Un’emergenza sanitaria che viene da lontano

Testo tratto dal sito https://pungolorosso.wordpress.com. Testo che dà uno sguardo d’insieme su come negli ultimi anni in Italia, come in altri paesi, il sistema sanitario sia stato sistematicamente smantellato. Interessanti i dati messi in evidenza.

Un’emergenza sanitaria che viene da lontano

Milano, terapie intensive al collasso per l’influenza: già 48 malati gravi, molte operazioni rinviate. Difficoltà ad accogliere nuovi pazienti, prenotazioni sospese per i posti letto delle rianimazioni destinati ad accogliere i malati dopo le operazioni, turni straordinari (gratis) per medici e infermieri richiamati dalle ferie. Appello dei medici alla Regione. Numeri record. Le complicazioni dell’influenza, soprattutto le polmoniti, mandano in crisi le rianimazioni”.

A Pordenone troppe persone hanno l’influenza e gli ospedali bloccano le operazioni. Sospensione degli interventi chirurgici programmati per liberare disponibilità in previsione del picco del virus, previsto nelle prossime ore. Siamo di fronte ad una situazione senza precedenti.”

Quelli appena citati potrebbero sembrare dispacci di questi giorni dovuti alla emergenza della pandemia da Covid-19. E invece no. Sono solo alcuni dei tanti articoli del gennaio 20181 relativi alla situazione degli ospedali della Lombardia e del Friuli Venezia Giulia, in ginocchio per il picco influenzale invernale. La situazione che stiamo vivendo oggi non ha un’unica causa nella straordinarietà del virus che si sta affrontando, del quale poco si conosce; si deve anche, se non soprattutto, al criminale smantellamento della sanità italiana. Come spiegarsi altrimenti il collasso delle sanità regionali considerate “di eccellenza” avvenuto due anni fa a fronte di una banale influenza? Il criminale smantellamento della sanità italiana ha alle spalle un pluridecennale impegno da parte di tutti i governi, della prima e della seconda repubblica. Prima di vederlo nel dettaglio, però, dobbiamo uno speciale ringraziamento all’ex-ministra della salute (e della disinformazione) Lorenzin. Troppo impegnata a inventare inesistenti epidemie di morbillo nel Regno Unito al fine di imporre d’imperio 10 vaccinazioni obbligatorie qui in Italia, la suddetta signora non ha avuto il tempo di stanziare i fondi per la rete italiana dell’ECMO. L’ECMO, ossia l’ossigenazione extracorporea a membrana (Extra Corporeal Membrane Oxygenation), è una tecnica che supporta le funzioni vitali mediante la circolazione extracorporea, aumentando l’ossigenazione del sangue, riducendo i valori ematici di anidride carbonica, incrementando la gittata cardiaca ed agendo sulla temperatura corporea. Permette, in condizioni di severa insufficienza respiratoria e/o cardiaca, di mettere a riposo cuore e polmoni vicariandone la funzione ventilatoria e di pompa. In sostanza, è una tecnica utilizzata nelle terapie intensive per la rianimazione di pazienti con insufficienza respiratoria o cardiaca grave: proprio quello di cui abbiamo bisogno in questo momento. Nel 2009 erano stati stanziati per la rete ECMO 20 milioni di euro (una goccia nell’enorme bilancio della sanità), ma il dicastero della Lorenzin non l’ha rifinanziato dando forzatamente e ingiustificatamente la precedenza ad altri programmi: con quali conseguenze è oggi sotto gli occhi di tutti. Ma, si diceva, come si è arrivati a demolire quella che i governi italiani e le regioni del Nord hanno sempre vantato come una delle migliori strutture sanitarie al mondo tanto da metterle in difficoltà con l’influenza, figurarsi con il Covid 19? Due sono i processi da prendere in esame.

I tagli ai posti letto e al budget sanitario

Gli ospedali italiani hanno conosciuto una lenta ma inarrestabile riduzione dei posti letto dagli anni ‘90 ad oggi, e contestualmente si è ridotto anche il numero degli stessi ospedali, sacrificando quelli meno specializzati e di prossimità – e la riduzione è stata ancora maggiore se prendessimo in considerazione gli anni ’70 e ’80.

