Trento: Stecco condannato a 3 anni e 6 mesi

Trento: Stecco condannato a 3 anni e 6 mesi
Ieri si è svolto, presso il tribunale di Trento, il processo di primo grado contro il nostro amico e compagno Stecco, accusato di aver favorito la latitanza dell’amico e compagno Juan e di aver contraffatto dei documenti di identità. Stecco è stato condannato – con rito abbreviato – a 3 anni e 6 mesi di carcere (una pena più alta di quella chiesta dallo stesso PM). Questa sentenza sembra decisamente un monito: chiunque aiuti fuggiaschi e latitanti, la pagherà cara. La condanna di ieri fa il paio con il dispiegamento davvero impressionante di uomini e mezzi che ha portato all’arresto dello stesso Stecco. Su quest’ultimo aspetto, per come emerge dai faldoni dell’operazione “Diana”, uscirà una sintesi di ciò che è utile che compagne e compagni sappiano dell’armamentario del nemico.
Fuori dal tribunale, si è svolto un presidio di solidarietà con Juan e Stecco, in particolare contro l’ennesima imposizione della videoconferenza.
Questo il volantino distribuito:
Un calcolo sbagliato
Questo è il tuo segreto, Butch. Continuano a sottovalutarti.
Pulp fiction
Oggi il nostro amico e compagno Stecco (in carcere a Sanremo) è a processo qui a Trento perché accusato di aver fabbricato dei documenti falsi per un altro nostro amico e compagno, Juan (in carcere a Terni), quando quest’ultimo era latitante. La cosa in sé non richiede grandi parole. Se Stecco ha fabbricato quei documenti, ha fatto bene, perché servivano ad evitare il carcere a un compagno ricercato. Sottrarsi alla polizia politica è una necessità che accompagna da sempre chi lotta per la libertà e per la giustizia sociale. La differenza è che oggi – con la fine dell’“asilo politico” su cui hanno potuto contare per decenni gli esuli e gli oppositori, e il drastico aumento delle forme di controllo tecnologico – è sempre più difficile riuscirci. Una volta introdotti, i dispositivi di sorveglianza possono colpire chiunque (come si è visto, su scala di massa, con il green pass), per cui è necessario non farsi abbindolare dai pretesti con cui vengono giustificati.
Oggi Stecco non sarà fisicamente in aula perché gli è stata imposta la videoconferenza. Quest’ultima, un tempo riservata ai detenuti in 41 bis e poi agli accusati di “terrorismo”, dal Covid in poi è stata estesa praticamente a tutti i prigionieri. In tal modo, il detenuto non può vedere facce amiche in tribunale, non può difendersi adeguatamente (il confronto con l’avvocato avviene solo per telefono) e può dire la sua solo se il giudice non decide di premere un pulsante e tagliare il collegamento audio e video. Nemmeno l’inquisizione era riuscita a far sparire il corpo e la voce degli accusati. Quello di risparmiare sulle spese di trasferimento dal carcere al tribunale è uno sfacciato pretesto: ci sono detenuti che vengono portati in altri carceri dotati dei collegamenti per la videoconferenza invece di essere portati direttamente nei tribunali della stessa regione. Se poi – questa è la tendenza – in futuro le sentenze verranno stabilite dagli algoritmi, le macchine giudicheranno degli umani che aspetteranno la loro sorte dietro gli schermi: un indubbio risparmio di tempo e di carta. Al totalitarismo non si arriva mai tutto d’un colpo, né è mai esistito un potere che affermi di perseguire dei fini apertamente malvagi. La guerra viene promossa in nome della “pace”; la repressione si chiama “sicurezza”; chi si ribella è un “terrorista”.
C’è però un aspetto con cui Stato, padroni e tecnocrati non hanno fatto i conti: la variante umana. Questa si esprime in mille modi: i corpi dei detenuti che si prendono lo spazio con le proteste e le rivolte; i disertori che si rifiutano di diventare carne da cannone; le disfattiste e i disfattisti che sabotano la macchina della guerra; i lavoratori e le lavoratrici che scioperano; il popolo palestinese che resiste. Il prigioniero palestinese Anan Yaeesh (in carcere insieme a Juan), accusato di “terrorismo” da uno Stato italiano complice del sistema genocida israeliano, ha scritto in una sua commovente dichiarazione di sentirsi privilegiato, lui chiuso in una cella, rispetto al suo popolo costretto a vivere tra le macerie, sotto le bombe, senza acqua né elettricità; un popolo imprigionato in un campo di concentramento high tech, ma che la strapotenza israeliana non riesce a domare.
Se i partigiani palestinesi sono “terroristi”, allora diventa motivo di orgoglio essere inquisiti per “terrorismo”, come la polizia politica e la Procura stanno facendo per l’ennesima volta contro anarchiche e anarchici trentini (tra cui Stecco e Juan).
Lo sbaglio dei potenti è pensare che lo spirito di rivolta e l’umano gesto di rifiuto possano essere previsti e impediti dalla smisurata potenza di calcolo delle loro macchine.
Libertà per Juan e Stecco
Basta videoconferenza, vogliamo vedere i nostri compagni in aula!
Con Gaza nel cuore, contro guerra e repressione
anarchiche e anarchici