I giorni passano e le porte rimangono chiuse
La metà degli abitanti della terra è oggi chiusa in casa. Le uniche misure che, ci dicono, riescono a rallentare il contagio sono state, in queste settimane, quelle di distanziamento sociale e di isolamento, le quali si sono concretizzate, nel giro di un paio di decreti, nell’applicazione generalizzata dell’obbligo di rimanere chiusi a casa, salvo gli spostamenti necessari per andare a fare la spesa o per motivi di salute, o per andare al lavoro, chi ancora un lavoro ce l’ha. Una condizione generalizzata di vite ai domiciliari: la propria abitazione come luogo salvo dall’epidemia, come ultima difesa da questa.
Ma ci si dimentica in questi tempi che non tutti gli spazi chiusi sono uguali, e il carcere, ovvero il luogo che per eccellenza è separato dal resto del mondo, che per sua stessa concezione è pensato come chiuso dal fuori, perché quel civile mondo possa essere protetto da ciò che là dentro vi è rinchiuso, si dimostra uno spazio aperto, al pari di tanti altri, anche per quel che riguarda il virus. A quasi un mese dalle rivolte che hanno incendiato molte patrie galere, e la relativa repressione che è costata la vita a 15 persone, la situazione non è minimamente cambiata. Se fuori vale il distanziamento sociale, se lo spostarsi o l’assembrarsi sono addirittura passibili di denuncia, sembra che all’interno delle maledette mura di cinta l’unica prevenzione rimanga il silenzio, l’attesa, la totale mancanza di interesse del fuori, e la sospensione di tutti i colloqui con parenti e cari. In un contesto di endemico sovraffollamento e di condizioni di vita alquanto precarie, per far fronte al rischio del dilagare del virus incoronato si dovrebbero aprire quei cancelli come da dentro chiedevano a gran voce, e come già è successo in altre parti del mondo, per fare in modo che quelle mura non si trasformino in veri e propri lazzaretti. Il decreto “Cura Italia” del 17 marzo, invece, non è altro se non una farsa, per rimanere in tema, una gran lavata di mani: non introduce alcuna modifica rispetto alla normativa precedente, la legge 199 del 2010 o “svuota carceri”, anzi forse la irrigidisce: chi ha una pena da scontare non superiore ai 18 mesi ha la possibilità di uscire ai domiciliari, ma con l’obbligo del braccialetto elettronico – cosa che prima non era obbligatoria – , mentre solo chi ha un residuo di massimo 6 mesi può farne a meno. Il Capo del DAP e della Polizia hanno garantito la disponibilità di 5000 braccialetti elettronici, dei quali 920 immediatamente, gli altri dovrebbero essere in funzione in giugno. Se è vero che i semiliberi rimarranno fuori fino al 30 giugno, e che i detenuti sotto un mese di pena da scontare non sarà obbligatorio il braccialetto, una cosa è vera, perdere ore, giorni e settimane per decidere il da farsi è alquanto sadica come questione. Quanti sono effettivamente i braccialetti utili? Quali sono i tempi burocratici per snellire le cartacce legate alle procedure di scarcerazione? Dicevamo che questa situazione si potrebbe definire sadica per due motivi. Il primo è quella burocrazia che ogni persona conosce nella propria vita, cioè una lenta strada cosparsa di porte girevoli, che non si sa mai quando porta a destinazione, e nella “giustizia” i detenuti sanno bene di cosa stiam parlando, soprattutto nelle questioni sanitarie e legate all’uscita dal carcere. La seconda è legata alla inefficienza e al menefreghismo, se non propria cattiveria, da parte delle istituzioni statali che si occupano delle persone detenute nelle varie strutture detentive. Se si mescolano questi fattori intrinseci al sistema di cui stiamo parlando, si ottiene che solo una esigua minoranza uscirà dal carcere in tempo utile per evitare i possibili contagi.
Tale decisione rimane ancora legata al vaglio dei magistrati di sorveglianza, e non passa d’ufficio per decreto: il risultato è che le istanze raccolte fino ad oggi sono pochissime (da Rebibbia sono uscite quattro donne con bambini, a fronte di centinaia di richieste presentate dagli avvocati), nel Lazio solo 53 domande di domiciliari con braccialetto sono state accolte, e nel mentre che si decida il da farsi, chi è dentro rimane dentro.
Mancano le minime possibilità di riuscire a preservarsi, ma – certo! – per fortuna sono state allestite in varie parti tensostrutture, che però saranno unità di accoglienza per i prigionieri positivi, più che veri e propri ambulatori, e se poi queste sono montate nei cortili dell’aria, sotto le finestre delle celle, come è successo a Rebibbia?
In vari in questi giorni gridano all’amnistia, all’indulto, o si pongono domande tra “certezza della pena” e la questione sanitaria all’interno delle carceri. Ma questi sono echi che rimbalzano sul muro di gomma di chi è responsabile della situazione e che non vuole sentire. Ma ricordiamoci bene, che i problemi dei detenuti sono emersi solo quando loro stessi, con la loro lotta, sono riusciti a far sentire la loro rabbia e preoccupazione. Non sono stati i garanti, i magistrati, a sollevare fin da subito la questione, anche loro erano zitti zitti tra le loro scartoffie quando decine di migliaia di persone recluse cominciavano a chiedersi se stare zitti o far tanto di quel casino che avrebbero dovuto ascoltarli, sappiamo bene che far uscire i detenuti e le detenute non porta a nessun consenso nell’opinione pubblica.
Intanto gli stessi detenuti ammalati, e anche degli agenti, da coronavirus vengono trasferiti da un carcere all’altro come è successo a Sollicciano a Firenze, dove un detenuto con 38,5°C di febbre viene trasferito mettendo a repentaglio una situazione che non era ancora in allarme.
Così come gli ospedali del Nord sono diventati i luoghi in cui il virus si è meglio propagato, anche attraverso dottori e infermieri, che dire delle carceri, dove ogni giorno entrano ed escono le varie guardie e il personale sanitario, luoghi in cui è pigiata un’umanità considerata superflua, che vive in celle che contengono fino ad otto persone? Ci sarà ancora qualcuno che si stupirà quando si paleseranno altri gesti di ribellione? Quando gli inni nazionali alla finestra verranno sovrastati dalle urla dei dannati della terra ancora una volta, continueremo a credere alla favola che in questa situazione siamo tutti uguali? Che cosa avremmo in comune con Bonafede, con la marmaglia del DAP, con i militari che proteggono i perimetri carcerari?