Dietro l’angolo Pt.2 – CABLAGGI DI STATO

Da Macerie 16 aprile 2020

QUALCHE IPOTESI SU COVID 19 e SUL MONDO IN CUI VIVREMO

 

La retorica di un crescente benessere che il capitalismo avrebbe pian piano assicurato un po’ a tutti, è ormai morta e sepolta da tempo.
L’immagine con cui le autorità hanno tentato di rappresentare il mondo riservato alla gran parte degli uomini e delle donne, è diventata più simile a una scala a pioli, cui bisogna tentar di restare aggrappati con le unghie e coi denti, per evitare di cadere giù ai tanti scossoni che le vengono dati.
Una scala cui continuano a togliere punti d’appoggio, mentre aumenta il numero di uomini e donne in cerca di un appiglio. La prepotente entrata in scena del Covid19 minaccia di renderla ancor più carica e traballante.
Tenteremo di approfondire la questione in un testo che uscirà a puntate, una a settimana, in cui se ne affronteranno di volta in volta alcuni specifici aspetti. Un testo redatto a più mani, da alcuni compagni che partecipano alla redazione di questo blog e da altri che invece non ne fanno parte. I singoli capitoletti potranno quindi avere uno stile e magari dei punti di vista diversi o contenere delle ripetizioni.
Del resto le possibilità di confrontarsi collettivamente in questi giorni sono notevolmente ridotte e discutere attraverso piattaforme online non è certo la stessa cosa che farlo vis a vis.

Cablaggi di Stato

Nella crisi sociale attuale la domanda che maggiormente sembra assediare milioni di individui asserragliati è quella su cosa accadrà dopo che la fase più acuta di emergenza sanitaria sarà finita. Il talismano naïf dell’andrà tutto bene non convinceva neppure all’inizio del domiciliamento, figurarsi dopo settimane in cui alla vecchia e nota miseria si sono aggiunte in un sol colpo le esistenze precarie di coloro che non hanno risparmi e le incertezze sul futuro dei “garantiti”, certamente ammaccati da anni di stagnazione ma finora mai privati del fine settimana in centro e delle ferie.

Un pensiero insidioso si è palesato sin da subito: l’affaire coronavirus non prevede un ritorno alla ‘normalità’ che lo ha preceduto. Se questa constatazione ormai radicata non può che essere foriera di una serie di inquietudini comprensibili e umane, non fosse altro per i piccoli sprazzi di bellezza che ciascuno tratteneva nella propria mesta quotidianità o per le rodate tattiche di sopravvivenza, i sovversivi non possono che tentare di vedere delle possibilità nella breccia inferta al Moloch che fino qualche mese fa sembrava non poter essere scalfito. Del resto la consapevolezza che la normalità pre-pandemia sia stata il problema primario non è più appannaggio di sparuti gruppi di sognatori.

