Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo

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Bruno Filippi. Proletario, anarchico, dinamitardo
Livragare
«Fu nell’estate del 1919 che in Italia si forgiò la locuzione “fronte interno”: a indicare, scrisse Volontà (il 16 luglio 1919), “la linea di combattimento fra il governo e i suoi satelliti e complici da un lato e dal lato opposto i proletari e tutti quanti aspirano al socialismo, alla libertà, alla rivoluzione. Noi siamo il nemico interno, contro cui ferve la guerra, più aspra e implacabile ancora di quando si temeva o si fingeva di temere che la nostra opposizione giovasse al nemico esterno”».
Così scriveva nel 1979 Vincenzo Mantovani in una nota del suo Mazurka blu. La strage del Diana, libro fondamentale per capire la storia degli anni 1919-1922 a Milano quale laboratorio d’Italia.
Emblematico del rapporto fra guerra, violenza coloniale e repressione anti-proletaria è il verbo «livragare». Precisa sempre Mantovani, in un’altra nota: «Derivato dal cognome del tenente Dario Livraghi, un ufficiale che in Eritrea si era reso responsabile di gravissimi atti di violenza contro gli indigeni, nel gergo politico della sinistra significava “uccidere”, “distruggere”, “annientare”». A Massaua, nel 1891, Livraghi, tenente dei Reali Carabinieri, insieme al segretario degli affari coloniali Eteocle Cagnassi, aveva torturato e fucilato senza processo ottocento eritrei. Lo «scandalo Livraghi-Cagnassi» diede vita persino a una commissione d’inchiesta, funzionale a prender tempo e poi a insabbiare la strage, come avverrà con tutte le altre efferate violenze compiute dal colonialismo italiano. A serbarne memoria, e a schierarla sul fronte interno, il linguaggio socialista e proletario.
In un articolo dal titolo Parla la dinamite! uscito sull’«Iconoclasta!» del 15 settembre 1919, scriveva l’anarchico Bruno Filippi: «Dal 13 aprile ad oggi 54 persone furono assassinate dal piombo regio. Ecco la propaganda dell’odio! Gli incettatori affamano, gli industriali mettono al bivio fra lo sfruttamento più nefando e la fame. […] Dunque la provocazione viene dall’alto. Sono i vari Breda [l’industriale milanese che pochi giorni prima, durante lo sciopero dei metallurgici, era scampato a due attentati] protetti dalla camorra di Stato, sono i Centanni i cinici livragatori di folle, sono i gros bonnet dell’esercito, lordi di sangue e furenti di libidine sadica».
Una rozza calzetta
Quando Parla la dinamite! veniva pubblicato, Bruno Filippi era già morto. Dilaniato, nella galleria Vittorio Emanuele a Milano, dalla bomba che il 7 settembre voleva collocare al Club dei Nobili, «il ritrovo preferito di molti e molto noti aristocratici» nonché di gallonati livragatori di operai e contadini.
Se all’inizio si era pensato a una fuga di gas, l’ipotesi dell’attentato emerse quando un pompiere «vide una scarpa tra i calcinacci e notò, con orrore, che essa conteneva un piede umano fasciato in una “rozza calzetta”». «Il morto era povero, a giudicare dagli indumenti e dalle scarpe risuolate che portava, e dunque non poteva essere un frequentare abituale né del Biffi [caffè-ristorante dell’alta borghesia milanese] né del Clubino [il Club dei Nobili]».
L’imperativo categorico
Proletario e anarchico individualista, il diciannovenne Bruno Filippi era già stato condannato per «minacce a mano armata e resistenza alla forza pubblica». Sempre in prima fila negli scontri con guardie e fascisti, il giovane compagno aveva appoggiato con attacchi dinamitardi lo sciopero dei metallurgici, individuando un nesso chiarissimo tra aristocrazia, industriali e «pescecani» di guerra. Come scrisse «Il Libertario» del 10 settembre 1919: «[…] mentre molte migliaia di lavoratori metallurgici soffrono ogni sorta di privazioni per la caparbietà degli industriali, che durante la guerra hanno accumulato vistose ricchezze, costoro gavazzano nei loro eleganti ritrovi, nelle sontuose villeggiature e nelle stazioni climatiche alla moda». Ed è proprio in uno di quegli eleganti ritrovi, dove non possono entrare né rozze calzette né scarpe risuolate, che Bruno Filippi voleva colpire i livragatori di proletari e i gran signori loro committenti.
