FUORI DAL VORTICE qualche parola su una nuova operazione repressiva a Genova
Riceviamo e diffondiamo:
Qui in formato opuscolo: fuori dal vortice- operazione repressiva a genova-
FUORI DAL VORTICE
qualche parola su una nuova operazione repressiva a Genova
Il 5 maggio 2024 un partecipato ed energico corteo ha attraversato le vie del centro storico di Genova in solidarietà a 8 compagne e compagni arrestati fuori dallo spazio occupato Ex Latteria. Un corteo nato per rispondere a un intervento brutale in cui i carabinieri, con uno spropositato dispiegamento di forze, l’uso di taser e spray urticanti, hanno compiuto l’ennesimo atto di superflua repressione in cui quotidianamente è possibile imbattersi se si abbandonano le vie patinate dello shopping e ci si spinge tra chi non è perfettamente assimilabile dal sistema, non è conforme o esprime dissenso.
La partecipazione incondizionata, la determinazione e la rabbia di quel corteo hanno provato a ribadire l’inconciliabilità con un presente opprimente e tutti gli apparati che lo sorreggono.
A metà ottobre i giornali rivelano che il PM Longo aveva cercato di accusare già mesi prima 26 persone, scelte secondo il suo discutibile criterio di appartenenza ad aree antagoniste invise alla questura, chiedendo per loro la custodia cautelare in carcere con l’addebito del reato di saccheggio e devastazione. La sua richiesta è stata inizialmente respinta dal tribunale per l’evidente incongruenza dell’apparato accusatorio, tra la frustrazione e l’indignazione di politici forcaioli sedicenti democratici e giornalisti. A seguito della rinnovata richiesta da parte di Longo, che si conferma essere l’ennesimo passacarte delle veline della questura, sono state per ora attribuite misure cautelari a 13 dellx indagatx: rientro notturno, obbligo di dimora e firma quotidiana, attualmente sospese in attesa della cassazione. Inoltre, per questa indagine in corso, ad un compagno di Genova è stato notificato il foglio di via da Genova perché residente in un piccolo comune limitrofo.
Il recupero del reato di devastazione e saccheggio, introdotto in epoca fascista attraverso il famigerato Codice Rocco, è espressamente pensato per reprimere le rivolte spontanee che incendiano città e territori quando le persone sentono che la misura è più che colma, decidono di non tacere e smettono di essere passive, semplici spettatrici. Negli ultimi anni questo capo d’imputazione è stato utilizzato per colpire non solo momenti di piazza, ma ha visto applicazioni in carceri minorili e case circondariali, quando i detenuti in decine di città, isolati e privati della già minima possibilità di comunicare durante la pandemia del 2020, hanno attuato proteste sfociate in disordini durati giorni, represse da interventi brutali e feroci della polizia penitenziaria che hanno portato alla morte di 14 carcerati e centinaia di feriti.
Anche nei CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) della penisola, luoghi di estrema sofferenza ed emarginazione, il reato è stato più volte attribuito a seguito di proteste e rivolte più che legittime, date le disumane condizioni di reclusione e soprattutto l’ingiustificabile detenzione amministrativa di persone migranti rese “clandestine” dal sistema di accoglienza, che nega ogni possibilità di regolarizzare la propria posizione.
Il governo, attraverso campagne di disinformazione mistificatorie, criminalizza il fenomeno della migrazione, creando false narrazioni e cercando di trarre vantaggio dal senso di insicurezza sociale e dall’ostilità tra sfruttati, lusinga il privilegio di chi ha un documento in tasca con l’idea di poter risolvere le dinamiche sociali innalzando muri, aumentando i trasferimenti coatti delle persone migranti e delocalizzando le strutture detentive negli avamposti neo-coloniali, sfruttando l’assoggettamento di paesi limitrofi alla politica della “fortezza Europa”.
L’ingranaggio della reclusione, in tutte le sue forme, continua ad essere ben oliato e chiunque vi si opponga viene colpito da una durissima repressione.
Il fatto che il reato di devastazione e saccheggio sia rimasto quasi invariato dall’epoca fascista (tranne per le aggravanti introdotte con il D.L. “Sicurezza-bis” per fatti commessi nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico) mette in luce come la modalità di gestione dei conflitti all’interno della società non sia cambiata, e che ciò che più intimorisce il potere rimane il pericolo di propagazione di idee sovversive e la diffusione di conflittualità.
Spiccano le pene elevatissime per questo reato, fino a 20 anni di reclusione, ma risulta ancor più pericoloso il concetto di “concorso morale”, secondo il quale è sufficiente un atteggiamento non ostile verso ciò che accade o la semplice partecipazione ad una situazione di piazza per concorrere e supportare il proposito “criminoso” di altrx.
