dalle proteste, dalla crescita dell’assenteismo e dal crollo degli ordinativi, dice Eliana Como della Fiom-Cgil che è a Bergamo e da fine febbraio invoca la chiusura totale delle produzioni non necessarie”.
Il 14 marzo viene trovato l’accordo sul protocollo Confindustria-Sindacati relativo alle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Presenti Cgil, Cisl, Uil, Confindustria e Confapi. “Tredici i punti del protocollo[…]: informazioni; modalità di ingresso in azienda; modalità di accesso dei fornitori esterni; pulizia e sanificazione in azienda; precauzioni igieniche personali; dispositivi di protezione individuale; gestione degli spazi comuni (mensa, spogliatoi, aree fumatori, distributori di bevande e snack); organizzazione aziendale (turnazione, trasferte e smart work); gestione degli orari di lavoro; rimodulazione dei livelli produttivi; gestione entrata e uscita dei dipendenti; spostamenti interni, riunioni, eventi interni e formazione; gestione di una persona sintomatica in azienda; sorveglianza sanitaria, medico competente, Rls; aggiornamento del protocollo di regolamentazione” [6].
La salute è la priorità, si affrettano a dichiarare un po’ tutti. Ma la produzione, per ora, non si ferma. Già dalla settimana del 9 marzo monta la protesta, nascono scioperi spontanei, Confindustria si trova praticamente isolata nel pretendere la prosecuzione dei propri affari. Il 10 marzo gli operai scioperano spontaneamente alla FIAT di Pomigliano: abbandonano le linee di produzione perché non ritengono sufficienti le precauzione adottate [7]. E sono tante le attività e i servizi rimasti aperti dove lavoratori e lavoratrici non sono messe nelle condizioni di lavorare in sicurezza, perché non vengono garantite le misure di protezione [8]. Chissà che luoghi di lavoro aveva in mente il Presidente di Confindustria Giovani quando definiva “irresponsabili” gli scioperi spontanei di quei giorni! [9]
Qualcuno prova a leggere i focolai epidemici nel paese anche in funzione delle attività produttive ancora operative: un discorso complesso, privo di dati certi a supporto, ma che segnala la questione reale che molti fanno finta di ignorare. Mentre il paese è fermo, con le scuole chiuse da quasi un mese (per alcune regioni del nord) e le limitazioni alle libertà personali in vigore dal 10 marzo (con il noto decreto “Io resto a casa”, che estende le restrizioni già previste al nord a tutto il paese), sono solo le attività produttive, insieme a quelle commerciali necessarie, a non fermarsi. Stampa e social network, invece, in una campagna sempre più parossistica, se la prendono con chi passeggia o va a correre.
Mentre sembra che alcune rappresentanze di Confindustria a livello provinciale e regionale siano ormai convinte dell’ineluttabilità della serrata, e d’altronde tutt’attorno lo scenario di morte e collasso sanitario è sotto gli occhi di tutti, in giro per il paese è ancora un valzer di dichiarazioni di responsabilità: “Continuare l’attività durante l’epidemia di Coronavirus non è un capriccio o un atto di incoscienza. Non lo è a Prato come non lo è in altre aree del paese. C’è un significato profondo sia economico che civico nel provare a portare avanti le nostre attività”. A parlare è Confidustria Toscana, il 19 marzo [10].
Il sodalizio degli industriali, tuttavia, non è soddisfatto. Il 20 marzo se ne esce con un documento di proposte, intitolandolo “Affrontiamo l’emergenza per la tutela del lavoro – Proposte per una reazione immediata” [11].
Da sottolineare, “per la tutela del lavoro”. Le statistiche di questi giorni, a prescindere dalle modalità di tamponamento, sono impietose (e probabilmente al ribasso [12]): salgono i morti, crescono i ricoverati, le terapie intensive in alcune Regioni sono ormai alla saturazione. In Lombardia, la locomotiva italiana, è una strage. La classe padronale – perché di responsabilità di classe nella diffusione di quest’epidemia stiamo parlando – non contenta, ancora incalza. Potrebbe andarsene in quarantena nelle ville di lusso, cogliere il danno, farsi da parte. Invece no, deve comandare, suggerire, indirizzare.
