Varcare la soglia

Il mio mondo, fattosi piccolo piccolo, è popolato in queste settimane – di giorno e talvolta anche di notte – di pensieri che non mollano la presa: il carcere, la guerra, la megamacchina che ne riproduce gli orrori e gli ingranaggi. Per uscirne, ho afferrato questo cesto di emozioni:

«Nel cortile dove vado a passeggiare arrivano di frequente carri dell’esercito, zeppi di sacchi o vecchie giubbe e casacche militari, spesso con macchie di sangue. Vengono scaricate, distribuite nelle celle per i rattoppi e quindi di nuovo caricate e rispedite all’esercito. Qualche tempo fa è arrivato un carro tirato da bufali anziché da cavalli. Per la prima volta ho visto questi animali da vicino. Di struttura sono più robusti e più grandi rispetto ai nostri buoi, hanno teste piatte e corna ricurve verso il basso, il cranio è più simile a quello delle nostre pecore, completamente nero e con grandi occhi mansueti. Vengono dalla Romania, sono trofei di guerra… I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto “vae victis”… […].
Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi, accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. “Neanche per noi uomini c’è compassione” rispose quello con un sorriso maligno e battè ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla violenza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime — erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! Quanto erano diversi, laggiù, lo splendore del sole, il soffio del vento, quanto era diverso il canto armonioso degli uccelli o il melodico richiamo dei pastori! E qui… questa città ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh mio povero bufalo, mio povero, amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia. Intanto i carcerati correvano indaffarati qua e là intorno al carro, scaricavano i pesanti sacchi e li trascinavano dentro l’edificio; il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi…».

Questo celebre brano è contenuto nella lettera, datata dicembre 1917, che Rosa Luxemburg scrisse all’amica Sonja Liebknecht dalla prigione di Breslavia nella quale era rinchiusa da tre anni per la propria opposizione alla guerra. Così Karl Kraus, sulla «Fackel» del luglio 1920, a meno di un anno dall’assassinio di Rosa da parte degli sgherri di Noske: «Sia coperta di onta e disonore qualsiasi repubblica che, nonostante ogni cristianesimo dei catechismi e delle granate, non accolga nei suoi libri di scuola, tra Goethe e Claudius, questo documento di umanità e poesia, unico nel mondo di lingua tedesca, e che non insegni alle generazioni future, affinché provino orrore per gli uomini di questo tempo, che il corpo in cui era racchiusa un’anima così elevata fu massacrato a colpi di calcio di fucile. Non si danno, nell’intera letteratura tedesca del presente, lacrime simili a quelle di questa rivoluzionaria ebrea e non vi sono pause simili a quella che segue la descrizione della pelle del bufalo: “ma quella era lacerata”».

L’anarchico ebreo-tedesco Gustav Landauer, in un suo saggio del 1918 dedicato al «fondamento animale», ricordava di aver provato affetto, durante la reclusione, per la mosca che gli teneva compagnia. E affermava che per preparare lo spirito della rivoluzione attraverso la rigenerazione dello spirito «dobbiamo sostare presso la nostra animalità». Solo così possiamo smettere di macchinizzare noi stessi trasformando gli altri viventi e la natura in trofei di guerra; solo così possiamo evadere dal carcere in cui siamo rinchiusi e dalla «città ignota e abominevole» che lo contiene.
Per la sua partecipazione all’effimera Repubblica dei Consigli di Baviera – fece in tempo, nella settimana in cui fu «commissario del popolo per l’istruzione», a tratteggiare una riforma della scuola che aboliva i presidi e i banchi, insieme a ogni traccia di militarismo, coniugando cultura classica, scienza e attività manuale… – , questo fecero a Gustav, il 2 maggio 1919: «Coi calci del fucile Landauer viene spinto verso il cortile […]. Nel cortile il gruppo s’imbatte nel barone Von Gagern che picchia Landauer con una mazza a martello. Sotto i colpi del maggiore, Landauer crolla al suolo; si rialza tuttavia e tenta di parlare, ma il vicemaresciallo gli spara addosso, un colpo lo raggiunge alla testa […] Landauer ha ancora qualche sussulto. Il vicemaresciallo lo calpesta coi piedi finché non è ben morto». Un uomo dolcissimo, una pelle lacerata come quella del povero bufalo, prigioniero in un altro cortile.

Nel suo ultimo discorso pubblico – pronunciato il 18 dicembre del 1918 durante il Consiglio provvisorio della Repubblica di Baviera –, dopo aver denunciato le responsabilità dello Stato tedesco nella carneficina mondiale, Landauer ci ha lasciato questo invito al viaggio: «Rivoluzione significa nuovo spirito. E in verità non è forse uno spirito nuovo, autentico, creativo, unificante, quello grazie al quale ciò che è stato preparato da pochi con la rivoluzione si riverbera sul popolo intero? […] Il problema non si poteva risolvere scientificamente e non è stato risolto scientificamente: è stato risolto dallo spirito. Lo spirito è qualcosa di molto diverso dalla scienza. Si ha spirito quando il sapere, il sentire, il volere si fondono in un’unità e agiscono. Così è accaduto. […] Ciascuno è chiamato a sopprimere il partito che ha dentro di sé, ciascuno è chiamato con modestia a brindare alla rivoluzione dicendo: “Sì, non l’avevo immaginato, sì, qualcosa di nuovo mi ha coinvolto, ma non partendo dall’esterno; è qualcosa di nascosto e di sepolto in me che adesso deve venir fuori, qualcosa di cui intendo prendermi cura, che voglio elaborare. […] E colui che lo dice non ha bisogno di aggiungere: “Mi pento”, non ha neppure bisogno di affermare: “Mi sono sbagliato”: basta solo che dica: “Sì, vengo con voi, sì, questa è anche la mia via, sì, ora sento crescere in me un po’ di gioia!».