Ancora sulla maledizione pandemica che ha colpito la sinistra di classe (II)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo la terza (e ultima) parte degli appunti e riflessioni attorno alla “maledizione pandemica” scritti in questi due mesi da Nicola. Quest’ultima parte – anch’essa approfondita e ricca di spunti come le due precedenti – si concentra sulle dinamiche strutturali del capitalismo internazionale che hanno fatto dell’Emergenza un acceleratore di contro-riforme in tutti gli ambiti della società. Le questioni sollevate sono quelle oggi decisive, per cui ben venga una discussione al riguardo. Accenneremo qui solo a due elementi di disaccordo. Se la riflessione di Nicola si differenzia da gran parte degli approcci marxisti in circolazione per il modo originale e radicale con cui egli affronta il problema delle tecno-scienze, permane in essa l’idea che digitalizzazione e sviluppo tansumanista siano semplici funzioni della valorizzazione capitalistica, mentre sono, a nostro avviso, delle determinanti sempre più autonomizzate. La costante fuga in avanti tecnologica, insomma, non è solo la benzina più innovativa e redditizia per il capitale totale, ma il motore stesso della sua (ben contraddittoria!)“totalizzazione”. L’ altro appunto è apparentemente più pedante, in quanto legato alle scelte lessicali. Se il capitale è comando (e proprio “comando” significava in origine la parola greca arché) definire “anarchico” il modo di produzione capitalistico non è affatto un argomento contro il capitalismo, ma contro l’anarchismo. Cioè un “dettaglio” su cui non possiamo sorvolare.

Detto questo, le riflessioni di Nicola sono tra le più calzanti che abbiamo letto in questi mesi di naufragio intellettuale, etico e pratico. Buona lettura.

Ancora sulla maledizione pandemica che ha colpito la sinistra di classe (II)

Agli Appunti (https://ilrovescio.info/2021/08/18/appunti-e-spunti-di-riflessione-sulla-maledizione-pandemica/) è seguito un articolo sulla contraddizione capitale/natura (https://ilrovescio.info/2021/09/23/ancora-sulla-maledizione-pandemica-che-ha-colpito-la-sinistra-di-classe-i/). Nel presente (terzo e ultimo) si esamina un’altra questione che ha avuto diffusione nell’ambito della sinistra di classe (la composita galassia di tendenze antagoniste e/o rivoluzionarie) dinanzi all’evenienza della pandemia, della sua gestione politico-sanitaria e delle proteste di piazza contro lasciapassare e obbligo vaccinale. Entrambi questi articoli sono il frutto di sollecitazioni e osservazioni ricevute da lettori dei primi appunti e di un confronto e suggerimenti da parte di altri compagni che ne hanno discusso prima della pubblicazione. I temi affrontati in questa sede sono particolarmente complessi, e saranno trattati, inevitabilmente, solo per quel che riguarda i loro aspetti essenziali, rinviando, per il resto, a necessari ulteriori approfondimenti che coinvolgano, si spera, una crescente pluralità di militanti anti-capitalisti determinati a non farsi trascinare nella deriva dell’attuale sinistra di classe.

Crisi del capitale e totalitarismo

I governi occidentali hanno affrontato l’emergere della pandemia con confusione e approssimazione. Ciò è interpretato nella sinistra di classe come prova che il capitale stia precipitando in crescenti difficoltà, e chi, invece, vi vede la realizzazione di un progetto unitario non coglierebbe la profondità della crisi del capitale, ma che esso si stia addirittura “totalitariamente” rafforzando, mettendo in atto un proprio piano lucidamente perseguito oppure iscritto in un suo moto materialisticamente determinato.

Un “piano del capitale” non esiste, né può esistere per un modo di produzione che deve necessariamente coltivare la concorrenza. Ciò, però, non toglie che ci siano forze organizzate raccolte intorno alle fazioni dominanti (divenute tali proprio grazie alla concorrenza, dei capitali non delle merci) che elaborino piani per rispondere alle difficoltà proprie e dell’intero sistema, che sono oggi di duplice natura: innalzare l’estrazione di plusvalore in Occidente e, insieme, ridurre alla ragione quel mondo oppresso imperialisticamente che prova (per necessità economiche e, in ultima istanza, per i conflitti sociali interni) a scuotersi dal giogo. Difficoltà inedite, sconosciute, mai affrontate prima, non per qualità ma per intensità, e che, proprio per questo, esigono il ricorso a soluzioni inedite, e, quindi, inevitabilmente sperimentali per lo stesso capitale.