«La vita era in lui esuberanza ed energia. Il suo imperativo categorico era il verbo agire», dirà di lui l’anarchico milanese Carlo Molaschi. «Una volta sette o otto studenti interventisti lo assalirono e lo bastonarono ben bene. Egli era solo e disarmato… e dovette lasciar fare. Ma tempo pochi mesi gli aggressori, uno per uno, si riebbero “individualmente” quel che “collettivamente” avevano dato a lui», racconterà Virgilio Gozzoli sull’«Iconoclasta!» del 24 ottobre 1919. Persino l’«Avanti!» ebbe per il giovane anarchico parole di stima: «Bruno Filippi era ben conosciuto negli ambienti politici sovversivi come un idealista devoto alle proprie convinzioni e capace per esse di qualsiasi sacrificio. Nel periodo della neutralità, quando il partito socialista lottava disperatamente per contrastare il prevalere dell’interventismo, il Filippi militò con noi e in più di una contingenza lo vedemmo affrontare – in dimostrazioni non veramente pacifiche – le intolleranze irose dei nemici comuni». Delle motivazioni del giovane anarchico il quotidiano socialista tracciava un profilo tutto sommato onesto: «Le congetture che si fanno sono molteplici, ma quella che presenta maggiore fondamento è che il Filippi abbia voluto colpire i frequentatori del club, che appartengono tutti agli alti ranghi del capitalismo milanese, alla nobiltà, al militarismo. Una protesta violenta sino al fanatismo, che avrebbe voluto fiaccare con un sol gesto tremendo la caparbia volontà di lotta e di resistenza fino all’estremo che spinge i capitalisti milanesi contro quelle maestranze industriali dal cui lavoro, durante la guerra, hanno tratto vistose e immeritate ricchezze». Il giornale del Partito socialista non mancava tuttavia di definire il gesto di Filippi «una follia sterile e vana».
Questa grande e amorosa anima
Così gli rispondeva «L’Avvenire Anarchico» il 12 settembre 1919: «Guardate. Mentre la vita si fa sempre più aspra, misera, tribolata; mentre Nitti prepara l’affamamento di tutte le stentate plebi d’Italia aumentando il pane e tutti i generi di prima necessità, mentre per tutte le città d’Italia si fa scempio della vita umana e Nitti fa l’elogio del carabiniere, e li aumenta, e crea la Guardia Reale per strappare il pane di bocca agli affamati onde dare il 5 e mezzo alla borghesia che provocò la nostra rovina; e il Corriere della Sera fa l’apologia dell’assassinio, mentre voi avete spezzato i moti rivoluzionari del 5-10 luglio per preparare, d’accordo coi gialli di Francia, d’Inghilterra e d’Italia, il gran festival, il fallimento del 20-21 [lo sciopero internazionale del 20-21 luglio a sostegno della rivoluzione russa] e creare l’atmosfera agli esperimenti della Confederazione e alle insurrezioni… elettorali; mentre logorate 300.000 operai, e opponete le zuppe e le processioni calme, educate, ben ordinate; la Rivoluzione ha espresso dal suo turgido seno uno dei suoi numerosi e meravigliosi figli, i quali a prezzo della loro vita, colla voce possente della dinamite vi richiamano alla dura realtà, rimette sulla via maestra il movimento liberatore smarritosi nei tortuosi vicoli della viltà e nei meandri del suicidio volontario». Per concludere: «Salutiamola, o compagni, questa grande e amorosa anima».
Balzo di tigre
«Molto usata nel secondo decennio del secolo, questa parola [livragare] cadde poi in disuso». La pratica, invece, è proseguita, sempre più letale, tecnologica, de-umanizzata.
Mentre i livragatori sono al lavoro in Palestina, e il Club dei Nobili internazionale intasca profitti lordi di sangue, dalle segrete della storia irrompe, con un balzo di tigre, il corpo dilaniato di Bruno Filippi. Il suo incontenibile e tremendo bisogno di giustizia non si lascia scansare. Men che meno con l’esaltazione.
Contro una tale scorciatoia del cuore e dello spirito ci ha ammonito, con più di un secolo di anticipo, Leda Rafanelli: «Può esaltarlo solo chi lo saprà imitare».