Il coronavirus mette a nudo un altro virus da eliminare: il capitalismo

Segnaliamo questo testo del Collettivo Tazebao riguardo il capitalismo. Le differenze ideologiche, di prospettive emergono nel testo, ma rimane a nostro avviso valido nell’insieme della critica al Capitale come causa della attuale erosione della vita di milioni di sfruttati.

Il coronavirus mette a nudo un altro virus da eliminare: il capitalismo

Le implicazioni che l’emergenza coronavirus getta sul clima sociale-politico-economico del nostro paese e a livello mondiale sono moltissime e si intersecano pesantemente con la crisi strutturale che attanaglia il capitalismo mettendone a nudo tutte le debolezze e l’incompatibilità con il benessere delle masse. Il pesante crollo delle borse degli ultimi giorni e le tensioni seguite al ribasso repentino del prezzo del petrolio sono già chiari indicatori di ciò che potrà svilupparsi nel prossimo periodo e cioè una ripresa prepotente della crisi, che non farà altro che scatenare ondate di fallimenti in seguito al crollo del castello di carte che nonostante la crisi del 2008 hanno continuato a costruire a suon di derivati e magie finanziarie. Una crisi che da una parte acuirà le tensioni tra blocchi imperialisti esasperando tutte quelle dinamiche verso conflitti internazionali (monetari, commerciali, militari) sempre più accesi. Dall’altra verrà scaricata come sempre sulle spalle dei lavoratori e dei proletari come già in questo clima di emergenza sta succedendo.

Ci troviamo in un clima emergenziale di cui, non possedendo le necessarie competenze mediche e scientifiche, non possiamo dire quanto sia proporzionato al reale pericolo sanitario in atto. Esso di sicuro costituisce un enorme banco di prova che le classi dominanti stanno sperimentando e i cui risultati forniranno un enorme bagaglio di esperienze da utilizzare anche in altri contesti, basti vedere come il clima creato e le disposizioni normative adottate assomigliano a quello tipiche dei coprifuochi militari e della controinsurrezione.

Quello che ci interessa mettere in rilievo in questo testo è come il sistema del capitale gestisce l’emergenza nel nostro paese. Una gestione che fa leva sul sentimento comunitario nazionale, del “siamo tutti sulla stessa barca”, che punta a nascondere il marcio che trasuda da ogni dove del sistema. Non siamo affatto tutti sulla stessa barca e la gestione che stanno dando, al contrario di ciò che i media vogliono far passare, è una gestione spudoratamente di classe che sacrifica senza ritegno la salute dei lavoratori sull’altare del dio profitto.

Comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, motivi di salute, rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza”: sono queste le ragioni tramite le quali ci si può muovere, citate sui moduli di autocertificazione. La prima è senz’altro la più diffusa: “comprovate esigenze lavorative”. Ebbene, in barba all’ultimo hashtag #iorestoacasa, milioni di lavoratrici e lavoratori non possono restare a casa: infermiere, collaboratrici familiari, operai, addette alle pulizie, facchini, camionisti, impiegati pubblici e privati, commesse, muratori, operatori ecologici, scaffalisti, partite iva in ogni settore e molti altri stanno continuando le proprie mansioni, salvo veder ridotta la propria agibilità sindacale e politica. Difatti possiamo continuare a lavorare in catena di montaggio, si possono caricare e scaricare camion e pranzare in mensa, ma è vietato convocare un’assemblea sindacale e fare sciopero. Le lavoratrici e i lavoratori della sanità possono continuare a lavorare in reparto, con doppi turni, con mezzi e personale ridotti dai tagli alla sanità pubblica, ma non possono riunirsi in un sit-in di fronte la prefettura, nonostante mantengano il metro di distanza. In generale, quindi, possiamo produrre e andare al centro commerciale a consumare, ma non organizzarci in una riunione o in un presidio.

Inoltre oggi educatrici, artisti, fonici, guide turistiche, allenatori, lavoratori della ristorazione… vedono andare in fumo il proprio monte ore, le proprie ferie o il proprio stipendio e reddito, se non lo stesso contratto – come sta accadendo a molti lavoratori del settore alberghiero, dello spettacolo e del terzo settore. Pensiamo davvero che arriverà un decreto a salvare questi posti di lavoro? O più

probabilmente le grandi aziende useranno l’emergenza per avere maggiore margine di manovra per preservare i propri profitti a danno dei diritti dei lavoratori?

D’altro canto nella sanità, nelle pulizie, nelle consegne e in certi casi nella produzione, le lavoratrici e i lavoratori vedono aumentare il proprio carico di lavoro. Pensiamo in particolare alle donne impiegate nei multiservizi – spesso immigrate – che stanno operando una disinfezione straordinaria negli uffici, nelle mense, nei centri commerciali, nei bagni pubblici, nelle case di riposo – tra sovraccarico lavorativo, stress e turnazioni frammentate – ma che non possono scioperare, come accaduto il 9 marzo. O, ancora, ai tanti riders che stanno sfrecciando in bicicletta per consegnare pasti e spese a domicilio a chi ha il privilegio di poter scegliere se stare a casa e magari giudica chi è costretto ad uscire per andare a lavorare.