Il documento che pubblica Confindustria, in sostanza, è una richiesta di denaro pubblico, per attivare “un ingente flusso di liquidità attraverso garanzie e finanziamenti agevolati che consentano di diluire nel lungo termine l’impatto della crisi senza appesantire eccessivamente i debiti pubblici nazionali”. Favoriscono una strage e poi chiedono soldi per tutelare il lavoro, ovvero i loro saggi di profitto. Non c’è una misura che parli di lavoratori, salari, sicurezza sul lavoro, a parte questa: “la concessione, a richiesta ma senza obblighi documentali, del pagamento diretto da parte dell’INPS delle integrazioni salariali anche per le imprese che hanno riduzioni o sospensioni di orario con intervento della cassa integrazione COVID 19”. Senza obblighi documentali, paghi lo Stato, in sintesi.
L’apice lo raggiungono, però, con la richiesta di istituire un “Comitato Nazionale per la tutela del lavoro, che rappresenti un luogo permanente di confronto politico ed economico e che intervenga con immediatezza individuando le azioni, le soluzioni e le risorse di volta in volta necessarie affrontare l’emergenza nella sua evoluzione”. Formato da chi? Governo, imprese e banche [13]. Per la tutela del lavoro.
È un tic che gli parte continuamente: per parlare di impresa e profitti utilizzano l’eufemistica espressione della “tutela del lavoro”. Lo fa anche la Confederazione spagnola di [delle?] organizzazioni aziendali (CEOE), per limitarsi a un altro esempio: “mantener la actividad protegiendo el empleo [mantenere l’attività proteggendo l’occupazione]” [14].
Non c’è uscita pubblica che non metta le mani avanti in questo modo. Proteggere l’occupazione, tutelare il lavoro.
Questa retorica è tipicamente neoliberale. Non fai impresa per i profitti, ma per creare posti di lavoro, come pia concessione alla società, senza ammettere che in realtà hai bisogno di quei lavoratori proprio per estrarre i tuoi guadagni. Ecco, questa pappa che ci hanno rifilato per anni, oggi si scontra con la realtà: erano e sono evidentemente i profitti il principio del far impresa, tanto da essere disposti a sacrificare i lavoratori per assicurarseli, anche in situazioni epidemiche fuori controllo.
Il 21 marzo esce un’intervista su “la Stampa” a Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria [15]: “Si aspettava la violenza con cui il coronavirus si è abbattuto su Bergamo?”, gli chiedono. “Dicono che le aziende non hanno chiuso anche grazie alla nostra pressione. Non ci aspettavamo un’epidemia del genere. Ma noi non siamo virologi, non è il nostro mestiere. Abbiamo sottovalutato la situazione? Può darsi. I problemi ora mi paiono altri.”
E ancora:
D: “Cosa direbbe se il governo decidesse di fermare le aziende in alcune zone del Paese?”
R: “Non spetta a noi fare queste valutazioni [ma come, e la pressione di cui sopra?] Spettano agli esperti della sanità e della politica. La Lombardia è il cuore pulsante dell’economia italiana. Se finora le aziende sono rimaste aperte, è stato per evitare di rimanere tagliata fuori da filiere importantissime della manifattura mondiale. Ora siamo entrati in una fase del tutto nuova: l’emergenza è continentale.”
D: “Quindi se sarà necessario fermare le aziende non direte nulla? È così?”
R: “Gli imprenditori sono i primi ad essere preoccupati. Per noi la cosa più semplice in questo momento sarebbe chiudere tutti i capannoni senza assumerci nessuna responsabilità né penale né nei confronti del paese. Per noi conta guardare avanti. Se il governo deve fermare tutto in alcune zone del paese, lo faccia. Non spetta a noi deciderlo. Sia chiara però una cosa: stiamo combattendo una guerra, e per non trovarsi solo con macerie bisogna occuparsene ora”. Vittimismo, omertà, paraculismo, mentre si mettono sul piedistallo della responsabilità e scaricano la patata bollente su altri: un compendio della classe imprenditoriale del belpaese.
In pratica si rivendicano le pressioni dicendo che non potevano mica sapere, ma si lasciano scappare che l’hanno fatto solo per interessi di filiera (la stessa adesso completamente saltata, comunque…), invitano ora a guardare avanti e a non concentrarsi sulla strage compiuta, e poi mostrano il loro senso di responsabilità nei confronti del paese. Quale? Quello della produzione! Le macerie di cui parlano non sono quelle della sanità pubblica, ma quelle del loro sistema produttivo.
Nella stessa edizione de “la Stampa” del 21 marzo, in un articolo si ricorda che dal 16 marzo (le misure di isolamento sociale sono del 10 marzo) “in Lombardia hanno già chiuso Brembo, Gefran, Beretta, Alfa acciai, Lonati, Lucchini, Riva acciaio, Acciaieria Feralps, per citare solo le più grandi.” A Bergamo le aziende già chiuse sono il 65%: il 35% quindi ancora lavora.
