Luci da dietro la scena (XVI) – Riflessioni sulla guerra

Un fatto di politica interna (e il più atroce di tutti)

«Il rischio, se non ci impegniamo in un serio tentativo di analisi, è che un giorno o l’altro la guerra ci sorprenda incapaci non solo di agire, ma persino di giudicare.

[…] Il metodo materialista consiste innanzitutto nell’esaminare qualsiasi fatto umano tenendo conto, più che dei fini perseguiti, delle conseguenze che necessariamente comportano i mezzi utilizzati. Non si può risolvere e neanche soltanto porre un problema relativo alla guerra senza aver prima smontato il meccanismo della lotta militare, vale a dire analizzato i rapporti sociali che essa implica in determinate condizioni tecniche, economiche e sociali.

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Da una parte la guerra non fa che prolungare quell’altra guerra che si chiama concorrenza, e che fa della produzione stessa una semplice forma della lotta per il predominio; dall’altra, tutta la vita economica è attualmente orientata verso una guerra a venire. In questo inestricabile intreccio del militare e dell’economico, in cui le armi sono messe al servizio della concorrenza e la produzione al servizio della guerra, la guerra si limita a riprodurre in maniera esasperata i rapporti sociali che costituiscono la struttura stessa del regime.

[…] Allo stesso modo la guerra, ai giorni nostri, si definisce in quanto subordinazione dei combattenti agli strumenti di combattimento; e gli armamenti, veri eroi delle guerre moderne, sono, al pari degli uomini consacrati al loro servizio, retti da coloro che non combattono. E poiché questo apparato dirigente non ha altro modo di sconfiggere il nemico che costringere i propri soldati ad andare incontro alla morte, la guerra di uno Stato contro un altro Stato si trasforma in guerra dell’apparato statale e militare contro il proprio esercito; e la guerra si presenta in definitiva come una guerra condotta dall’insieme degli apparati di Stato e degli stati maggiori contro l’insieme degli uomini validi in età da portare le armi. Senonché, mentre le macchine si limitano a strappare ai lavoratori la loro forza lavoro, e i padroni come strumento di coercizione hanno solo il licenziamento (arma resa meno efficace dalla possibilità che il lavoratore ha di scegliere fra i diversi padroni), ogni soldato è costretto a sacrificare la sua stessa vita alle esigenze della macchina militare, e vi è costretto con la minaccia di una condanna a morte senza appello che lo Stato tiene incessantemente sospesa sulla sua testa. A quel punto importa poco che la guerra sia difensiva oppure offensiva, imperialista o nazionale; ogni Stato in guerra è costretto a usare questo metodo, dal momento che lo usa il nemico. Il grande errore di quasi tutti gli studi sulla guerra, errore nel quale sono caduti specialmente i socialisti, è di considerare la guerra come un episodio di politica estera, mentre costituisce innanzitutto un fatto di politica interna – e il più atroce di tutti.

Una labile possibilità

Qui il punto non sono riflessioni sentimentali o un rispetto superstizioso della vita umana, ma un’osservazione molto semplice: che il massacro è la forma più radicale di oppressione, e i soldati non si espongono alla morte, ma sono mandati al massacro. Come un apparato oppressivo, una volta costituito, sussiste finché non viene abbattuto, ogni guerra che fa pesare un apparato incaricato di dirigere le manovre strategiche sulle masse che vengono costrette a servire da masse di manovra dev’essere considerata come un fattore di reazione, anche se a farla sono dei rivoluzionari. Quanto alla portata esterna di una tale guerra, essa è determinata dai rapporti politici stabiliti all’interno: armi maneggiate da un apparato di Stato sovrano non possono apportare la libertà a nessuno.

[…]

La guerra rivoluzionaria è la tomba della rivoluzione, e tale resterà fintanto che non si sarà dato modo ai soldati stessi, o meglio ai cittadini armati, di fare la guerra senza apparato dirigente, senza pressione poliziesca, senza giurisdizione speciale, senza pene per i disertori. […] Eppure è su questa labile possibilità che occorre puntare, o abbandonare ogni speranza.