Il piano prevedeva l’invenzione del virus? Questa è questione di dettaglio. Che sia spillover o produzione artificiale quel che conta è l’uso che ne viene fatto. Sul punto, tuttavia, sembra piuttosto credibile la ricostruzione cinese: fuga dal laboratorio Usa di Fort Detrick, con polmoniti atipiche nei paraggi (e chiusura del laboratorio per disinfestazione nel luglio ’19), infezione (casuale o programmata, poco importa) dei militari che nell’ottobre partecipano alle Olimpiadi di Wuhan, diffusione del contagio nella città (peraltro, tracce che il virus circolasse prima dell’ottobre sono state rilevate anche in Spagna e Italia). I cinesi (in allerta per il rischio della riapparizione della Sars) individuano come causa della malattia un coronavirus simile a quello della Sars. La Cina affronta il problema come possibile attacco biologico e ben presto lo mette sotto controllo, anche perché il virus si rivela subito altamente contagioso ma in grado di procurare gravi danni a una porzione molto ridotta della popolazione, anziani affetti da altre morbilità.

Al di là dell’origine, viste le cose in Cina (quelle reali, non le rappresentazioni dei media teatralmente anti-cinesi), anche in Occidente si aveva inizialmente piena fiducia di affrontare eventuali contagi senza grosse difficoltà.

Poi qualcosa cambia l’approccio politico-sanitario. Contro tutte le evidenze cinesi si inizia a martellare che si tratta di un nuovo virus, altamente contagioso e letale, impossibile da curare, che si può affrontare solo con rimedi non-farmacologici (distanziamento sociale, confinamento, blocco dell’economia, tracciamento, ecc.) in attesa della scoperta del vaccino. La tesi è sostenuta dagli stessi esperti che poco prima rassicuravano sulla facile gestione dell’eventuale diffusione del contagio. Perché cambiano tesi? Quali fatti nuovi sono intervenuti? Per qualcuno non è il caso di fidarsi delle notizie cinesi, in palese sfregio all’evidenza che mostra la Cina, dopo un efficace contrasto, riprendere tutte le attività senza morti per le strade (che non c’erano mai state) e neanche negli ospedali. La nuova tesi è promossa dall’Oms, il cui direttore, senza alcun atto formale, dichiara che quella in atto si può considerare una pandemia. L’Oms classifica la malattia Covid19 e sostiene che non esistono cure, salvo futuribili vaccini. Non dispone ufficialmente metodi di contrasto non-farmacologici, ma lascia intendere ufficiosamente che distanziamento, mascherine, confinamenti dei sani, ecc. possano essere utili a contenere il contagio. Uno a uno tutti i governi occidentali si allineano e nominano propri esperti sulla base unica della condivisione delle tesi Oms. Alcuni paesi occidentali e diversi non-occidentali respingono o accolgono con perplessità le direttive ufficiali e ufficiose dell’Oms, ma sono vittime di vere e proprie aggressioni politico-mediatiche (e come la Bielorussia, anche finanziarie del Fmi…).

L’assunzione della gestione della pandemia da parte dell’Oms è fatto innegabile. D’altronde, chi altri ne potrebbe guidare il contrasto? Chiedersi, quindi, se l’Oms sia mossa da sani princìpi di tutela della salute o da altri interessi, è, come dire, il minimo sindacale. Non ci vuole molto per rispondere. L’organismo (come Ema e Fda) è controllato da chi lo finanzia, le principali aziende farmaceutiche, finanziarie e della tecnologia informatica. La miglior rappresentanza del capitale mondiale che domina nei tre settori, che è in grado di orientare (se necessario col ricatto) il rimanente capitale occidentale e condizionare quello non-occidentale, che per accedere ai mercati mondiali necessita del lasciapassare (mai gratuito…) di chi li domina.

L’Oms e i suoi controllori stavano lavorando da anni all’ipotesi di devastante pandemia provocata dallo spillover di un virus. Non è complottismo, seminari, studi, eventi (come Event 201) ci sono stati. Quando il virus è arrivato, queste forze non hanno fatto altro che cercare di attuare quanto programmato.