“Ma chiudere non è facile se sei Mario Gualco, meccanica di precisione, le loro viti pure sui treni USA, 10 dipendenti di cui 6 in servizio a Erba in provincia di Como, 1 milione di fatturato: «se la prendano prima con chi va a spasso. Sono loro il vero pericolo. Chiudere 15 giorni si può fare, ma ci vuole un intervento del credito e del fisco. Nei miei calcoli nei prossimi due o tre mesi ho già perso il 30% del fatturato. Non ci dorme di notte»”.
Eccoli i padroncini di provincia: prima minacciano, se la prendono con “chi va a spasso” e poi battono cassa.
“O se ti chiami Paolo Catalfamo, fabbrichetta di serramenti a 10 km da Orzinuovi, 35 morti in due settimane su una popolazione di 12 mila abitanti, 8 operai tutti a casa da mercoledì per una settimana almeno: «Spero di riaprire. Ci sono gli ordini da onorare. Fatturo 1 milione, il 50% con l’estero»”.
Ma i fenomeni sono ovunque: “Lo dice Marco Bonometti, 65 anni, presidente di Officine Meccaniche Rezzatesi vicino a Brescia e di Confindustria Lombardia: «La verità è che le aziende che si potevano chiudere lo hanno già fatto. Ora non si tratta più di un problema regionale o nazionale, ma europeo. Stanno chiudendo i gruppi internazionali, dunque serve una consapevolezza più ampia della questione e tutta l’Europa devi fermarsi»” [16].
Le viti e i serramenti non potevano non essere prodotti. Necessità, ovvero mantenere la competizione a livello europeo. Dicono ora, “chiudiamo tutti, pari e patta”, ma solo dopo un calcolo preciso: tenere in piedi la produzione fino a quando anche gli altri paesi hanno mollato il colpo (e non gli arrivano più materie prime o comande da esportare). Hanno fatto il conto delle morte per i loro schei, sulla pelle di lavoratrici e lavoratori, mai come prima proletari/e, cercando di guadagnarci fino all’ultimo minuto utile (e c’è chi ancora sta tirando sta corda della vergogna, non soddisfatto di quanto è già riuscito a mettere in cassaforte).
Siamo in guerra! Lo dice, in fondo, anche Confindustria!
Intanto si moltiplicano gli scioperi dei lavoratori nel bresciano, “perché in reparto mancavano mascherine, guanti, gel e non erano garantite le distanze di sicurezza” (e parliamo di fonderie!).
“Andrea Donegà di Fim Cisl Lombardia racconta quello che sanno tutti: «gli imprenditori dicono che in mancanza di un divieto continuano a produrre»” [17].
Nel frattempo, a Udine resta attivo il gruppo Danieli (multinazionale con sede a Buttrio, leader nella produzione mondiale di impianti siderurgici, 11 mila dipendenti nel mondo, di cui il 40% in provincia di Udine in diverse aziende controllate). Il 18 marzo è risultato positivo al coronavirus un dipendente di Danieli Automation (che ha sede sempre a Buttrio), a casa per malattia dal 13 marzo. “Il Gruppo ha in vigore ormai da due settimane una serie di misure per ridurre il rischio da coronavirus. In Danieli Automation, circa 400 dipendenti, società specializzata nell’automazione, informatizzazione e controllo dei processi siderurgici, circa il 65% degli addetti è operativo attraverso lo smart working, e quindi lavora da casa, il 18% [ovvero oltre 70 persone] è presente in azienda, il restante è in ferie. Questo ha consentito di distanziare le postazioni di lavoro per garantire le distanze di sicurezza.”, scrive il Messaggero Veneto [18].
Al 30 giugno 2018, il fatturato di Danieli ha toccato i 2,70 miliardi di euro, utile di 58,4 milioni.
È una delle tante situazioni che si presentano un po’ dappertutto. Mentre si tenta di rassicurare i lavoratori sulla loro salute, il contagio avanza anche nelle fabbriche. Il 21 marzo, arrivano dunque le dichiarazioni di apertura di Confindustria nazionale (e di quelle locali, soprattutto lombarde, che da diversi giorni sono sempre più preoccupate di essere considerate causa dell’espansione dell’epidemia). Gli imprenditori cominciano ad accorgersi che, ormai, non conviene più proseguire forsennatamente la produzione. Inizia così un confronto tra governo (sollecitato anche da alcune Regioni) e parti sociali.
