Tecnocrati, leccaculi e delinquenti
«Esimio Presidente Draghi, mi scuso in anticipo di queste mie parole. Le sto, infatti, scrivendo per chiederle di umiliarsi.
[…] Scendere a patti con la misera morale che spesso, troppo spesso, accompagna la condizione umana dei politicanti è mortificante per chiunque. Eppure, sicuro di interpretare il sentire di moltissimi italiani, è proprio questo che le chiedo di fare.
Qualunque cosa si voglia pensare di lei, non si può negare che la sua sia la storia di un uomo di straordinario successo. Durante tutta la sua vita, lei ha bruciato le tappe di una carriera formidabile.
Prima da Governatore della Banca d’Italia e poi da Presidente della Banca centrale europea, lei ha retto le sorti di una nazione e di un continente; le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore, sorretto da una potente competenza, baciato dal successo, guadagnando una levatura internazionale, un prestigio globale, un posto di tutto rispetto nei libri di storia. Ha conosciuto il potere, quello vero, ha conosciuto la fama degli uomini illustri, la vertiginosa responsabilità di chi, da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti».
Questo scriveva, il 17 luglio scorso, lo “storico” e docente universitario Antonio Scurati sul «Corriere della Sera» (in un pezzo dal titolo Caro presidente, ecco perché non deve mollare). Di fronte a un tale «Himmalaya di stupidità servile» – impareggiabili quelle «sorti di una nazione e di un continente» da Draghi «tenute in pugno con il piglio del dominatore» – ho pensato immediatamente all’antologia Leccaculi e delinquenti pubblicata nel lontano 1971 dalle edizioni Underground-La Fiaccola: una raccolta di pezzi scritti durante il fascismo da alcuni dei futuri politici, giornalisti, filosofi, uomini di lettere della «Repubblica nata dalla Resistenza». Rileggendo quei «capolavori di servilismo ottuso», il parallelismo con la prosa dello Scurati si è fatto assai suggestivo. Ecco un esempio: «[…] ci sono molti modi di amare Mussolini: come padre della patria, come instauratore di un ordine nuovo, come vate di giustizia, come “uomo che ha successo”. Molti modi – e tutti veri e tutti, anche, irriverenti. Infatti ci sono nella storia altri padri della patria, altri instauratori di ordini nuovi, altri vati di giustizia, altri beniamini del successo; amati al pari di Mussolini; ma non, quanto Lui, combattuti e venerati, discacciati e assetatamente ricercati dalle coscienze ch’Egli stesso ha foggiato, che tutto Gli debbono e, per questo, tutto talvolta Gli negano. Amarlo. Ma non desiderare di essere le favorite di un harem. Aspirare alla Sua stima, ma non mendicare il Suo encomio. Amarlo: ma senza epilessia e senza il gusto sadico di farsene picchiare e schernire. Amarlo senza umiliarsi – difficile cimento –, da quei liberi e forti uomini che debbono essere i figli di Mussolini» (Indro Montanelli, «Meridiani», ottobre 1936).
Se in quella ormai ingiallita antologia avessi trovato solo esempi di invarianza storica in materia di prostituzione intellettuale, non ne avrei scritto. Ma ho trovato anche, in Leccaculi e delinquenti, una penetrante spiegazione ante litteram dell’odierna repressione contro le lotte dei facchini, contro le pratiche dello sciopero, del picchetto e del blocco. Una spiegazione che parte dal ruolo storico del fascismo: farla finita con lo scontro di classe. Per difendere cotanta missione, non basta il leccaculo; ci vuole proprio il delinquente, cioè un «filosofo di razza» come Ugo Spirito. Su «La Stirpe» di dicembre 1935, troviamo a sua firma un lungo articolo dal titolo Gerarchia del lavoro e fine del sindacato.
Questo l’ambizioso programma: «Allorché ci si pone il problema delle gerarchie e si definisce il fascismo regime gerarchico, s’intende appunto sostituire a un criterio naturalistico ed ereditario un principio spirituale di selezione. Le diversità economiche e politiche sono portate al livello tecnico, garanzia di superiore oggettività. La coscienza gerarchica del fascismo è nell’intuizione che la storia della civiltà consiste nel processo di tecnicizzazione delle gerarchie politiche. […] Il motivo sentimentale, pietoso e lusingatore, del socialismo [nonché «il fine precipuo del sindacato: la difesa degli interessi del lavoratore o meglio delle classi opposte»] non ha più alcuna giustificazione una volta costruita la gerarchia tecnicamente».
Ecco ben spiegata la tecnocrazia (che non è affatto il «governo dei tecnici», bensì, appunto, la «tecnicizzazione delle gerarchie»). Per raggiungere una compiuta tecnocrazia, i mezzi accumulati – di regime in regime, di ristrutturazione in ristrutturazione – sono oggi finalmente adatti al compito: automazione integrata (robotica e «Internet delle cose»), comando algoritmico e ingegneria dei comportamenti, fusione tra managment aziendale e organigramma militare, sensoristica di collegamento tra l’organico e il digitale, efficienza come valore in sé (i problemi non si discutono, si risolvono – gli ordini non si commentano, si eseguono). Ecco il modello Amazon.
Esso si è imposto nella logistica, dove punta ormai all’egemonia, ma si sta allargando a tutto: dalle piattaforme informatiche agli aeroporti, dalla colonizzazione dello spazio al land grabbing, dalla telemedicina ai farmaci genetici. Dentro quel modello, persino la negoziazione sindacale – che in passato ha saputo offrire anche utili servigi al capitalismo e allo Stato nello scongiurare ben altri conflitti – diventa un affronto, un’associazione a delinquere, un’estorsione.
Scriveva sempre Ugo Spirito: «Non v’è nessuna ragione per non trasportare nel campo del lavoro il criterio gerarchico oggi vigente nell’amministrazione dello Stato e trasportarlo anzi con gli stessi gradi»; «non più classi contrapposte, ma tredici o più gradi di un’unica scala che tutti possono salire: non presunta e irrealizzabile pariteticità, ma selezione continua dei migliori».
La società delle classi e dello Stato sta procedendo spedita verso una sorta di corporativismo digitale. In alto la concorrenza è spietata (meno può sostituire gran parte dei lavoratori con processi automatizzati, più l’impresa è spinta a sfruttarli oltre ogni limite); più la scala si avvicina al suolo (da chi consegna le merci a chi le smista, da chi trasforma le materie prime in prodotti a chi le estrae dalle viscere della terra), più il silicio dei circuiti è irrorato dal sudore e dal sangue degli umani.
Dietro il manganello del poliziotto e lo zelo inquisitoriale del giudice contro le lotte dei facchini ci sono le nuove corporazioni – fusione di impresa e Stato –, cioè il progetto totalitario di società che esse portano con sé: industrializzazione di ogni aspetto della vita, tecnicizzazione delle gerarchie economico-politiche, devastazione del Pianeta.
Se il «pilota automatico» è questo, sabotaggio non è affatto un insulto. È un titolo di merito: un piolo segato nella scala che porta al mondo degli umani-macchina, garantito dagli schiavi della sua logistica.
È evidente che di fronte al modello-Amazon la conflittualità nei magazzini non può tenere da sola, né bastare. Serve uno zoccolo duro di inedite proporzioni.