Per far sì che non ci si fermi alle consapevolezze sarà però necessario fare i conti con la velocità con cui lo Stato potrebbe riorganizzare la sua riproduzione o di alcune sue propaggini “strategiche”, adattarsi ai nuovi scenari e affinare i propri strumenti. In questo senso, per rispondere alla domanda su cosa avverrà dopo, già si sono tenute numerose tavole rotonde tra governo e amministrazioni locali per la concessione di poteri extra-ordinari e la ridiscussione degli ambiti politici. Contrattazioni politiche, negoziazioni e redistribuzioni di potere, elementi complessi già da tempo sul piatto del federalismo fiscale, ora assumono la dimensione di vera e propria frizione tra alcuni presidenti di regione e il governo centrale. In una disputa su chi applica misure maggiormente adeguate, molti amministratori locali hanno imposto per il contenimento del virus più restrizioni o persino dettami diversi rispetto a quelli dei decreti-Conte, basti pensare alle zone rosse comunali o sistemi di lockdown più ferrei in alcuni territori. Se questo modus operandi si presenta a un primo livello come mossa di governance necessaria nell’emergenza che ha coinvolto in misura differenziata il paese, non si può pensare che non avrà ripercussioni politiche durature e di vasto campo. La richiesta di “pieni poteri” fatta dal piemontese Alberto Cirio, esautorata in lungo e in largo come un’esagerazione, è sicuramente più di un’esternazione mal riuscita. La forte rilocalizzazione politica avvenuta negli ultimi anni, specie per quanto riguarda le principali città, è stata già normata dagli ultimi decreti legge sulla sicurezza. Al ruolo dei sindaci-sceriffo o ai poteri aggiuntivi dati ai prefetti potrebbero presto aggiungersi quelli alle Regioni per far fronte alle varie “calamità naturali”. Poteri che, come ci insegna questo virus, saranno sempre meno basati sulla prevenzione generale per volgersi verso il governo del rischio. In un mondo di incertezza fisica ed economica, il contenimento e lo spostamento straordinario di masse umane per ragioni non più presentate come politiche e con cause rintracciabili, ma di forza maggiore e con un certo fatalismo (malattie, terremoti, crolli, valanghe, innalzamento dei mari), potrebbero entrare come strumento indispensabile nella cassetta degli attrezzi degli amministratori dei territori considerati particolarmente a rischio.

La ridefinizione degli ambiti di governo si inserisce in ristrutturazioni di altro livello in nuce già da tempo. I cambiamenti nel campo della cittadinanza e missione etica dello Stato non tarderanno a evidenziarsi infatti come il più grande sconvolgimento sul lungo periodo e la definitiva fine della modernità.

Negli ultimi anni abbiamo già intravisto un riposizionamento dei confini dell’universalità della tutela dello Stato rispetto a qualche decennio fa. Sappiamo bene come l’accessibilità ai diritti ha sempre risposto a criteri immanenti al ruolo che gli individui svolgono nella valorizzazione del capitale e all’esigenza che ne consegue di interiorizzazione di un sistema di norme basato sulla dicotomia inclusione/esclusione, tuttavia non si può negare come in buona parte del‘900 lo stato sociale sia stato una coperta ampia. Da lì tutta la retorica sull’universalità del diritto al benessere e alle pari opportunità di riuscita sociale garantite da uno Stato finalmente nel suo ruolo di padre di famiglia. Retorica questa che nello stesso momento in cui veniva sbandierata dalla sinistra, era già in procinto di essere spaccata pezzo a pezzo attraverso riforme, riformine e riformette.

L’apoteosi di questa sottrazione inesorabile si è avuta nel passato recente quando i vari diritti raccontati come conquiste si sono trasformati in ambiti di sempre maggior esclusività il cui ingresso, che sia in un’università, in una clinica o in una casa di proprietà, non è che la soglia che divide i cittadini che contano qualcosa, perché profittevoli o particolarmente devoti, dalle masse di individui che accedono ai servizi di welfare ormai solo occasionalmente. L’esempio più lampante è giustappunto quello della sanità pubblica, in cui la possibilità di riuscire a prenotare visite specialistiche è così ridotta da costringere le persone a utilizzare, in caso di aggravamento, i servizi d’emergenza del pronto soccorso.

Questo dimostra che lo Stato nelle sue compagini non è un risultato definitivo, come l’immaginario da fine della storia ha imposto a lungo, ma un continuo scontro di forze reali di cui la democrazia liberale degli ultimi quarant’anni è solo un risultato che ha incluso anche il contentino modestamente generoso dato ai vinti dell’assalto al cielo. Generoso proporzionalmente al rischio sventato di un sovvertimento generale. Non ci porterebbe molto lontano farci cullare dalla retorica dei diritti sociali negati. Non è che una preghiera lamentosa recitata a un dio che ha concesso la manna dal cielo solo quando il rapporto di forza strappato coi denti dagli sfruttati rischiava di mordergli anche il culo. Non essendosi riproposto per decenni quel pericolo alle calcagna, sventato lo scontro sovversivo, lo Stato ha semplicemente riposizionato le sue risorse tra le componenti padronali che gli esercitano maggior pressione, lasciando echeggiare nell’aria solo un piagnisteo socialdemocratico che implora per un diritto ormai solo nominale.