Inoltre, pur di non intaccare le logiche del profitto, oggi aziende e media hanno dato abbondante spazio al telelavoro da casa. Un’opportunità che non tutti hanno e che comunque oggi diviene difficoltosa in contemporanea all’accudimento dei bambini a casa da scuola. L’emergenza coronavirus ha infatti palesato ulteriormente il doppio carico a danno delle donne impiegate nella produzione e nella riproduzione capitalistica, ovvero nel lavoro retribuito e in quello non retribuito rappresentato dalla cura della casa, di figli e parenti anziani e disabili. Per di più, per molte donne, la casa non è un ambiente sicuro, ma fonte di violenza. Il patriarcato è una “malattia sociale” tremendamente reale ed uccide quotidianamente nel nostro paese.

Siamo inoltre sicuri che il telelavoro sia un’opportunità reale per la classe lavoratrice? Apparentemente sembra comodo, aldilà dell’attuale emergenza. Ma, in termini reali, significa potenziale estensione del tempo di lavoro a livello illimitato rispetto al proprio tempo personale. Lavorare da casa significa non poter smettere quando si timbra il cartellino, ma quando il lavoro è finito, agli occhi del padrone o del cliente. Inoltre per i lavoratori e l’utenza il telelavoro potrà significare ulteriore tagli alla spesa pubblica (basta un pc in un appartamento invece di un ufficio), ulteriore difficoltà ad avere rapporti diretti e risposte chiare quando si deve andare in uno sportello perché si dovrà mandare la mail, ulteriore isolamento e individualismo installati tra i lavoratori, che non condivideranno più nemmeno lo spazio fisico del luogo di lavoro. Non a caso, con lo scoppiare dell’emergenza, il coro unito della stampa e della politica padronale ha celebrato il telelavoro come panacea di obbligata modernità, prima che prevenzione temporanea contro i contagi.

L’accordo governo-sindacati del 14 marzo, per altro resosi necessario in seguito alla enorme ondata di scioperi che reclama tuttora la tutela della salute dei lavoratori tramite la chiusura di fabbriche e luoghi di lavoro non indispensabili, non dà nessuna risposta alle istanze di chi lavora, anzi. Quel che viene concesso tramite la sanificazione dei luoghi di lavoro, non è che un piccolo contentino che nasconde in realtà che la produzione non si fermerà e che i lavoratori non possono affatto restare a casa, ma devono continuare a produrre per il bene dei loro padroni, questi si al riparo nelle loro lussuose ville o all’estero. Un accordo, è bene dirlo, che ha trovato il beneplacito di tutti i partiti istituzionali di maggioranza e opposizione, nessuno escluso, a dimostrazione che se si trovano spesso in conflitto quando si tratta di dividersi torte e poltrone, si trovano tutti uniti quando si tratta di scaricare le crisi sui lavoratori e sulle masse popolari.

Il decreto del 16 marzo non risolve assolutamente nulla. Sospende i pagamenti che poi puntualmente si riproporranno raddoppiati nei mesi successivi (come già fatto per i terremotati), dà qualche carità di Stato a carico della collettività e non di quel 1% della popolazione che detiene un decimo della ricchezza nazionale, compie degli investimenti tardivi nella sanità pubblica, prevedendo, in questa grave situazione, un’indennità per le cliniche private obbligate a collaborare, quando esse dovrebbe semplicemente essere requisite (l’indennità di quarantena è stata negata ai lavoratori ma i soldi per garantirla ai pescicani della sanità privata si trovano subito…).

In tutto ciò quello che emerge con forza è la centralità della classe lavoratrice per il sistema. Il clima emergenziale che si è creato vale per tutti, ma non vale per i lavoratori. Ci si accorge all’improvviso che la famosa e tanto bistrattata “classe operaia” non è affatto scomparsa e che anzi è sempre e comunque su di essa che la società si regge. La produzione non si può fermare, i lavoratori della sanità decimati da ripetute manovre di bilancio che hanno sacrificato la sanità in favore di armamento e iperammortamenti per gli industriali, devono sputare sangue e possono essere sacrificati per il “bene di tutti”. La ribellione non è ammessa, pena la polizia in assetto antisommossa e i fermi in questura come è successo ai lavoratori di Modena in lotta a tutela della loro salute e in risposta all’ennesima morte di un loro collega.

Serve quindi fare quadrato attorno ai lavoratori per far si che non venga scaricata sulle loro spalle anche questa emergenza e per sviluppare quella conflittualità di classe che ponga al centro dello scontro l’esigenza di un sistema organizzato attorno ai bisogni dei lavoratori e della popolazione e non dei profitti di pochi aguzzini e pescecani capitalisti. Le rivendicazioni che i lavoratori in lotta stanno ponendo (salute sui luoghi di lavoro, rallentamento/chiusura delle produzioni non necessarie, nessun licenziamento in seguito agli scioperi, mantenimento dei livelli retributivi, mantenimento del monte ore ferie, proroga/abbattimento/annullamento di tasse, bollette, rate dei mutui nel perdurare dell’emergenza ecc.) vanno appoggiati e sostenuti con forza perché è proprio su questi punti che il capitale punta per sottometterli ai loro diktat e perpetuare la fonte dei loro profitti.