Cosa avevano programmato? Un salto verso vaccinismo, tele-medicina, diffusione in grande scala delle tecnologie informatiche a sanità, produzione, commercio, all’insieme della vita sociale. Un programma teso a rinforzare il loro dominio su tutta la produzione e la riproduzione del capitale e della stessa vita. L’obiettivo è uscire dalla crisi, incrementare l’estrazione di plusvalore, soprattutto in Occidente, razionalizzare l’appropriazione del plusvalore, dirottandolo esclusivamente (o quasi) al grande capitale, riformare le società, erodendo le condizioni di vita di proletariato e ceti medi (sia proprietari che cognitivi), e, assieme, rinsaldare il dominio imperialistico sul mondo.

Un obiettivo del solo grande capitale, assimilabile alla cupola oligarchica massonica o rettiliana dipinta da certi complottisti? Oppure un obiettivo perseguito nell’interesse dell’intero sistema?

Ove si ricordi che il profitto del singolo capitale non è quello prodotto dai propri lavoratori, ma che esso si appropria di una quota del plusvalore globalmente prodotto, la risposta è elementare: il grande capitale si incarica di individuare una soluzione alla crisi generale del rapporto di capitale, ritornata con forza dal 2007, dopo alcuni decenni in cui l’accumulazione era stata rilanciata ed estesa.

Quel rilancio è stato possibile grazie all’espansione del rapporto di proletarizzazione e all’immissione nel mercato del lavoro di centinaia di milioni di operai dell’Asia orientale, Cina in particolare, dove sono stati delocalizzati interi rami della produzione ad alta intensità di lavoro e perciò con un’alta produzione di plusvalore. Si è trattato di un allargamento della base produttiva non solo estensiva per il coinvolgimento di nuovi proletari, ma anche intensiva, viste le condizioni salariali, di ritmi e orari di lavoro cui i proletari erano sottoposti. Tale processo ha rappresentato per alcuni decenni un vero e proprio bagno rigeneratore per le sorti dell’accumulazione a scala mondiale, una nuova immane produzione di nuovo plusvalore per rilanciare i profitti ormai asfittici. Ma, come avevano segnalato già la crisi delle Dot.com prima e soprattutto quella del 2007 poi, nemmeno questo processo, pur rappresentando un’incredibile boccata di ossigeno, poteva costituire una soluzione definitiva alle crescenti contraddizioni della valorizzazione capitalistica. Infatti, da una parte, la Cina non ha subìto passivamente il suo pieno coinvolgimento nel mercato mondiale e nella produzione globale di plusvalore, come era invece successo ad altri paesi periferici, e, dall’altra, il proletariato cinese non ci ha messo molto, anche sulla base dei mutati rapporti di forza, a rivendicare, con aperte lotte rivendicative e con la pressione sul partito e sullo stato, una parte più consistente dell’immane ricchezza sociale cui apporta un contributo decisivo. La combinazione di queste due spinte ha comportato che, mentre all’inizio e per una lunga fase i bassi livelli di produttività cinese erano compensati dalle terribili condizioni e ritmi di lavoro, con prevalenza di estrazione di plusvalore assoluto, in seguito si sono via via accoppiati con crescenti incrementi di produttività (con prevalenza di plusvalore relativo), avvicinatisi progressivamente a quella degli stessi settori in Occidente. Così, nei settori produttivi esistenti si è arrivati (in Cina e in tutto il mondo) a un tale livello di riduzione del tempo di lavoro necessario e quindi a un tale livello di plusvalore relativo, che diviene complicato allargarlo ulteriormente.

L’ulteriore diffusione delle tecnologie informatiche e altre innovazioni a produzione e commercio è in grado di produrre un incremento di produttività, che porta nuovi mercati e nuovi profitti a Big Tech, compensati dalla riduzione delle spese improduttive statali per il personale, ma sono in grado di produrre risultati significativi (per l’intero sistema) in termini di plusvalore estorto? E, inoltre, sono in grado di produrre una crescita della massa complessiva di plusvalore che inneschi una nuova fase di rilancio ed estensione dell’accumulazione?