Le difficoltà crescenti nel mondo degli esclusi e di coloro che si trovano nella zona grigia del rischio di povertà non sono tuttavia per le istituzioni un problema di poco conto. La realtà materiale della società è ciò a cui guarda l’ordine prettamente repressivo attraverso la sfera penale. Il nemico per lo Stato ha acquisito nella confusione sociale e nell’indeterminatezza economica del nuovo millennio dei tratti meno identificabili, non più solo quelli del sovversivo, dello sfaccendato o del vagabondo. La ricerca dello sfuggente fattore criminogeno, lungi dall’essere una procedura speciale di polizia, è la stessa che blinda con checkpoint gli eventi urbani, controlla scrupolosamente ogni angolo con la videosorveglianza, presidia permanentemente determinate zone con forze di polizia: è la società stessa ad apparire come pericolosa perché per di più composta da individui non più normati da un lavoro stabile, da una fede partitica o dalla morale del vangelo, non più accompagnati con attenzione da strutture socio-sanitarie o dagli altri sistemi di welfare che ne consentivano la riproduzione in quanto lavoratori e il ricatto in quanto esistenze senza più autonomia.

I sistemi forti di welfare sono quelli che in passato hanno avuto il ruolo di accompagnamento più significativo alla sicurezza sociale, come controllo ramificato della popolazione che agiva ben prima della galera. Lavorare per pagare mutuo e macchina, la certezza di cure serie e costanti, il sogno dell’ascensore sociale per la prole e di una vecchiaia retribuita sono parti di un percorso preciso e ordinato che più generazioni hanno attraversato.

A questo paradigma preciso si è contrapposto quello delle ultime generazioni, non più irregimentate da una promessa di vita stabile e senza mappa per il futuro. L’indeterminatezza sociale è del resto ciò che ha alimentato negli ultimi anni il crescente ruolo della polizia e le legislazioni sulla sicurezza, atte a proteggere dal pericolo rappresentato dagli impoveriti e dagli sfiniti le zone ritenute strategiche per l’economia e per il suo ambiente (centri città, dipartimenti infrastrutturali o industriali, quartieri dei ricchi, parchi naturali protetti).

Da tutto ciò si evince che lo spazio di cittadinanza in cui è piombato il Covid-19 era nella sua sostanza già notevolmente riconfigurato. L’epidemia sembra imponga un momentaneo cortocircuito, e ciò che pare importi generalmente a tutti è la sua fine. Se in questo momento lo Stato si propone nuovamente come il soggetto impegnato a fronteggiare una minaccia universale, si può immaginare che fra poco potrà apparire come colui che ha fatto il necessario o, ancora peggio, l’inevitabile.

Come scrivevamo il cosiddetto governo del rischio, con il suo portato di fatalismo e il suo giustificarsi attraverso forze di causa maggiore, riammanta la legittimità statuale dei suoi significati più antichi per quanto riconfigurati.

E gli esempi ungheresi e sloveni sbiadirebbero, nella loro piccolezza, di fronte ad uno Stato che esercita i suoi poteri non più camuffato dietro il consenso o la rappresentanza democratica ma nuovamente votato alla missione etica della sopravvivenza.

In quest’ottica l’ordine sovrano, in linea con la tendenza degli ultimi anni, si potrebbe applicare come il riconoscimento di cittadini ai soli occupati, per tracciare una linea di inimicizia formalizzata, militare, spaziale e di controllo per tutti gli altri.

Per chi ancora si ricorda dell’assalto al cielo sarebbe la conferma di un fronte di guerra che prima sembrava più rarefatto e che ora si farà più netto e preciso.