Emerge con forza poi la questione del sistema sanitario al collasso. Per far fronte al bilancio dello Stato messo in ginocchio dalla crisi, solo negli ultimi dieci anni i vari governi borghesi hanno operato tagli alla sanità pubblica per 37 miliardi di euro, eliminando 70 mila posti letto e 359 reparti – a favore del privato, delle grandi e inutili opere come il Tav, delle logiche di profitto del project financing, delle esternalizzazioni e delle spese militari – con il risultato che oggi, in stato di emergenza, il sistema sanitario è in piena crisi. Totale inadeguatezza dei posti in rianimazione (l’Italia è tra gli ultimi posti con i suoi 3,2 posti per 1000 abitanti contro i 6 della Francia e gli 8 della Germania), enormi carichi di lavoro per gli addetti alla sanità che già lamentano di essere al punto di dover scegliere chi curare e chi no come in stato di guerra e quindi pericolo in aumento per i soggetti più deboli di morire non per il virus, ma per un sistema sanitario massacrato. L’assurdo è che il governo Conte oggi chiama ipocritamente i cittadini alla “responsabilità” di tutti quando è esso stesso un eminente rappresentante di quella classe dominante responsabile dello sfacelo cui tutti stiamo assistendo e subendo.

Un altro fronte in cui l’emergenza virus viene scaricata sui più deboli è quello delle carceri. Qui le condizioni di sovraffollamento e di un sistema sanitario pressoché inesistente creano un clima insopportabile. Anziché dare soluzione al problema svuotando le carceri come ha fatto persino il tanto demonizzato Iran, il ministero della giustizia e il DAP hanno pensato bene di annullare i colloqui impedendo così ai detenuti di essere al corrente di ciò che accade fuori ai propri familiari. Le rivolte affogate nel sangue (ad oggi sono 14 i morti per “overdose” da GOM) altro non sono che lo svelarsi di uno stato assassino, cinico che non ha pietà nemmeno verso coloro cui ha privato della libertà.

Nel clima emergenziale assistiamo poi alla schizofrenia della comunicazione massmediatica in cui si parla molto di ritorno alla “normalità” post “emergenza”, inserendo una terminologia medica a livello politico: l’agente patogeno diventa il “nemico”, che possibilmente proviene dall’esterno (il cinese, l’immigrato). Per questo si chiudono militarmente i confini, ci si chiude in casa contro il pericolo, si insinua il dubbio sul vicino, sull’”assembramento”. Il risultato è l’esasperazione dell’individualismo e la desolidarizzazione sociale funzionali ad un sistema che ci vuole soli e divisi per comandare meglio.

Sicuramente vogliamo prestare accorgimenti e attenzione alle persone più fragili, anziani e immunodepresse. Ma vogliamo anche farci qualche domanda per mettere in discussione l’ambiente che viviamo? Emergenza e normalità sono sicuramente due paradigmi che non assumiamo perché la “normalità” è quella dello sfruttamento capitalistico, è quella della scienza al servizio del capitale, l’ambiente delle zone rosse della pianura padana è quello di una camera a gas e di una lastra di cemento, gli spazi sono quelli della militarizzazione e della censura. Tanto per dare un dato di “normalità” in ambito sanitario: ogni giorno muoiono in Italia 485 persone di tumore e la nocività capitalistica ne porta la responsabilità maggiore, con le malattie professionali, l’inquinamento ambientale, l’avvelenamento dei cibi…

Tutto questo ci risbatte in faccia la verità: il sistema capitalista è incompatibile col benessere delle masse e dell’ambiente in cui viviamo; le modalità con cui viene gestita questa stessa emergenza stanno a significare che per il capitale si può tranquillamente sacrificare la salute dei lavoratori sull’altare del profitto. Consapevoli del fatto che non siamo tutti sulla stessa barca e che pochi hanno molta più responsabilità di molti, iniziamo – come già stiamo facendo – a supportarci nelle difficoltà pratiche che incontriamo nella quotidianità di questa situazione, ma anche ad organizzarci per non far sedimentare uno stato d’emergenza scaricato sulle nostre spalle.

La vera emergenza è il capitalismo e la sua crisi

I lavoratori non devono pagare lo stato d’emergenza!

Solidarietà e piano appoggio ai lavoratori in lotta, ai lavoratori della sanità, ai detenuti e a tutti i proletari che difendono le proprie condizioni di vita!

Mai più tagli ai servizi sociali!

Le crisi e le emergenze le paghino i padroni!

Collettivo Tazebao

collettivo.tazebao@gmail.com