Le innovazioni, di sicuro, determinano un aumento delle spese di capitale costante (in particolare della sua parte fissa) tale da renderle proibitive per le aziende di piccola taglia, destinate così a essere emarginate o assorbite dal grande capitale, o a diventarne dei reparti solo formalmente indipendenti. Oltre questa razionalizzazione nell’appropriazione del plusvalore, l’incremento di produttività per nuovi macchinari e tecnologie deve confrontarsi con il piccolo problema per cui anche eccezionali aumenti di produzione per addetto, a questo punto di sviluppo delle forze produttive e di riduzione della parte di giornata in cui il lavoratore riproduce il valore della propria forza-lavoro, si trasformano in aumenti microscopici del plusvalore estorto, come aveva, peraltro, già argomentato Marx nei Grundrisse1. Microscopici per singolo addetto, microscopici come aumento del plusvalore complessivo prodotto.

Questo handicap non comporta una riduzione della spinta a introdurre nuove tecnologie e macchinari nel processo produttivo, in quanto gli innovatori beneficeranno sempre del vantaggio relativo rispetto ai concorrenti di abbassare temporaneamente il costo di produzione unitario delle proprie merci al di sotto della media sociale valida nello specifico settore. Essendo il capitale anarchico, la singola azienda è spinta dal proprio interesse a incrementare il proprio saggio di profitto e, se possibile, a sbaragliare almeno in parte i concorrenti, appropriandosi magari della loro fetta di mercato.

Ma il vantaggio così acquisito da alcuni singoli capitali non risolve il problema generale del capitale, non produce, cioè, un incremento significativo del tasso di plusvalore prodotto dall’intero sistema e, soprattutto, non produce un incremento della massa complessiva del plusvalore in grado di promuovere una nuova fase di crescita generale dell’accumulazione. Siamo, insomma, di fronte a uno dei limiti storici del capitalismo e alla sua crisi sistemica, che non comporta immaginifici crolli, ma rende limitate e obbligate le direzioni in cui può agire.

Una delle possibili controtendenze è la creazione di nuovi rami produttivi. Ogni nuovo ramo produttivo è destinato a ripercorrere, in tempi sempre più brevi a causa dello sviluppo delle conoscenze e della tecnica, il percorso di quelli precedenti, ma nel tempo impiegato per arrivare a completa maturità, produce forme di organizzazione del lavoro, utilizzo di macchinari e impiego massiccio di mano d’opera per unità di prodotto, che comportano una maggiore quantità di nuovo valore prodotto, tale da incrementare la massa complessiva di valore su cui opera la compensazione tra capitali, o, detto altrimenti, produce un aumento del saggio di profitto medio. È successo negli ultimi decenni con lo sviluppo del settore informatico in combinazione con la delocalizzazione della produzione nell’Asia orientale. Oggi, però, il settore, anche per le richiamate trasformazioni avvenute in Cina, è giunto alla piena maturità produttiva. Con l’internet delle cose e il transumanesimo (l’uomo potenziato dal rapporto con la macchina) sarà possibile creare nuovi mercati, ma ormai il settore non è più in grado di promuovere un incremento della massa complessiva di valore a beneficio dell’intero sistema come aveva fatto agli esordi. Questa contro-tendenza è, quindi, in generale, pur sempre praticabile, ma la velocità con cui i nuovi rami raggiungono la loro maturità la rende, prevedibilmente, non risolutiva, se non per determinati, e sempre più brevi, periodi. Anche perché la domanda di prodotti completamente innovativi non si crea con la bacchetta magica. Si veda, per esempio, la questione dell’energia green presentata come il nuovo ramo produttivo del futuro. L’energia green rispetto a quella delle fonti minerali non è competitiva, di conseguenza non si crea una domanda naturale, ma la domanda deve essere sostenuta dalle politiche globali, dalle imposizioni fiscali e… dai fondi dello stato. Inoltre, una delle componenti decisive per allargare il consumo solvibile è il salario, ma la tendenza generale per rilanciare i profitti è di comprimere il costo della forza lavoro, e ciò crea un’ulteriore difficoltà alla nascita di nuovi rami produttivi.