1998

2007

2017

Istituti ospedalieri

1.381

1.197

1.000

Posti letto

311.000

225.000

191.000

Posti letto ogni 1.000 abitanti

5,8

4,3

3,6

I dati disponibili più recenti sono riferiti al 2017 e sono tratti dall’annuario statistico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Il trend è evidente, ed è continuato indisturbato fino ad oggi. I vertici delle sanità regionali e il ministero giustificano i numeri in calo sostenendo che si deve tener conto del miglioramento delle tecniche sanitarie, della lotta ai ricoveri “impropri”, della strategia di ridurre i posti letto ospedalieri per malattie acute a favore di strutture esterne per lungodegenze – senza, però, che queste strutture abbiano mai raggiunto un compimento quantitativo. Evidentemente si è tagliato troppo, la forbice è andata troppo a fondo seguendo più i dettami intoccabili delle politiche neoliberiste che le considerazioni medico-sanitarie. Altrimenti come spiegare che l’influenza del 2018 (non il covid 19) sia riuscita a far collassare le “eccellenze” delle sanità regionali di una delle (ex) migliori sanità mondiali?

Alle terapie intensive, bramate oggi come l’acqua nel deserto, non è andata meglio. Attualmente ci sono 8,5 posti letto in terapia intensiva ogni 100.000 abitanti contro i 35 della Germania. E questo non si può certo ascrivere alle pratiche sanitarie tedesche meno efficienti delle nostre, ma ad uno scellerato, dal punto di vista della salute della popolazione, ma ben ponderato, dal punto di vista del profitto, taglio delle cure di emergenza. I letti per i casi acuti sono passati addirittura dai 922 ogni 100.000 abitanti del 1980, ai 474 del 1997, ai 275 del 2013.

La regione Veneto si rispecchia appieno in questo trend che ha visto dall’inizio del nuovo millennio ridursi i posti per i casi acuti di circa un terzo. La dirigenza sanitaria regionale sostiene che confrontare i dati a partire dal 2002, ben diciotto anni fa, è “irricevibile” perché le tecniche sanitarie sono nel frattempo cambiate. Irricevibile, in realtà, è solo la loro risposta e l’arroganza con cui viene fornita. Irricevibile è la chiusura di una miriade di ospedali di prossimità (che ora ci si affretta a riaprire, almeno per la degenza degli infetti). Irricevibile, inaccettabile è chiudere i pronto soccorso di una città e poi lamentarsi della pressione “sbagliata” degli utenti che per forza si accalcano nelle poche strutture rimaste aperte!

Eppure la spesa sanitaria nazionale è aumentata, sia in termini assoluti che in percentuale del pil, fino al 2010, per un’ammontare di circa 112 miliardi di euro. I tagli, in termini assoluti e percentuali, sono arrivati nel 2011 con il governo Monti e poi nel 2015 con il governo Renzi. Ma la tendenza che vede diminuire le possibilità generali di cura del sistema sanitario partono da molto lontano. Quali sono le ragioni? E perché da molto tempo si assiste alla chiusura e all’accentramento degli ospedali e dei pronto soccorso, alla privatizzazione della diagnostica, a liste di attesa sempre più lunghe?

Lo spostamento dei capitali verso il privato: il primato del profitto a scapito del bene sociale salute

La risposta è semplice: la massa di capitali a finanziamento pubblico investiti nel sistema sanitario è andata sempre più ad alimentare gli interessi delle imprese private che operano nel settori, dai laboratori agli ospedali ai servizi alla persona, dalle mense alla pulizia dei locali. Inesorabilmente, tanto con la spesa sanitaria in crescita quanto con quella in contrazione, l’ingente flusso del budget sanitario è transitato in modo massiccio verso le imprese private, costituendo una vera e propria miniera d’oro per una ristretta cerchia di accumulatori. Qualche ingenuo o qualche indefesso difensore dell’indifendibile potrebbe riproporre il mantra: “il privato è più efficiente, il pubblico è pieno di fannulloni”. Vediamo se i fatti confermano o smentiscono questo mantra.

Al netto di tangenti e malaffare (e delle relative percentuali, almeno in Lombardia da capogiro), il rimborso delle prestazioni private costa di più che lo svolgimento delle stesse in forma diretta da parte del SSN. Nella sola Lombardia al 35% dei ricoveri sostenuti dai privati corrisponde il 40% delle risorse sanitarie regionali. Gli esami ambulatoriali rimborsati dal SSN ai privati non convenzionati costano fino al triplo: in Lombardia, una risonanza magnetica muscolo-scheletrica presso una struttura privata costa a chi la fa privatamente 90 €; ma se l’accesso prevede un rimborso della regione, la Lombardia esborserà 169 €; lo stesso esame in Veneto, a fronte di un costo di 59 €, prevede un esborso di 188 € da parte della sanità regionale. Moltiplicando queste cifre per milioni di esami che annualmente vengono svolti dai privati ma rimborsati dalle casse pubbliche in tutta Italia, si costituisce un fiume di miliardi di euro verso le sanità private, o più precisamente verso i suoi proprietari.