“Il fronte sindacale è compatto. Quello delle imprese meno. Confartigianato, Legacoop, Confapi, Rete Imprese Italia sono per la serrata d’Italia. Confindustria frena, chiede tempo per ragionare [fino all’ultimo, dunque, continuano a raschiare il barile dei loro profitti]. Ma non è un’opposizione rigida: propone di usare gradualità, di non intervenire con l’accetta per tutti i settori e ovunque, con più severità in Lombardia e meno altrove. La riunione straordinaria di oggi, convocata da Palazzo Chigi in videoconferenza, era stata chiesta da Cgil, Cisl e Uil che avevano scritto al premier Conte chiedendogli di fare un punto sul Protocollo per la sicurezza sui luoghi di lavoro, siglato con i rappresentanti delle imprese giusto una settimana fa. E sui provvedimenti a sostegno dell’economia. Ma soprattutto per valutare la situazione nelle fabbriche” [19].
Il 21 marzo, in serata, l’annuncio di Conte: è in arrivo un nuovo decreto che prevede la chiusura di tutte le attività produttive ritenute non essenziali. Dodici giorni dopo l’estensione delle misure di contenimento a tutto il territorio nazionale. Venticinque giorni dopo la chiusura di scuole e università nel Nord Italia.
Ma non è finita. Il giorno successivo il decreto tarda. Confindustria batte i pugni sul tavolo e pretende una serrata graduale, unita alla garanzia che attività non essenziali possano ugualmente proseguire la produzione per ragioni sostanzialmente economiche [20]. Il decreto finale garantisce così l’apertura “anche [del]le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere delle attività di cui all’allegato [cioè quelle ritenute essenziali e strategiche]” [21] e lascia tempo alle imprese, fino al 25 marzo, per organizzare la progressiva chiusura, continuando a sacrificare la salute di lavoratrici e lavoratori sull’altare degli interessi economici. Inoltre, ulteriori spiragli sono previsti per garantire la prosecuzione dell’attività economica nelle industrie capaci di esercitare la necessaria pressione sulle istituzioni pubbliche (il decreto indica, infatti, la possibilità di continuare le attività degli impianti a ciclo produttivo continuo, anche quando non connesse all’erogazione di un servizio pubblico essenziale, “previa comunicazione al Prefetto della provincia ove è ubicata l’attività produttiva, dalla cui interruzione derivi un grave pregiudizio all’impianto stesso”).
I sindacati confederali denunciano che l’elenco delle attività essenziali è stato ampliato rispetto a quello precedentemente negoziato e minacciano mobilitazioni, fino allo sciopero generale, che tuttavia non viene ancora ufficializzato [22].
Si chiude così la cronaca di queste settimane, di una strage annunciata, consapevole, perpetrata. Mentre una nuova settimana si apre con gli scioperi in tutto il Paese e le priorità di chi lo governa appaiono sempre più evidenti.
Finito di redigere in data 23/03.
Note:
[1] https://www.confindustria.it/coronavirus
[3] https://www.confindustriabergamo.it/comunicazioni/news?id=34783
[5] https://www.ilpost.it/2020/03/19/morti-bergamo-statistiche/; per approfondire, https://www.ecodibergamo.it/stories/bergamo-citta/quasi-mille-morti-nella-bergamascai-sindaci-ma-sono-molti-di-piu_1346006_11/. Probabilmente saremo in grado di valutare l’entità di questa strage solo quando usciranno i dati ISTAT sulla mortalità di questi mesi da confrontare con l’anno precedente.
[6] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/14/coronavirus-firmato-protocollo-per-sicurezza-lavoratori-si-ad-ammortizzatori-sociali-e-pausa-attivita-conte-italia-non-si-ferma/5736397/. Il testo del protocollo è consultabile qui: https://i2.res.24o.it/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2020/03/14/Protocollo%20condiviso_docx-1.pdf
[12] https://www.francescocosta.net/2020/03/19/dati-ufficiali-illusione-ottica/
[13] https://twitter.com/dariodivico/status/1241082434537631745/photo/1
[14] https://www.elperiodico.com/es/economia/20200315/ceoe-cepyme-ayudas-coronavirus-7890520
[15] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo
[16] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo
[17] La Stampa, edizione cartacea del 21 marzo
[21] Il testo del decreto: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-03-22&atto.codiceRedazionale=20A01807&elenco30giorni=true