Una difficoltà aggiuntiva nel contesto di aumento delle contraddizioni intercapitalistiche deriva anche dall’esistenza della mostruosa massa di capitale accumulato che vive sotto forma di capitale speculativo, o fittizio, che, nonostante il crollo provocato da una delle sue cicliche sbornie di denaro che crea denaro, continua a reclamare la sua quota di appropriazione della ricchezza sociale da prelevare sempre dal plusvalore prodotto a scala mondiale. Il fatto è che il capitale finanziario è ormai talmente incistato in quello produttivo che non è possibile liberarsene, o almeno ridimensionarlo drasticamente, con un semplice colpo di bisturi senza conseguenze catastrofiche per l’intero sistema capitalistico. Lo si è visto chiaramente con la crisi del 2007 dove, proprio per evitare un simile rischio, il settore finanziario e speculativo è stato quello maggiormente beneficiato dal sostegno economico degli apparati istituzionali interni e internazionali. Tale sostegno, invece di riversarsi sui settori produttivi in termini di credito per favorire la ripresa economica, come prometteva la narrativa dominante, è stato interamente inglobato nel settore speculativo, non solo per la protervia della finanza, ma anche perché le difficoltà dell’accumulazione erano così elevate per cui nonostante il basso tasso di interesse del credito nessuno aveva interesse a ricorrervi per rilanciare una produzione oramai imballata.

In assenza della possibilità di rilanciare in grande stile l’accumulazione, basata su una complessiva fase espansiva della massa del plusvalore, e non potendo ridurre la torma di capitale che esige la propria valorizzazione, è evidente che diventa più feroce la stessa competizione tra le varie fazioni di capitale per l’appropriazione del plusvalore globalmente prodotto. In competizione tra loro, ma unificate dalla comune necessità di aumentare la massa di plusvalore estorto, dal cui incremento può beneficiare, sia pure a gradazioni diverse, l’intero capitale mondiale.

Di fronte alla difficoltà di promuovere nuovi rami produttivi, e non potendo incrementare significativamente la massa del plusvalore estorto tramite l’innovazione, per tentare di ridare ossigeno all’accumulazione non rimane che incrementare lo sfruttamento operaio. Qui, però, abbiamo visto che è divenuto molto complicato agire in maniera efficace sul versante del plusvalore relativo (poiché il tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore della forza lavoro rappresenta già una quota molto ridotta della giornata lavorativa), si torna, perciò, a puntare in maniera significativa sul plusvalore assoluto, dunque con l’allungamento dell’orario di lavoro o attraverso l’aumento dell’intensità di lavoro. Insieme a queste misure c’è la risorsa ancora più primitiva di abbassare il valore della forza lavoro, non solo e non tanto perché i prodotti necessari alla sua riproduzione calano di valore e quindi di prezzo, ma semplicemente perché la si paga al di sotto del valore acquisito socialmente fino a poco tempo prima. (Non c’è in questo un ritorno al passato oppure una sorta di regressione dal dominio reale del capitale sulle relazioni sociali e produttive. Il dominio reale del capitale su tutta la società è garantito dal completo sviluppo del macchinismo, a cui oggi si aggiunge l’informatica).

Si prospetta insomma un’offensiva al mondo del lavoro salariato e non solo a esso, al cui confronto appare come moderata quella portata avanti dal neoliberismo imperante nei decenni scorsi. Il comando sul lavoro deve diventare pressoché totale. Le sacche di relativo privilegio devono essere completamente azzerate, attraverso l’ulteriore proletarizzazione dei ceti medi e la loro immissione sul mercato del lavoro dipendente in diretta concorrenza al resto dei lavoratori già in difficoltà nel tutelarsi dallo sfruttamento. La diffusione spasmodica dell’e-commerce, fortemente incentivata dai vari lockdown, l’ulteriore spinta alla crescita dei centri commerciali, l’introduzione di crescenti oneri burocratici, fiscali e green per le piccolissime aziende, insieme alla diffusione dell’informatica nei processi lavorativi, amministrativi e commerciali, provvederanno a sgrossare notevolmente la massa di ceti medi, produttivi e non, che ancora caratterizza le società occidentali e l’Italia in particolare.

Indicativa, a tale proposito, tra le varie misure in cantiere in Italia, la revisione degli estimi catastali, destinata a intaccare un altro dei paracaduti tipici della precedente società del benessere, la casa di proprietà, al fine di estendere il potere economico delle grandi società immobiliari e finanziarie ma anche di rendere una crescente massa di persone più fluida e disponibile a sottomettersi al lavoro salariato alle condizioni dettate dall’impersonale mercato.