Inoltre i privati si concentrano nell’erogazione di prestazioni e ricoveri più remunerativi, con un margine di guadagno elevato, e non sostengono i costi delle emergenze (come i pronto soccorso) dove invece le spese superano sicuramente le eventuali entrate, e rimangono perciò in carico al sistema pubblico.

1998

2007

2017

Istituti ospedalieri

1381

1197

1000

Rapporto pubblico/privato

64,3 % – 38,7 %

55 % – 45 %

51,8 % – 48,2 %

Potrebbero bastare questi dati.

Ma la sete di profitto è insaziabile, e il margine di guadagno deve essere sempre più alto, passando anche sopra i cadaveri dei lavoratori, costretti a liste di attesa lunghe mesi per un esame, o a non trovare un respiratore libero. Ed ecco che all’inizio del secondo millennio prende luce il mostro del project financing. Secondo la versione ufficiale i privati concorrono in questo meccanismo con capitali propri alla costruzione della struttura (ospedale, autostrada…) ma se ne garantiscono i profitti per 20-30 anni. Il primo caso-modello in Italia (divenuto ora un buco nero della sanità del Veneto) è stato l’ospedale dell’Angelo di Mestre. Nel 2002 l’Aulss veneziana abbandona il vecchio ospedale di Mestre e si mette a costruirne uno nuovo (con diminuzione, guarda caso, dei posti letto totali). L’appalto è vinto dalla Veneta Sanitari Finanza, una cordata di imprese con all’interno l’Astaldi e tutta la cricca ultra corrotta del sistema Mose (ma questi sono dettagli: se per assurdo fossero stati “onesti”, la sostanza non sarebbe cambiata). La regione Veneto decide di non investire in toto capitali propri (in cassa e attraverso mutuo) e chiede la compartecipazione dei privati, il famigerato project financing, appunto. L’ospedale è costato 230 milioni di euro, di cui un centinaio messo dai privati (solo una ventina direttamente!, il resto tramite prestito bancario, come avrebbe potuto fare direttamente l’Aulss stessa). Risultato: ora l’Aulss veneziana deve pagare alla Veneta Sanitari Finanza un canone annuo di 72 milioni di euro per 23 anni, per un totale di 1.656 milioni di euro, oltre ai costi già sostenuti per la sua costruzione. Si ritroverà nella piena proprietà della struttura ospedaliera solo quando essa sarà diventata ormai obsoleta e bisognosa di una profonda ristrutturazione. Si tratta di un canone enorme, che non distingue la quota di servizi erogati e la quota che serve a ripagare gli investimenti (la Regione paga inoltre l’IVA su tutto il canone). Nella quota servizi sono compresi gli esami laboratoriali che vengono svolti per contratto dalla Veneta Sanitari Finanza ad un costo vincolato per 23 anni, legato all’inflazione, decisamente più alto dei costi di mercato. Senza contare gli introiti derivanti dai parcheggi, i servizi mensa e di pulizia. La regione Veneto, in sostanza, sborsa ogni anno decine di milioni di euro in più per garantire il profitto della Veneta Sanitari Finanza, tutte risorse sottratte ad esami diagnostici, servizi territoriali e di emergenza, ai respiratori. Il contratto è talmente oneroso per la Regione e vantaggioso per i beneficiari, che la stessa Regione non ha potuto fare a meno di iniziare una causa per vedere tutelati quei diritti che ha essa stessa letteralmente svenduto. Ora il contenzioso è immerso nelle infinite pastoie della Corte dei Conti e degli arbitrati al fine di recedere almeno parzialmente dal contratto senza penali. Ma ormai il danno (premeditato) è fatto. Quando si dice l’“eccellenza”…

Il magnifico esempio dell’ospedale di Mestre non è rimasto isolato, anzi: visti gli ottimi risultati (per le aziende che partecipano al project financing) a Milano, anziché ristrutturare i due grandi ospedali San Carlo e San Paolo con un un costo tra i 90 e i 120 milioni di euro, si progetta la costruzione di un unico nuovo mega-ospedale con 200 posti letti in meno spendendo 500 milioni di euro con il meccanismo del project financing! A Vicenza stessa dinamica: di due ospedali se ne fa uno con lo stesso meccanismo, sempre con perdita (garantita) di posti letto.