La narrazione poliziesca insiste nel cercare strutture e organizzazioni gerarchiche in azioni spontanee, nella rabbia individuale e nella voglia di scendere in piazza. Questo tentativo di individuare capi e logiche di potere è basato su direttive nazionali, che mirano a criminalizzare le lotte e dissuadere le persone dal partecipare. Essere presenti ad un corteo, scendere in strada, colpire gli strumenti del controllo, esprimere le proprie idee fissandole sui muri, condividere la rabbia contro la gabbia che chiamano normalità e la tirannia che chiamano democrazia è una necessità, un respiro, una gioia collettiva e individuale che non ha un vertice, non segue direttive, straborda da qualsiasi piano prestabilito.
La repressione mira a minimizzare il livello del conflitto, agendo anche preventivamente per minare relazioni di solidarietà e pratiche sovversive, con la volontà di creare un deserto sociale basato sulla paura delle ripercussioni punitive e sulle divisioni interne. È un sistema che si prepara a piegare e bloccare qualsiasi forma di dissenso, producendo nuovi decreti e pacchetti sicurezza, oppure usando vecchie leggi in modi sempre nuovi, per smorzare qualunque istanza di rottura e conflitto, con la volontà di mettere fuori campo chi non accetta di farsi plasmare dal potere.
In uno stato di guerra che è sempre più la realtà quotidiana, le bombe e il sangue decimano vite e distruggono territori: da Gaza al Myanmar, dallo Yemen all’Ucraina, dal Sudan al Pakistan (per un totale di più di 50 conflitti in corso nel mondo). La complicità e il sostegno diretto dell’Occidente sono ormai sotto gli occhi di tuttx: è palpabile l’incrementata militarizzazione di tutta la società, plasmata dall’economia di guerra, sempre più modellizzata in direzione autoritaria e gerarchica con il conseguente aumento della repressione e della censura.
Alzando gli occhi dai nostri dispositivi elettronici, diventati estensione dei corpi umani, è facile accorgersi della corresponsabilità nel saccheggio costante del pianeta in termini umani ed ecosistemici da parte dei governi liberali e del loro braccio armato: i grandi gruppi industriali e di ricerca tecnologica come Leonardo, Fincantieri e l’IIT (Istituto Italiano di Tecnologia), le banche come Intesa San Paolo e Unicredit, le compagnie di armatori come Bahri e MSC, le multinazionali dell’estrattivismo come Glencore o Altamin, i colossi rapaci dell’energia come Eni e gli sfruttatori di terre altrui e disgrazie nostrane come Benetton.
Mentre soffiano ovunque venti di guerra, le condizioni di vita peggiorano e le prospettive si assottigliano, ci sembra normale e legittimo che la rabbia si manifesti in molteplici forme.
Le cause dell’oppressione quotidiana sono riconoscibili in luoghi fisici che le rappresentano e per questo vengono spontaneamente attaccati.
Le lotte di liberazione in luoghi diversi, come in Nepal, Indonesia, Perù, Marocco, Wallmapu, dove individui e popoli hanno deciso di lottare e autodeterminarsi, ci indicano che è giunto il momento di scegliere da che parte stare: se dalla parte di chi con autonomia e coraggio rivendica una vita dignitosa, oppure da quella di chi, dall’alto del proprio potere, bombarda e affama intere popolazioni, sottopone territori alla devastazione, incarcera e rende sempre più fragili e incerte le nostre esistenze.
La violenza di Stato si fa chiamare legge, perciò non ci stupisce che chi la applica tenti di mettere al muro chi intende cambiare radicalmente una società basata su guerre e sfruttamento.
Lx indagatx dalla procura genovese sono di fatto sotto accusa per non essere rimastx in silenzio davanti all’ennesimo episodio di ordinaria violenza autoritaria dei carabinieri.
Le scritte di solidarietà sui muri, le telecamere oscurate, le vetrine delle banche infrante da anonimx autorganizzatx spontaneamente il 5 maggio, sono di sicuro un oltraggio per chi non vuole mettere in discussione i propri privilegi, ma non ci vuole l’intelligenza artificiale per capire che la vera violenza e il saccheggio avvengono tutti i giorni nelle nostre vite, nelle scuole, al lavoro, negli ospedali, dove ognunx di noi è sfruttatx senza ritegno e tutto è schiacciato dal profitto.
Quel giorno la piazza ha saputo mettersi in gioco contro le disuguaglianze e l’oppressione che vengono sistematicamente messe in atto per le strade delle città, nei CPR, nelle carceri, nelle zone in cui il potere porta avanti genocidi e guerre più o meno distanti da qui.
La mobilitazione di quei giorni a Genova ha saputo rompere l’indifferenza in maniera concreta, distruggendo la spirale di passività nella quale ci vorrebbero affossare.
Per questo la nostra solidarietà va a tutte le persone indagate in questo procedimento, allx compagnx recentemente colpitx da provvedimenti tra Catania, Palermo, Bari, Messina, Siracusa, Torino,
ax condannatx del Brennero, a tutte le persone recluse nelle carceri e nei CPR, a tutti i popoli in lotta e a coloro che non si arrendono.
Genova, dicembre 2025
Abbiamo appreso che a metà febbraio avrà luogo l’udienza di cassazione per le misure cautelari, seguiranno aggiornamenti.