Nella stessa direzione va anche la (contro)riforma della sanità, e l’estensione della tele-medicina, anche esse accelerate dalla gestione politico-sanitaria della pandemia. La sanità costituisce una parte significativa delle spese di riproduzione della vita proletaria. Privatizzarla completamente o aumentare i costi di quella pubblica, liberandola (secondo una tendenza ormai consolidata) anche dei costi delle persone incapaci a provvedere a sé stesse, costringe i proletari, vecchi e nuovi, a rinunciare a una parte crescente di cure necessarie se vogliono farsi bastare il salario per soddisfare altre esigenze all’immediato più vitali, oppure a cercare di incrementare le entrate salariali sottoponendosi più docilmente alle esigenze capitalistiche, con maggiori orari e ritmi di lavoro, effettuazione di più lavori, ecc. Che questo possa produrre come ricaduta la progressiva degenerazione della salute dei proletari è un problema secondario poiché essi possono essere rapidamente sostituiti come pezzi di ingranaggio di un macchinario, o in termini moderni, come una scheda elettronica di un apparato informatico, attingendo anche al serbatoio di carne fresca dai paesi oppressi.

L’insieme delle misure in cantiere ha lo scopo di favorire la precarizzazione crescente del lavoro, la connessa ricattabilità del lavoratore e la sua sottomissione totale alle esigenze del capitale. Esse esigono una radicale ristrutturazione dell’intera società, resa ancora più urgente dal fatto che appare sempre più difficile scaricare i costi della crisi dell’accumulazione sulla parte di mondo che li aveva assorbiti nei decenni successivi agli anni ’80. Cina e Russia stanno progressivamente prendendo la testa di una resistenza contro questa evenienza. La Cina, in particolare, sta cercando di compensare la crisi globale dell’accumulazione con il tentativo di risalire le catene del valore, ossia di riscattare una parte del plusvalore che le viene sottratto dal capitale internazionale, cercando di creare una presenza in proprio sui mercati soprattutto del terzo mondo, con propri marchi, aziende globali, canali finanziari propri, investimenti in infrastrutture, promozione di sviluppo locale, internazionalizzazione del renminbi, ecc. Ove questo tentativo avesse successo (superando gli ostacoli politici, economici, finanziari, geopolitici, militari che gli vengono opposti…) il capitale cinese avrebbe la possibilità di disaccoppiare i termini di precipitazione della crisi dell’accumulazione, rinviandola almeno in parte per quel che lo riguarda. Ma ciò rende, appunto, più drammatica e urgente la necessità del capitale occidentale di procedere alla ristrutturazione delle proprie società.

Data la profondità delle contraddizioni, parimenti profonda deve essere la ristrutturazione per estorcere maggiore pluslavoro proletario, ridurre cospicuamente i redditi dei ceti medi e le quote di plusvalore dei piccoli capitali, e, contemporaneamente, rinforzare la coesione sociale e politica per prevenire (o avere consenso per reprimerli) conflitti sociali e anche in vista degli scontri inevitabili con paesi poco disposti a fare ancora da serbatoio di valore per il capitale occidentale.

Il grande capitale può progettare contorni e passaggi di questa complessiva ristrutturazione, ma l’organo incaricato di darle attuazione non può che essere lo stato. A lui tocca, perciò, recuperare l’autorevolezza a lungo traballante, blindare la propria autorità, rafforzare i meccanismi di controllo e disciplinamento sociale. Tutte cose che lo stato non può realizzare dichiarandole esplicitamente. Non lo ha fatto il fascismo, meno ancora può consentirselo la democrazia formale.

Se il fascismo chiamava il popolo alla mobilitazione attiva a difesa degli interessi nazionali contro i nemici della patria e contro gli interessi imperialistici degli altri paesi, le democrazie cercano, se non di mobilitare attivamente, almeno di ottenere il consenso della maggioranza della popolazione in nome della difesa della salute e del bene dei cittadini, dell’ambiente, dei diritti umani e dei magnanimi propositi di regalare la democrazia ai popoli del mondo liberandoli dai propri regimi oppressivi e dittatoriali. Insomma, a modo loro, chiamano a un’attivizzazione (controrivoluzionaria) in nome della tutela della specie umana.