Conclusioni

E in tutto questo processo, cosa ne è stato del personale sanitario? Continua ad essere spremuto, con contratti fermi da anni. L’organico è calato dal 2004 al 2017 di 44.000 unità, ossia del 6,5%. Si impongono straordinari e doppi turni, minando la salute degli operatori e dei pazienti, e si richiamano per fronteggiare l’emergenza Covid-19 medici e infermieri in pensione, esponendo così al rischio proprio gli ultra sessantenni, la classe di età più vulnerabile al nuovo virus; o impiegando neo-laureati senza esperienza nei settori più delicati e difficili come i pronto soccorso.

Si istiga alla caccia agli untori, denunciando quanti passeggiano in solitaria additandoli come i propagatori del covid 19; si gestiscono gli ospedali al peggio, non isolando i pazienti e nascondendo i contagi, come nel caso dell’ospedale di Bergamo, per non dichiarare la provincia zona rossa, come è stato invece fatto a Lodi, al solo fine di non bloccare le imprese del bergamasco e del bresciano e il loro fatturato di oltre 700 milioni di euro. Di nuovo il dio profitto prima di tutto e sopra a tutto. Fabbriche aperte, o da riaprire al più presto, tutte! La pressione, specie nelle regioni del Nord, è violentissima. Tra le produzioni indispensabili sono state incluse, naturalmente, anche le aziende dei sistemi d’armamento, come gli stabilimenti di Cameri a Novara dove si producono i famigerati F-35. Già: l’industria bellica. Mentre la spesa sanitaria decresceva, quella militare è cresciuta di 26 miliardi, passando dal 1,25 % del PIL del 2006 al 1,43 % del 2020. Con la spesa di un solo aereo militare F35 si possono acquistare ben 7.113 ventilatori, come ricordato dal SI COBAS.

Respingiamo la colpevolizzazione dei lavoratori.

«Non è il sistema sanitario, de-finanziato e privatizzato, a non funzionare; non sono i folli decreti che, da una parte, tengono aperte le fabbriche (e addirittura incentivano con un bonus la presenza sul lavoro), dall’altra riducono i trasporti, facendo diventare le une e gli altri luoghi di propagazione del virus. Sono i lavoratori irresponsabili che si comportano male, uscendo a passeggiare o a fare una corsa al parco a inficiare la tenuta di un sistema di per sé efficiente.

«Questa moderna, ma antichissima, caccia all’untore è particolarmente potente, perché si intreccia con il bisogno individuale di dare nome e cognome all’angoscia di dover combattere con un nemico invisibile: ecco perché indicare un colpevole (“gli irresponsabili”), costruendogli intorno una campagna mediatica che non risponde ad alcuna realtà evidente, permette di dirottare una rabbia destinata a crescere con il prolungamento delle misure di restrizione»2, evitando che si trasformi in rivolta verso un sistema che ha minato dalle fondamenta una sanità in grado di tutelare la salute a vantaggio del profitto di pochi.

Non scagliamoci gli uni contro gli altri a caccia dei presunti untori; indirizziamo la nostra rabbia alle vere cause e ai veri responsabili della situazione che stiamo vivendo.

Denunciamo i tagli al SSN, la gestione della spesa pubblica sanitaria in favore dell’accumulazione e dell’arricchimento delle aziende che operano nel privato, la vergognosa conduzione della campagna sanitaria contro il Covid-19.

Cancelliamo le spese militari (armamenti e missioni all’estero) per concentrare la spesa là dove c’è più urgenti sono i bisogni sociali: sulla sanità, anzitutto, e sulle gravissime emergenze sociali prodotte dalla crisi economica innescata dalla crisi del coronavirus.

Rifiutiamo di accollarci altre decine e decine di miliardi di debito di stato! Per rispondere a queste emergenze sociali, imponiamo un’imposta patrimoniale sul 10% più ricco della popolazione, un segmento nel quale si nascondono proprio i grandi profittatori dello smantellamento del sistema sanitario pubblico ed i loro amici delle giunte regionali e del governo.

Rivendichiamo la totale regolarizzazione di tutte le immigrate e gli immigrati costretti alla irregolarità dalla legislazione discriminatoria e razzista di centro-destra e di centro-sinistra, o perché non hanno potuto accedere al permesso di soggiorno, o perché l’hanno perduto, di modo che non siano esclusi dalle cure sanitarie.

30 marzo
Comitato permanente contro le guerre e il razzismo
Piazzale Radaelli 3, Marghera – comitatopermanente@gmail.com