Come un’immensa macchina

A maggior ragione, una guerra intrapresa da uno Stato borghese non può che trasformare il potere in dispotismo, e l’asservimento in assassinio. […] Ai giorni nostri, la difficoltà che la guerra non fa che acuire è quella che nasce da una rivalità sempre più grande fra l’apparato statale e il sistema capitalistico […]. L’ultima guerra ha conferito ai diversi apparati di Stato una certa autorità sull’economia, mettendo in uso l’espressione assolutamente erronea di «socialismo di guerra»; dopo di che il sistema capitalista si è rimesso a funzionare in maniera più o meno normale, a dispetto delle barriere doganali, del contingentamento e delle monete nazionali. In una prossima guerra le cose andrebbero senz’altro molto più lontano, e noi sappiamo che la quantità è in grado di trasformarsi in qualità. In questo senso, la guerra può costituire ai giorni nostri un fattore rivoluzionario, ma solo a voler intendere il termine rivoluzione nell’accezione adottata dai nazionalsocialisti: come la crisi, la guerra provocherebbe una viva ostilità contro i capitalisti, e tale ostilità, favorita dall’«unione sacra», tornerebbe a vantaggio dell’apparato statale e non dei lavoratori. […] Risulta quindi lampante l’assurdità di una lotta antifascista che assumesse la guerra come strumento d’azione. Non solo si finirebbe per combattere un’oppressione barbara schiacciando i popoli sotto il peso di un massacro ancora più barbaro, ma si finirebbe per estendere sotto altra forma il regime che si vuole sopprimere. È puerile supporre che un apparato statale reso potente da una guerra vittoriosa si metta ad alleviare l’oppressione che esercita sul proprio popolo l’apparato statale nemico […]. Sembra che in genere la storia costringa sempre più ogni azione politica a scegliere tra l’aggravarsi dell’oppressione intollerabile che esercitano gli apparati statali e una lotta senza quartiere rivolta direttamente contro di essi per distruggerli. Certo, le difficoltà forse insormontabili che si presentano ai giorni nostri possono giustificare l’abbandono puro e semplice della lotta. Ma se non si vuol rinunciare ad agire, bisogna comprendere che non si può lottare contro un apparato statale se non dall’interno. E, soprattutto in caso di guerra, bisogna scegliere fra l’intralciare il funzionamento della macchina bellica, della quale siamo un ingranaggio, e l’aiutare quella macchina a stritolare alla cieca le vite umane. La celebre espressione di Liebknecht: «Il nemico principale è nel nostro stesso paese» acquista così tutto il suo significato, e si rivela applicabile a ogni guerra in cui i soldati sono ridotti allo stato di materia passiva in mano a un apparato militare e burocratico – vale a dire, fintanto che persisterà la tecnica attuale, a ogni guerra in senso assoluto.

[…] La società attuale somiglia a un’immensa macchina che risucchi incessantemente degli uomini, e di cui nessuno conosca i comandi; e coloro che si sacrificano per il progresso sociale sono come persone che si aggrappano agli ingranaggi e alle cinghie di trasmissione per cercare di fermare la macchina, facendosi stritolare a loro volta. Ma l’impotenza in cui ci si trova a un certo punto, impotenza che non è mai da ritenere definitiva, non dispensa dal restare fedeli a se stessi, né giustifica la capitolazione davanti al nemico, indipendentemente dalla maschera che assume. E di qualunque nome esso si fregi – fascismo, democrazia o dittatura del proletariato –, il nemico principale resta l’apparato amministrativo, poliziesco e militare; non quello che ci fronteggia, e che è nostro nemico solo in quanto lo è dei nostri fratelli, ma quello che si dice nostro difensore e fa di noi i suoi schiavi. In qualunque circostanza, il peggior tradimento possibile consiste sempre nell’accettare di sottomettersi a questo apparato e, per servirlo, di calpestare in sé come negli altri tutti i valori umani».

(brani tratti da Simone Weil, Réflexions sur la guerre, «La Critique sociale», X, novembre 1933)

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Luci da dietro la scena (XVI)