Non vi è dubbio che l’emergenza pandemica si è presentata… come il cacio sui maccheroni.

Tanto più per alcuni paesi (Italia, Francia, Usa, Australia) in cui l’accumulo delle contraddizioni capitalistiche si era fatto particolarmente preoccupante, per motivi diversi, e che non è indispensabile trattare in questa sede. In quei paesi, prima e più che altrove, è urgente realizzare il passaggio alla blindatura dello stato, alla trasformazione tecnocratica del potere politico, alla messa in opera di un drastico ridimensionamento delle abitudini politiche democratiche (ossia di mediazione sociale), nonché delle abitudini di consumi voluttuari di proletariato e ceti medi, all’estensione in grande scala di forme di lavoro precario che favoriscano l’incremento dell’estrazione di plusvalore assoluto, alla diffusione capillare delle tecnologie informatiche in ogni ambito di vita produttiva e sociale.

Non c’è, quindi, un “piano del capitale”, ma non si può negare che esistano piani elaborati da sue precise fazioni, che oltre a rispondere ai propri specifici interessi, raccolgono le esigenze impersonali del rapporto di capitale e del suo tentativo di scuotersi dalla crisi generale dell’accumulazione. La realizzazione di questi piani dipende da una serie di fattori: rapporti di forza tra fazioni di capitale, rapporti di forza tra stati, capacità dei singoli stati di attivarsi efficacemente (questione che meriterebbe uno specifico approfondimento sulle contraddizioni che emergono ovunque, a partire dagli Usa) e, non ultimo per importanza, dai conflitti sociali. D’altronde, la crisi del capitale non è mai solo economica, ma è sempre anche, se non soprattutto, crisi sociale, cioè degli assetti sociali e dei rapporti tra le classi, anche quando non sono organizzate ufficialmente. È azzardato, per esempio, dire che la crisi del 2007 non sarebbe avvenuta, o non sarebbe stata di soluzione così problematica, se non fosse stato per la pressione del proletariato cinese a rivendicare una parte più consistente della ricchezza sociale alla cui produzione contribuisce? E, si potrebbe aggiungere, se il proletariato occidentale non avesse resistito –in forme esplicite quasi solo in Francia, altrove in forme implicite – alla precipitosa svalorizzazione della sua forza-lavoro che una rapida uscita dalla crisi esigeva? O è azzardato dire, ora, che la diffusa resistenza ai vaccini, al green pass, al disciplinamento sociale, soprattutto se riuscisse a radicarsi anche in settori vitali del proletariato vecchio e nuovo, potrebbe gettare i semi di una resistenza più generale ai piani di rilancio dell’accumulazione capitalista, al punto di ostacolarli in modo significativo?

Quindi, per concludere sul punto: il rapporto di capitale deve affrontare difficoltà crescenti e, per farlo, deve necessariamente trovare un nuovo paradigma, dato che non può riproporre il compromesso socialdemocratico e anche quello neo-liberale non è più sufficiente. Di qui la necessità di accrescere potentemente la produttività dell’intero sistema, il che esige una profonda ristrutturazione della sua gerarchia e dei rapporti sociali, i quali, proprio perché il capitale può concedere molto meno del passato, devono inevitabilmente essere improntati a un più stringente controllo sociale e individuale.

Sono, perciò, proprio le difficoltà crescenti del capitale a costringerlo a una presa sempre più totalitaria sulla società e, soprattutto, sulle classi sfruttate e sui popoli oppressi. La gestione della pandemia, la vaccinazione di massa, la diffusione di lasciapassare (per ora) vaccinali, sono a essa del tutto funzionali.

Nicola

5 ottobre 2021

1 “Quanto più grande è il plusvalore del capitale prima dell’aumento della produttività, quanto più grande cioè è la quantità di plusvalore del capitale presupposto o, in altri termini, quanto più è già ridotta la frazione della giornata lavorativa che costituisce l’equivalente dell’operaio, che esprime cioè il lavoro necessario, – tanto più si riduce l’aumento del plusvalore che il capitale ottiene dall’aumento di produttività” (Grundrisse, ed. La Nuova Italia, Vol. 1, pag. 338).